Se vuoi progredire...
11. «Se sei un lavoratore - dice il Climaco - abbi letture pratiche: il metterle
in pratica rende infatti superflua la lettura di altre cose».
Leggi sempre ciò
che riguarda l’esichia ( calma, pace, tranquillità, assenza di preoccupazione ) e la preghiera,
per esempio, le opere del Climaco, di
sant’Isacco, di san Massimo, del Nuovo Teologo, del suo discepolo
Stethatos, di Esichio, di Filoteo Sinaita e simili. Lascia il resto per un certo
tempo, non perché siano cose da rigettarsi, ma perché non giovano allo
scopo e distolgono l’intelletto dalla preghiera per interessarlo a ciò che
narrano. Fai la tua lettura da solo, senza suono orgoglioso di voce, senza
preoccupazione di bella pronuncia tornita o eleganza di linguaggio o diletto
musicale, o trascinato passionalmente, senza accorgertene, dal desiderio di
piacere a qualche assente come se fosse presente. E non essere insaziabile
nel leggere, perché è bello tutto ciò che è misurato. Non bisogna neppure
leggere con rudezza, o con languidezza e trascuratezza, ma con gravità,
moderazione, regolarità, intelligenza, ritmo; bisogna leggere con l’intelletto,
con l’anima e con la ragione. In questo modo l’intelletto, potenziandosi,
prende forza, con l’abitudine, per pregare con vigore. Se invece si fa
diversamente - cioè come si è detto più sopra - all’intelletto ne viene,
oscuramento, rilassamento e stordimento, così che viene a soffrirne il
principio direttivo nel cervello, e l’intelletto non ha vigore per la preghiera.
12. Fai caso anche all’intenzione di tanto in tanto, con indagine
rigorosa, per vedere da che parte inclini: se è cioè secondo Dio per il bene
stesso, per il profitto dell’anima che siedi in esichia o stai a salmeggiare, a
leggere, a pregare o ad attuare una qualunque virtù. Così non ti lascerai
depredare senza averne coscienza e non accadrà che tu sia trovato
esteriormente un lavoratore che tuttavia con la condotta e il pensiero
intende piacere agli uomini anziché a Dio.
Sono infatti molte le insidie dell’ingannatore: stando nascostissimo, egli
guarda l’inclinazione dell’intenzione, resta ignoto ai più e sempre cerca di
depredare il nostro lavoro senza che ne abbiamo coscienza, perché ciò che
si fa non sia fatto secondo Dio. Però, anche se fa guerra aspramente e
sfacciatamente, se tu tieni salda l’intenzione verso Dio, non ti deprederà
tanto anche se l’inclinazione della volontà può essere da lui costretta, nostro
malgrado, a oscillare. Può capitare che qualcuno resti involontariamente
vinto per debolezza, ma prontamente gli viene perdonato ed è lodato da
Colui che conosce le intenzioni e i cuori.
Questa passione - la vanagloria, intendo - non permette al monaco di
progredire nella virtù; anzi egli sopporta le fatiche e poi in vecchiaia si
trova senza frutto. Infatti la vanagloria ha accesso a tutt’e tre le categorie,
cioè al principiante, all’intermedio e al perfetto, e li spoglia dell’attività
delle virtù.
13. Dico, come ho imparato, che senza queste virtù un monaco non
progredisce, senza cioè digiuno, continenza, veglia, sopportazione, fortezza,
esichia, preghiera, silenzio, afflizione spirituale, umiltà: virtù che si
generano e si custodiscono a vicenda.
Dal frequente digiuno, infatti, la concupiscenza affievolita genera la
continenza; la continenza, la veglia; la veglia, la sopportazione; la
sopportazione, la fortezza; la fortezza, l’esichia; l’esichia, la preghiera; la
preghiera, il silenzio; il silenzio, l’afflizione spirituale; l’afflizione
spirituale, l’umiltà. E reciprocamente l’umiltà genera l’afflizione spirituale.
E così, esaminando analiticamente, troverai che, una dopo l’altra, a loro
volta le figlie, in qualche modo, generano le madri. Nelle virtù nulla è più
grande di questa reciproca generazione: è infatti evidente a tutti ciò che vi si
contrappone.
14. Bisogna qui mettere ordine nelle fatiche e nelle pene dell’attività
spirituale e spiegare sapientemente come si debba perseguire ciascuna
attività: perché non accada che qualcuno cammini senza darsi pena,
limitandosi ad ascoltare, e non conseguendone frutto accusi noi o altri come
se le cose non stessero come avevamo detto. La fatica del cuore, infatti, e
quella del corpo sono in grado di compiere un’opera di verità. In forza di
esse si manifesta l’operazione dello Spirito santo data a te e a ogni fedele
tramite il battesimo, sotterrata fra le passioni a causa della negligenza nei
comandamenti e in attesa della nostra conversione - per misericordia
ineffabile - perché alla fine non ci sentiamo dire, per la nostra sterilità,
quella parola: Toglietegli il talento; e: Ciò che crede di avere gli sarà tolto.
Dio ci manderebbe così al castigo, a soffrire eternamente nella geenna.
Infatti ogni attività del corpo e dello spirito compiuta senza travaglio e
fatica non porterà mai frutto a chi la persegue. Poiché il regno dei cieli è
oggetto di violenza, dice il Signore, e i violenti lo rapiscono. E chiama
violenza il provar fatica col corpo in tutte le cose. Forse ci sono molti che
hanno lavorato o lavorano senza fatica parecchi anni, ma per aver portato i
travagli senza fatica e senza un’ardente prontezza di cuore, sono rimasti
privi di purezza e non partecipi dello Spirito santo per aver rifiutato
l’asprezza dei travagli. Quelli infatti che lavorano con negligenza o
rilassamento, forse, secondo loro, faticano molto, ma non vendemmiano
mai un frutto, per l’assenza di travaglio, a causa della loro profonda
insensibilità. Lo attesta colui che dice: «Anche se nel nostro regime di vita
facciamo grandi opere, ma non abbiamo un cuore dolorante, queste opere
sono bastarde e guaste».
Può anche capitare che, pur camminando nella fatica, siamo spinti
dall’accidia a cercare inutili distrazioni e così restiamo oscurati mentre
pensiamo di trovare in esse sollievo: il che non accade, anzi, legati
invisibilmente da indissolubili vincoli, diveniamo privi di movimento e
attività in ogni opera, per il grande rilassamento che ci ha presi, soprattutto
se siamo principianti. Ai perfetti infatti, tutte le cose, fatte con misura, sono
di profitto.
Questo lo attesta anche il grande Efrem che dice: «Faticosamente
affaticati nella fatica per sfuggire i travagli degli inutili travagli». Se, come
dice il Profeta, i nostri fianchi non vengono meno per lo sfinimento dovuto
alla fatica del digiuno, e non abbiamo doglie come chi partorisce un
neonato, per il doloroso raggelarsi del cuore, non concepiremo uno spirito
di salvezza sulla terra del cuore, come hai udito. E poi alcuni di noi si
vantano pensando al lungo tempo trascorso, all’inutile deserto, e al loro
rilassamento come esichia: ma al momento dell’esodo tutti riconosceremo
senza possibilità di dubbio quali siano i frutti.
15. Non è possibile che uno impari da sé la scienza delle virtù, anche se
alcuni si sono serviti come maestro dell’esperienza. Perché il far da sé
anziché col consiglio di quelli che ci hanno preceduto nel cammino, è
presunzione, meglio, la genera.
Se infatti il Figlio non fa nulla da se stesso, ma come gli ha insegnato il
Padre questo fa, e lo Spirito non parla da se stesso, chi è costui che si è
spinto a tale altezza di virtù, da non aver bisogno di un altro che lo inizi? Si
è sviato nella follia, credendo invece di possedere la virtù. Bisogna perciò
lasciarsi persuadere da quelli che conoscono i travagli della virtù pratica, e
perseguire così le virtù: cioè, digiuno che faccia provare la fame, continenza
nell’astenersi dai piaceri, veglia prolungata, stare dolorosamente in
ginocchio, stare faticosamente in piedi senza muoversi, preghiera
perseverante, umiltà non finta, contrizione e gemiti incessanti, silenzio
ragionevole e come salato con sale, sopportazione in tutto.
Non bisogna infatti passare il tempo sempre nel riposo né star sempre
solo seduti prima del tempo o della vecchiaia o della malattia.
Poiché, dice la Scrittura, mangerai le fatiche della tua virtù, e: Il regno
dei cieli è dei violenti. Chi dunque è ogni giorno zelante nel compiere con
travaglio le attività che abbiamo detto, con l’aiuto di Dio, a suo tempo ne
coglierà anche il frutto.
AMDG et DVM