Parabola degli operai alla vigna (329.11)
Un padrone allo spuntare del giorno, uscì per assoldare degli operai per la sua vigna, e pattuì con loro un denaro al giorno.
Uscito all'ora di terza nuovamente, e pensando che i lavoratori presi all'opera erano pochi, vedendo sulla piazza altri sfaccendati in attesa di chi li prendesse, li prese e disse: "Andate nella mia vigna e vi darò quello che ho promesso agli altri". E quelli andarono.
Uscito a sesta e a nona ne vide altri ancora, e disse loro: "Volete lavorare alle mie dipendenze? Io dò un denaro al giorno ai miei lavoratori". Quelli accettarono e andarono.
Uscito infine verso l'undecima ora vide altri stare dimessi all'ultimo sole. "Che fate qui, così oziosi? Non vi fa vergogna stare senza fare nulla per tutto il giorno?" chiese loro. "Nessuno ci ha presi a giornata. Avremmo voluto lavorare e guadagnarci il cibo. Ma nessuno ci chiamò alla sua vigna". "Ebbene io vi chiamo alla mia vigna. Andate ed avrete la mercede degli altri". Così disse perché era un buon padrone ed aveva pietà dell'avvilimento del suo prossimo.
Venuta la sera e finiti i lavori, l'uomo chiamò il suo fattore e disse: "Chiama i lavoratori e paga la loro mercede, secondo che ho fissato, cominciando dagli ultimi, che sono i più bisognosi non avendo avuto nel giorno il cibo che gli altri hanno una o più volte avuto e che, anche, sono quelli che per riconoscenza verso la mia pietà hanno più di tutti lavorato; io li osservavo, e licenziali, che vadano al riposo meritato, godendo con i famigliari i frutti del loro lavoro". E il fattore fece come il padrone ordinava, dando ad ognuno un denaro.
Venuti per ultimi quelli che lavoravano dalla prima ora del giorno, rimasero stupiti di avere essi pure un solo denaro, e fecero delle lagnanze fra di loro e con il fattore il quale disse: "Ho avuto quest'ordine. Andate a lagnarvi con il padrone e non da me". E quelli andarono e dissero: "Ecco, tu non sei giusto! Noi abbiamo lavorato dodici ore prima fra la guazza, e poi al sole cocente, e poi da capo nell'umido della sera, e tu ci hai dato come a quei poltroni che hanno lavorato una sola ora!...Perché ciò?" E uno specialmente alzava la voce dicendosi tradito e sfruttato indegnamente.
"Amico, e in che ti fo' torto? Cosa ho pattuito con te all'alba? Una giornata di continuo lavoro e per mercede di un denaro. Non è vero?"
"Sì. E' vero. Ma tu lo stesso hai dato a quelli, per tanto lavoro di meno..."
"Tu hai acconsentito a quella mercede parendoti buona?"
"Sì. Ho acconsentito perchè gli altri davano anche meno".
"Fosti seviziato qui da me?"
"No, in coscienza no".
"Ti ho concesso riposo lungo il giorno e cibo, non è vero? Tre pasti ti ho dato. E cibo e riposo non erano pattuiti. Non è vero?"
"Sì, non erano pattuiti".
"Perchè allora li hai accettati?"
"Ma... Tu hai detto: <Preferisco così per non farvi stancare tornando alle case>. E a noi non parve vero... Il tuo cibo era buono, era un risparmio, era..."
"Era una grazia che vi davo gratuitamente e che nessuno poteva pretendere. Non è vero?"
"E' vero".
"Dunque vi ho beneficati. Perchè allora vi lamentate? Io dovrei lamentarmi di voi che, comprendendo di avere a che fare con un padrone buono, lavoravate pigramente, mentre costoro, venuti dopo di voi, con beneficio di un solo pasto, e gli ultimi di nessun pasto, lavorarono con più lena, facendo in meno tempo lo stesso lavoro fatto da voi in dodici ore. Traditi vi avrei se vi avessi dimezzata la mercede per pagare anche questi. Non così. Perciò piglia il tuo e vattene. Vorresti in casa mia venirmi ad imporre ciò che ti pare? Io faccio ciò che voglio e ciò che è giusto. Non volere essere maligno e tentarmi all'ingiustizia. Buono io sono."
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