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mercoledì 24 novembre 2021

"VADO A CANTARE IL MATTUTINO IN CIELO!"

  

SAN GIOVANNI DELLA CROCE

1542 - 1591

Dottore della Chiesa

Padre Riformatore dei Carmelitani Scalzi

Patrono della Provincia Veneta dei Carmelitani Scalzi

 Solennità, 14 dicembre [dal 24 nov.]

 

La nascita

99473184copiSan Giovanni della CroceS. Giovanni della Croce, universalmente conosciuto come “Dottore mistico”nacque nel 1542 a Fontiveros, una cittadina della Castiglia. Già la tenera vicenda umana dei suoi genitori fu per Giovanni quasi un presagio: il papà, Gonzalo de Yepes, di nobile origine toledana, aveva sposato, contro la volontà dei suoi ricchi parenti, Caterina Alvarez, una povera tessitrice, di cui s’era innamorato. 

Era stato diseredato e, così, era stata Caterina a doverlo accogliere nella sua umile casetta e ad insegnargli il mestiere di tessitore. Erano nati tre bambini, ma il papà li aveva lasciati troppo presto, vittima di una epidemia mortale. Anche uno dei bambini morì di stenti. Giovanni, il più piccolo – che porterà per tutta la vita i segni della denutrizione patita – fu ospitato in un collegio per orfani, dove gli fu almeno concesso di studiare. Contemporaneamente, per mantenersi, faceva l’inserviente in un ospedale per sifilitici a Medina del Campo. Una infanzia “infelice”, si direbbe, e una adolescenza aggravata dagli stenti. E invece, proprio dal clima povero, ma dolce e intenso, che respirò in famiglia, Giovanni trasse quella certezza che avrebbe rischiarato tutta la sua esistenza: comprese, cioè, che la vita può essere una sublime avventura d’amore, benché sia così spesso impregnata di sofferenze. Pur senza disprezzare l’amore umano, egli si sentiva inclinato a scoprire le meraviglie dell’amore che Cristo ha rivelato e promesso a chi Lo segue.

L’ingresso in convento

49807092copiUniversità di Salamanca (Spagna)

A 21 anni chiese, dunque, di entrare nel convento carmelitano di Medina, iniziandovi gli studi che l’avrebbero condotto fino al sacerdozio. Poté così frequentare la prestigiosa Università di Salamanca. Lo studio affascinava la sua intelligenza acuta e argomentativa, mentre la preghiera e l’ascesi lo affinavano interiormente e fisicamente. A tale scopo aveva scelto per sè una cella piccola e buia, solo perché aveva una finestrella che guardava sul presbiterio della Chiesa: là passava lunghe ore, assorto nella contemplazione del tabernacolo.

Quando fu ordinato sacerdote, aveva quasi deciso di dedicarsi a una forma di vita ancora più austera e solitaria (quella dei Certosini), ma fu proprio in occasione della sua Prima Messa, celebrata a Medina, che gli accadde di incontrare Santa Teresa d’Avila. Fu lei, col prestigio della sua santità e della sua maturità, a coinvolgerlo nella sua missione di Riformatrice dell’antico Ordine Carmelitano.

Fu Teresa stessa a tagliare e cucire per lui un umile abito di lana grezza, e ad aiutarlo nella prima organizzazione di un poverissimo conventino a Durvelo, tra un gruppetto di case coloniche, sperduto nella campagna. Qui cominciò la storia dei primi “carmelitani scalzi” (cioè “riformati”), che vivevano in una solitudine quasi eremitica, interrompendo la preghiera solo per prendere un po’ di cibo e per andare nelle borgate vicine a predicare ai contadini, privi di ogni assistenza religiosa. Ma Giovanni non poté restare a lungo in quella beata solitudine. Presto fu necessario fondare altri conventi (e a lui veniva sempre affidato l’incarico di educatore dei giovani religiosi).

 

Alla scuola di Teresa d’Avila

Poi Teresa lo volle con sé ad Avila, per farsi aiutare nella formazione delle monache, di cui era priora. Ma l’attività dei due Riformatori non era ben vista da tanti altri frati e monache che si ritenevano quasi offesi dalla loro azione, e c’era chi li accusava di ribellione e di disobbedienza ai Superiori dell’Ordine. Allora le comunicazioni erano difficili e le notizie tendenziose si diffondevano facilmente. Così proprio il mite ed umile Giovanni della Croce fu accusato ingiustamente d’essere un ribelle e “incarcerato” nel grande convento di Toledo, dove fu rinchiuso in un bugigattolo umido e buio. Vi restò quasi nove mesi: trattato a pane e acqua, con una sola tonaca che gli marciva addosso, mentre i pidocchi lo divoravano e la febbre lo consumava. Ma in quella terribile “notte oscura” Dio lo avvolse di luce e di amore.

 

Scrittore mistico e teologo

San Giovanni della CroceSan Giovanni della Croce (disegno a matita)

Dal cuore straziato di Giovanni della Croce nacquero, così, le più calde e luminose poesie d’amore che siano mai state scritte in lingua spagnola. Egli le componeva a memoria, per esprimere il grido dell’anima che cerca Dio, come una fidanzata cerca il suo Amato, dal quale si è sentita improvvisamente abbandonata. Nella notte del carcere, lungo quei terribili mesi, Giovanni iniziò così il suo cammino verso il cuore della Sacra Scrittura, dove si trova incastonato il Cantico dei Cantici: la parola d’amore che Dio ha rivelato al suo popolo e alla sua Chiesa. Anche il nostro prigioniero compose, dunque, il suo Cantico Spirituale: quasi un commento poetico del testo biblico, ricreato con ricchezza di immagini, di colori, di suoni, di paesaggi, di ricordi, di appassionate invocazioni. 

Quando, dopo nove mesi, riuscì a fuggire dal carcere, portò con sé un quadernetto dove aveva trascritto quei versi che l’avevano aiutato a credere, a sperare, e ad amare… Passò gli anni successivi, ricoprendo quasi sempre l’ufficio di Superiore, generalmente amato e stimato, anche se tenuto un po’ in secondo piano, ricercato da coloro che volevano essere guidati nel cammino verso Dio. A loro (soprattutto alle monache, ma anche a dei laici), Giovanni della Croce spiegava le esigenze ardenti dell’amore di Dio, e lo faceva con lo stile che aveva imparato in prigione: scrivendo delle poesie e commentandole, rifacendosi continuamente agli insegnamenti della Sacra Scrittura e alla sua personalissima esperienza. «L’anima innamorata – insegnava Giovanni – è un’anima dolce, mite, umile e paziente». A tutti egli ricordava che «un pensiero dell’uomo vale più del mondo intero e perciò soltanto Dio ne è degno!». Insegnava con decisione l’esigente cammino della “nuda fede” che non vuole null’altro se non Dio. Soprattutto i monasteri fondati da Teresa si protendevano connaturalmente ad accogliere e desiderare la guida di Giovanni della Croce e alle anime contemplative egli ripeteva le sue bellissime poesie (e ne componeva di nuove) e poi tentava di darne una spiegazione, un commento, utilizzando tutta la teologia che aveva studiato, (e Giovanni aveva un’intelligenza e una forza argomentativa straordinarie) nel tentativo di spiegare l’indicibile. Al Cantico spirituale si aggiunsero prima la Notte oscura, poi la Fiamma viva d’Amore, con i relativi commenti, che lasciò quasi tutti incompleti. Sul finire della vita si trovò nuovamente avvolto dalle tenebre della sofferenza e dell’abbandono. Non tutti riuscivano a capire quella sua incredibile dolcezza pur mescolata a tanta inflessibilità, quando ne andavano di mezzo i diritti di Dio e il rispetto dovuto alla verità. Così qualcuno si spinse fino a calunniarlo, nel tentativo di screditarlo presso i superiori. Ad una monaca che voleva prendere le sue difese, Giovanni disse: «Non pensi ad altro se non che tutto è disposto da Dio. E dove non c’è amore, metta amore e ne riceverà amore».

Proprio in quei tristi anni egli stava commentando la sua ultima opera, quella Fiamma viva d’Amore, che è tutto un divampare di carità. Nonostante le sofferenze fisiche e morali in cui era immerso, egli poteva cantare l’amore di Dio e per Dio, divenuto un possesso totale e ardente e descrivere, per esperienza, l’abbraccio di amore più intenso che sia possibile in questa terra, quando solo un ultimo, leggerissimo velo che sta per lacerarsi separa la creatura dalla vita eterna.

La morte

Il Crocifisso e S. GiovanniIl Crocifisso e S. GiovanniA 49 anni si ammalò gravemente: nel collo del piede gli si aprì una piaga tumorale che non si riusciva a curare. Giovanni visse la sua malattia nel desiderio di diventare sempre più simile al suo Signore Crocifisso. L’immedesimazione era così piena che egli arrivava a commuoversi, durante le medicazioni, nel guardare il suo povero piede piagato, perché gli sembrava di vedere quello trafitto di Cristo. Intanto la morte si avvicinava: nella tarda sera del 13 dicembre 1591, quando i confratelli riuniti attorno al suo letto iniziarono le preghiere per gli agonizzanti, Giovanni chiese che le interrompessero e disse: «Non ho bisogno di questo. Leggetemi qualcosa del Cantico dei Cantici». E mentre quei versetti d’amore risuonavano nella cella del morente, egli sembrava incantato e sospirò: «Che perle preziose!». Poi sentì suonare le campane di mezzanotte e disse: «Vado a cantare il Mattutino in cielo».

di P. Antonio Maria Sicari ocd


"Multae tribulationes iustorum", cioè: 

Molte sono le sventure dei giusti, 

ma li libera da tutte il Signore 

(Sal 33,20).


"Cantico spirituale" (A): di San Giovanni della Croce: tra i libri più belli del mondo

http://www.cristinacampo.it/public/san%20giovanni%20della%20croce,%20cantico%20spirituale.%20testo%20integrale.pdf



 AMDG et DVM

giovedì 14 gennaio 2016

San Giovanni della Croce: Cantico Spirituale (A)


STROFA 10 

Estingui i miei affanni,  
ché nessuno vale ad annientarli,  
ti vedan i miei occhi,  
perché ne sei la luce,  
per te solo desidero serbarli! 

SPIEGAZIONE 

1. L’anima prosegue in questa strofa chiedendo all’Amato di voler finalmente porre termine alle sue ansie e alle sue pene. Non vi è nessuno, infatti, all’infuori di lui, in grado di farlo, e allora faccia in modo che gli occhi dell’anima possano vederlo, perché solo lui è la luce a cui essi guardano e non vuole fissarli su nient’altro che non sia lui. Gli dice dunque: Estingui i miei affanni! 

2. Come si è detto, la concupiscenza d’amore possiede questa proprietà: tutto quello che non si accorda, a fatti e a parole, con ciò che la volontà ama, la stanca, l’annoia e la turba, lasciandola disgustata, perché non vede realizzarsi ciò che desidera. Qui chiama affanni tutto questo e le fatiche che affronta per vedere Dio, e nulla può annientarli se non il possesso dell’Amato. Per questo gli chiede di eliminarli con la sua presenza, dando il suo refrigerio, come fa l’acqua fresca a chi è spossato dal caldo. Usa per l’appunto il termine estinguere, per far capire che essa sta soffrendo a causa di questo fuoco d’amore. Ché nessuno vale ad annientarli. 

3. Per meglio commuovere e convincere l’Amato a esaudire le sue richieste, l’anima invita lo stesso Amato a estinguere le sue pene, perché nessun altro è in grado di soddisfare quanto lei chiede. Notiamo qui che Dio è ben disposto a consolare l’anima e a soddisfare i suoi bisogni e le sue sofferenze, quando lei non ha né pretende altra soddisfazione o conforto al di fuori di lui. Così l’anima che non ha nulla che la trattenga all’infuori di Dio, non può rimanere a lungo senza la visita dell’Amato. Ti vedan i miei occhi
  
4. Cioè fa’ che ti possa vedere faccia a faccia (1Cor 13,12), con gli occhi della mia anima, perché ne sei la luce. 

5. Dio, oltre a essere luce soprannaturale degli occhi dell’anima, senza la quale essa è nelle tenebre, è affettuosamente chiamato dall’anima luce dei suoi occhi, come l’innamorato suole chiamare la persona amata «luce degli occhi miei» per dimostrare l’affetto che le porta. Nei due versi citati sopra è come se dicesse: poiché gli occhi della mia anima non hanno altra luce, né per natura né per amore, se non te, ti vedan i miei occhi, perché in ogni modo ne sei la luce. Davide sentiva la mancanza di questa luce quando, desolato, esclamava: Lumen oculorum meorum, et ipsum non est mecum: Si spegne la luce dei miei occhi! (Sal 37,11). Per te solo desidero serbarli! 

6. Nel verso precedente l’anima ha lasciato intendere come i suoi occhi erano nelle tenebre dal momento che non vedevano l’Amato, perché solo lui ne è la luce. Con tale espressione l’anima vuole obbligare lo Sposo a donarle questa luce di gloria. Nel presente verso vuole obbligarlo ancora di più dicendogli che se ne servirà solo per lui. Se è giusto, infatti, che l’anima sia privata di questa luce quando getta lo sguardo della sua volontà su qualcosa al di fuori di Dio, poiché vi frappone degli ostacoli, è altrettanto giusto che il suo merito venga ricompensato quando chiude i suoi occhi a tutte le cose create per aprirli solo al suo Dio. 

Cantico Spirituale 
S. GIOVANNI DELLA CROCE 
(A) 
“CUORE AMOROSISSIMO DI GESÙ,
PER LA TUA SOFFERENZA DI CROCE,
IN QUEST’ORA DI OSCURITÀ,
SII TU LA LUCE PER L’UMANITÀ”.

sabato 20 giugno 2015

Un non so che...

Dalla contemplazione del creato alla contemplazione del Creatore. Con san Giovanni della Croce,Dottore Mistico,  per cantare l'inno più bello al Dio vivente

STROFA 7
E quanti intorno a te vagando,
di te infinite grazie raccontando,
ravvivan così le mie ferite,
e me spenta lascia non so cosa
ch’essi vanno appena balbettando.

SPIEGAZIONE

1. Nella strofa precedente l’anima ha mostrato di essere malata o ferita d’amore per lo
Sposo a motivo di quanto di lui ha conosciuto attraverso le creature irrazionali. In
questa strofa lascia intendere che è ferita d’amore a motivo di una conoscenza più alta
che ha dell’Amato, per mezzo delle creature razionali, cioè gli angeli e gli uomini, che
sono più nobili delle altre. Non dice soltanto questo, ma aggiunge anche che sta
morendo d’amore a causa dell’immensità straordinaria che le si svela attraverso queste
creature, senza riuscire a scoprirla del tutto; la chiama qui non so che, perché non sa dire
cosa sia, ma è tale da farla morire d’amore.

2. Possiamo dedurre che in questo interscambio d’amore vi sono tre forme di sofferenza
per l’Amato, a seconda delle tre forme di conoscenza che si possono avere di lui. La
prima si chiama ferita. È la più superficiale e guarisce più in fretta, come una ferita,
perché nasce dalla conoscenza che l’anima riceve dalle creature, appunto le opere
inferiori di Dio. Di questa ferita, che si può anche chiamare malattia, parla la sposa del
Cantico dei Cantici, quando dice: Adiuro vos, filiae Ierusalem, si inveneritis Dilectum
meum ut nuntietis ei quia amore langueo, cioè: Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme,
se trovate il mio Diletto, ditegli che sono malata d’amore! (Ct 5,8). Per figlie di
Gerusalemme intende le creature.

3. La seconda si chiama piaga: penetra nell’anima più della ferita e per questo dura di
più, perché è come una ferita trasformata ormai in piaga, così che l’anima si sente
veramente piagata d’amore. Questa piaga si forma nell’anima attraverso la conoscenza
delle opere dell’incarnazione del Verbo e i misteri della fede. Sono queste le opere
maggiori di Dio, le quali rispetto alle creature racchiudono in sé un amore più grande.
Come tali producono nell’anima un effetto più profondo d’amore. La loro qualità è tale
che, se la prima forma è come una ferita, questa seconda è come una piaga aperta, che
dura a lungo. Parlando di essa, lo Sposo del Cantico dei Cantici dice all’anima: Tu mi
hai piagato il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai piagato il cuore, con un solo tuo
sguardo, con un solo capello del tuo collo! (Ct 4,9). Lo sguardo qui significa la fede
nell’incarnazione dello Sposo e il capello l’amore per la stessa incarnazione.

4. La terza forma di sofferenza per amore è uguale al morire ed è come avere una piaga
incancrenita nell’anima. Divenuta tutta una piaga purulenta, l’anima vive morendo fino
a quando l’amore, uccidendola, la farà vivere della vita d’amore, trasformandola in
amore. Questo morire d’amore avviene nell’anima mediante un tocco di somma
conoscenza della Divinità, cioè quel non so cosa – di questa strofa – che vanno appena
balbettando. Questo tocco non è continuo né intenso, perché altrimenti l’anima si
separerebbe dal corpo, ma è brevissimo. In questo modo l’anima è sempre sul punto di
morire, e tanto più muore quanto più si accorge di non morire d’amore. Questo si
chiama amore impaziente. Se ne parla nella Genesi, dove la Scrittura dice che era tale il
desiderio che Rachele aveva di concepire, da dire al suo sposo Giacobbe: Da mihi
liberos, alioquin moriar: Dammi dei figli, se no io muoio! (Gn 6,8.9 Volg.). E il profeta
Giobbe diceva: Quis mihi det… ut qui coepit, ipse me conterai?, che significa: Oh,
avvenisse… che colui che ha cominciato mi finisca, lasci libera la sua mano e mi faccia
morire! (Gb 6,8.9 Volg.).

5. Secondo la strofa, queste due forme di sofferenza d’amore, cioè la piaga e il morire,
sono prodotte dalle creature razionali: la piaga, per il fatto che le vanno raccontando
infinite grazie dell’Amato nei misteri e nella sapienza di Dio insegnati dalla fede;
quanto al morire, esso è dovuto a ciò che, come riferisce la strofa, vanno appena
balbettando, cioè il sentimento e la nozione della Divinità che alcune volte l’anima
scopre in quello che sente raccontare di Dio. Dice allora: E quanti intorno a te vagando.

6. Con coloro che vagano qui intende, come ho detto, le creature razionali, cioè gli
angeli e gli uomini, perché solo costoro fra tutte le creature si dedicano a Dio
prestandogli attenzione; questo, infatti, vuol dire il termine vagano, che in latino
sarebbe vacant. È come dire: tutti quanti attendono a Dio, gli uni contemplandolo in
cielo e godendone, come gli angeli; gli altri amandolo e desiderandolo sulla terra, come
gli uomini. Siccome attraverso queste creature razionali l’anima conosce più
chiaramente Dio, sia considerandone la superiorità che esse hanno su tutte le cose
create, sia per ciò che esse ci insegnano di Dio – gli angeli interiormente con ispirazioni
segrete, gli uomini esteriormente per mezzo delle verità della Scrittura –, dice: di te
infinite grazie raccontando.

7. Cioè: mi fanno capire cose stupende della tua grazia e della tua misericordia
nell’opera della tua incarnazione e nelle verità di fede che mi parlano e mi riferiscono
sempre più cose su di te, perché quanto più esse vorranno dirmi, tanto maggiori grazie
potranno svelarmi di te. Ravvivan così le mie ferite.

8. Perché quanto più gli angeli mi ispirano e gli uomini mi insegnano di te, tanto più mi
fanno innamorare di te, e così tutti mi feriscono ancor più d’amore. E me spenta lascia
non so cosa ch’essi vanno appena balbettando.

9. È come se dicesse: oltre al fatto che queste creature mi feriscono con le infinite grazie
che di te mi fanno conoscere, rimane sempre un non so che, qualcosa che resta ancora
da dire, qualcosa che si riconosce ancora inespresso. È una sublime impronta di Dio che
si svela all’anima, che dev’essere ancora indagata. È un’altissima conoscenza di Dio che
non si sa esprimere e che l’anima chiama un non so che. Se ciò che comprendo mi piaga
e mi ferisce d’amore, quello che non riesco a comprendere, ma che avverto in modo
così sublime, mi uccide. Questo accade talvolta alle anime già progredite, che Dio
favorisce concedendo loro, attraverso quello che sentono o vedono o intendono – a volte
solo con l’una o con l’altra di queste percezioni –, una chiara conoscenza in cui fa loro
comprendere e sentire la sua sublimità e grandezza. In tale esperienza l’anima sente Dio
in modo tanto sublime da riconoscere chiaramente che le resta tutto da comprendere.

Questo capire e sentire che la Divinità è talmente immensa da non poter essere
compresa interamente, è una forma di conoscenza molto elevata. Uno dei grandi favori
transitori che Dio concede in questa vita a un’anima è quello di farle comprendere e
sentire la sua presenza in modo tanto sublime che essa si rende chiaramente conto che
non potrà mai comprendere o sentire Dio del tutto. Questo, in un certo qual modo, è
simile alla visione di Dio in cielo, dove quelli che più lo conoscono, comprendono più
chiaramente l’infinito che devono ancora comprendere, mentre a quelli che lo vedono
meno, non appare tanto distintamente – come a quelli che più lo vedono – ciò che resta
loro da vedere.

10. Questo, credo, non riuscirà a comprenderlo bene chi non l’ha sperimentato. L’anima
invece che lo sperimenta, vedendo quanto dista dal comprendere ciò che sente così
intensamente, lo chiama un non so che, perché come non si comprende, così neppure si
sa esprimere, anche se è possibile sentirlo. Per questo l’anima dice che le creature lo
vanno appena balbettando, proprio perché non riescono a farlo comprendere. Balbettare
– atto tipico dei bambini – significa infatti non riuscire a esprimere in modo
comprensibile ciò che si ha da dire.

11. Anche in relazione alle creature superiori vengono concesse all’anima illuminazioni
simili a quelle accennate sopra, quantunque non sempre così elevate, allorquando Dio
accorda la grazia di rivelarle la conoscenza e il senso spirituale di esse. Sembra che tali
illuminazioni facciano comprendere le grandezze di Dio ma non del tutto: è come se
volessero far comprendere qualcosa e non vi riuscissero. Tutto questo è un non so cosa,
che vanno appena balbettando. E allora l’anima prosegue nel suo lamento e nella strofa
seguente parla con la vita della sua anima, dicendo:

STROFA 8
Ma come duri ancor,
o vita, se non vivi ove vivi,
se ti fanno morir
le frecce che subisci
da ciò che dell’Amato concepisci?

venerdì 26 dicembre 2014

Cantico Spirituale



O boschi e fitte selve,
piantati dalla mano dell’Amato!
O prato verdeggiante
di bei fiori smaltato,
ditemi se qui egli è passato!

Pregunta a las criaturas


¡Oh bosques y espesuras,
plantadas por la mano del Amado!
¡Oh prado de verduras
de flores esmaltado!
Decid si por vosotros ha pasado.

SPIEGAZIONE

1. Dopo che l’anima ha illustrato il modo per disporsi a intraprendere questo cammino,
cioè non andare in cerca di piaceri e soddisfazioni, e la forza che occorre per vincere le
tentazioni e le difficoltà – in questo consiste l’esperienza della conoscenza di sé, la
prima cosa da fare se si vuole pervenire alla conoscenza di Dio –, ora, in questa strofa,
comincia a camminare, mediante la considerazione e la conoscenza delle creature, verso
la conoscenza del suo Amato, che le ha create. 
Dopo l’esperienza della conoscenza di sé, infatti, la considerazione sulle creature è 
la prima, in ordine di tempo, in questo cammino spirituale a favorire 
la conoscenza di Dio. L’anima può osservarne la
grandezza e l’eccellenza nelle cose create, come dice l’Apostolo: Invisibilia enim ipsius
a creatura mundi, per ea quae facta sunt intellecta, conspiciuntur (Rm 1,20). Sarebbe a
dire: le cose invisibili di Dio vengono conosciute dall’anima attraverso le cose create,
visibili e invisibili. L’anima, quindi, in questa strofa, si rivolge alle creature
interrogandole sul suo Amato. Va rilevato che, come dice sant’Agostino, la domanda
rivolta dall’anima alle creature è la considerazione attraverso di esse del loro Creatore.
In questa strofa è contenuta, altresì, la riflessione sugli elementi e le creature inferiori e
la riflessione sui cieli e le creature e cose materiali che Dio ha creato in essi, come
anche la riflessione sugli spiriti celesti. Perciò dice: O boschi e fitte selve.

2. L’anima chiama boschi gli elementi fondamentali, cioè la terra, l’acqua, l’aria e il
fuoco. Difatti, come amenissimi boschi, sono popolati da numerosissime creature, che
qui chiama fitte selve per il loro grande numero e la molteplice varietà con cui sono
presenti in ogni elemento: sulla terra, innumerevoli varietà di animali e di piante;
nell’acqua, innumerevoli specie di pesci; nell’aria, grandi varietà di uccelli; infine il
fuoco, che concorre con gli altri elementi alla loro animazione e conservazione. Così,
ogni specie degli animali vive nel proprio elemento e vi è collocata e come piantata nel
suo bosco o regione dove nasce e si moltiplica. In realtà, così Dio dispose al momento
della loro creazione, ordinando alla terra di produrre piante e animali, al mare e alle
acque di produrre pesci, e fece dell’aria la dimora dei volatili (Gn 1,11ss). Per questo
l’anima, considerando che egli ordinò così e che così fu fatto, canta nel verso
successivo: piantati dalla mano dell’Amato!23

3. In questo verso viene riportata la seguente considerazione: solo la mano dell’amato
Dio poteva fare e creare tante varietà di creature e tali grandezze. Si deve rilevare che
volutamente dice: dalla mano dell’Amato, perché, sebbene Dio faccia molte altre cose
per mano altrui, per esempio servendosi degli angeli e degli uomini, tuttavia la
creazione l’ha fatta e la fa per mano propria. L’anima quindi si sente fortemente spinta
ad amare il suo amato Dio attraverso la considerazione delle creature, vedendo che sono
cose create dalla sua stessa mano. E prosegue: O prato verdeggiante!

4. Questa è la considerazione sul cielo, che chiama prato verdeggiante, perché le cose
create in esso conservano un rigoglio perenne, non finiscono né appassiscono con il
tempo e in esse, come in un fresco prato, si rallegrano e gioiscono i giusti. In questa
considerazione sono comprese anche le splendide stelle e altri pianeti celesti con tutta la
loro varietà.

5. Anche la Chiesa applica il termine verdeggiante alle cose celesti, quando, pregando
Dio per le anime dei fedeli defunti, rivolgendosi a loro dice: Constituat vos Dominus
inter amoena virentia: Vi ponga Dio nei deliziosi luoghi verdeggianti. L’anima
aggiunge che questo prato verdeggiante è di bei fiori smaltato.

6. Per fiori intende gli angeli e le anime sante, che conferiscono ordine e bellezza a quel
luogo come un grazioso e fine smalto su di un vaso d’oro purissimo. Ditemi se qui egli è
passato!

7. Questa domanda richiama la considerazione di cui si è parlato sopra, ed è come se
dicesse: ditemi quali sublimi perfezioni ha creato in voi! 

lunedì 7 luglio 2014

"O ninfe di Giudea!....



STROFA 31 


Intanto che tra i fiori e nei roseti 
l’ambra i suoi aromi emana, 
nei sobborghi restate, 
toccar le nostre soglie non vogliate". 

SPIEGAZIONE 


1. È la sposa che parla in questa strofa. Vedendo la sua parte superiore e spirituale 
arricchita di doni tanto preziosi e colmata di delizie così benefiche da parte del suo 
Amato, desidera conservare, in modo sicuro e permanente, quel possesso che lo Sposo 
le ha concesso, come si è visto nelle strofe precedenti. 

Ma la sua parte inferiore, ossia la 
sensualità, potrebbe impedire questo favore divino, e di fatto ostacola e disturba il 
possesso di un bene così grande. Per questo motivo la sposa chiede alle potenze e ai 
sensi della parte inferiore che si acquietino e cessino le loro operazioni e gli stimoli; 
chiede, altresì, che non vadano oltre i confini del loro ambito, quello della sensitività, 
turbando e gettando inquietudine nella parte superiore e spirituale dell’anima, in modo 
da non impedirle, neppure con il più piccolo moto, il bene e la soavità di cui gode. 
Difatti, se i moti della parte sensitiva e le potenze entrano in azione, mentre lo spirito 
gode, quanto più sono attivi e vivaci tanto più lo molestano e lo turbano. Dice, dunque, 
così: O ninfe di Giudea! 

2. Chiama Giudea la parte inferiore dell’anima, quella sensitiva. La chiama Giudea 
perché è debole, carnale e di per sé cieca, come il popolo ebraico. Chiama ninfe tutte le 
immaginazioni, le fantasie, i moti e gli affetti di questa parte inferiore. Le chiama tutte 
ninfe perché come le ninfe con il loro affetto e le loro grazie attirano a sé gli amanti, 
così le operazioni e i moti della sensualità cercano in maniera piacevole e insistente di 
attirare a sé la volontà della parte razionale, per distoglierla dalle realtà interiori verso 
gli oggetti esteriori che esse ricercano e desiderano; nello stesso tempo sommuovono 
anche l’intelletto, attirandolo perché si sposi e si unisca a loro agendo in modo vile, nel 
tentativo di conformare e unire la parte razionale con quella sensitiva. L’anima, dunque, 
dice: oh!, voi, operazioni e moti sensuali, intanto che tra i fiori e nei roseti l’ambra i 
suoi aromi emana. 

3. I fiori, come ho detto, sono le virtù dell’anima; i roseti le sue potenze: intelletto, 
memoria e volontà, che racchiudono in sé e coltivano rose e fiori di pensieri divini e atti 
d’amore e di virtù; l’ambra rappresenta qui lo Spirito divino che dimora nell’anima. 
Quest’ambra divina emana aromi tra i fiori e nei roseti, quando si spande e si comunica, 
in modo dolcissimo, nelle facoltà e nelle virtù dell’anima, donandole attraverso di esse 
profumi di soavità divina. Ora, mentre questo Spirito divino colma la mia anima di 
soavità spirituale, nei sobborghi restate. 

4. Nei sobborghi della Giudea, che, come ho detto, è la parte inferiore o sensitiva 
dell’anima; e i suoi sobborghi sono i sensi interni, come la fantasia, l’immaginazione e 
la memoria, ove s’imprimono e si conservano le forme, le immaEssegini e i fantasmi degli 
oggetti. Queste forme sono quelle che qui chiama ninfe.  penetrano nei sobborghi 
dei sensi interni attraverso le porte dei sensi esterni, cioè l’udito, la vista, l’olfatto, il 
gusto e il tatto, così che possiamo chiamare sobborghi tutte le facoltà e i sensi della 
parte sensitiva; si chiamano sobborghi perché sono i quartieri situati fuori delle mura 
della città. Difatti ciò che viene chiamato città nell’anima è la sua parte più interna, cioè 
quella razionale, che ha la capacità di comunicare con Dio e le cui operazioni sono 
contrarie a quelle della sensualità

Vi è, però, un collegamento naturale tra gli abitanti di 
questi sobborghi della parte sensitiva, le ninfe di cui ho parlato, in modo che quanto si 
fa in questa parte ordinariamente si avverte in quella più interna, che è la razionale; di 
conseguenza, ne richiama l’attenzione e la distrae nel suo rapporto spirituale con Dio. 
Per questo l’anima chiede loro di restare nei sobborghi, cioè di starsene quietamente nei 
loro sensi interni ed esterni. "Toccar le nostre soglie non vogliate". 

5. Cioè non toccate la parte superiore nemmeno con moti primi. I moti primi dell’anima, 
infatti, sono la porta d’ingresso e la soglia attraverso cui vi si penetra dentro, e quando 
questi primi moti arrivano fino alla ragione, hanno già varcato la soglia. Ma se questi 
moti primi restano ciò che sono, allora toccano solo la soglia o bussano alla porta. Ciò 
avviene quando la parte sensitiva attacca la ragione con qualche atto disordinato della 
sensualità. 
Ora l’anima desidera che non la tocchino non solo questi moti, ma neanche 
tutte le considerazioni che non hanno alcun rapporto con la quiete e la felicità di cui essa 
gode. Così, dunque, questa parte sensitiva con tutte le sue potenze, le sue forze e le sue 
debolezze è ormai sottomessa allo spirito quando l’anima è in questo stato. Lo spirito 
ormai conduce una vita di beatitudine simile a quello dello stato d’innocenza, quando 
tutta l’armonia e l’abilità della parte sensitiva dell’uomo serviva ad accrescere la sua 
felicità e gli era d’aiuto per meglio conoscere e amare Dio, in una pace e un accordo 
perfetto con la sua parte superiore. Beata l’anima che è giunta a questo stato! Chi è 
costui? Noi lo proclameremo beato perché ha compiuto meraviglie! (Sir 31,9). 

6. Questa strofa è stata inserita qui per mostrare la pace sicura e serena che gode l’anima 
una volta pervenuta a questo stato così sublime. Non si deve dunque pensare che, se 
l’anima manifesta qui il desiderio che queste ninfe smettano di agitarla, è perché essa è 
turbata in questo stato. Infatti tutte queste agitazioni sono ormai acquietate, come ho 
spiegato sopra. Questo desiderio riguarda più i proficienti che i perfetti, sui quali le 
passioni e i moti non hanno quasi alcun potere. 

martedì 1 gennaio 2013

***San Giovanni della Croce, il principe dei mistici poeti



PIACE INIZIARE IL 2013
con san Giovanni della Croce, 
il principe dei mistici poeti



STROFA 10, dal Cantico Spirituale (A)

Estingui i miei affanni,
ché nessuno vale ad annientarli,
ti vedan i miei occhi,
perché ne sei la luce,
per te solo desidero serbarli!

SPIEGAZIONE

1. L’anima prosegue in questa strofa chiedendo all’Amato di voler finalmente porre termine alle sue ansie e alle sue pene. Non vi è nessuno, infatti, all’infuori di lui, in grado di farlo, e allora faccia in modo che gli occhi dell’anima possano vederlo, perché solo lui è la luce a cui essi guardano e non vuole fissarli su nient’altro che non sia lui. Gli dice dunque: Estingui i miei affanni!

2. Come si è detto, la concupiscenza d’amore possiede questa proprietà: tutto quello che non si accorda, a fatti e a parole, con ciò che la volontà ama, la stanca, l’annoia e la turba, lasciandola disgustata, perché non vede realizzarsi ciò che desidera. Qui chiama affanni tutto questo e le fatiche che affronta per vedere Dio, e nulla può annientarli se non il possesso dell’Amato. Per questo gli chiede di eliminarli con la sua presenza, dando il suo refrigerio, come fa l’acqua fresca a chi è spossato dal caldo. Usa per l’appunto il termine estinguere, per far capire che essa sta soffrendo a causa di questo fuoco d’amore. Ché nessuno vale ad annientarli.

3. Per meglio commuovere e convincere l’Amato a esaudire le sue richieste, l’anima invita lo stesso Amato a estinguere le sue pene, perché nessun altro è in grado di soddisfare quanto lei chiede. Notiamo qui che Dio è ben disposto a consolare l’anima e a soddisfare i suoi bisogni e le sue sofferenze, quando lei non ha né pretende altra soddisfazione o conforto al di fuori di lui. Così l’anima che non ha nulla che la trattenga all’infuori di Dio, non può rimanere a lungo senza la visita dell’Amato. Ti vedan i miei occhi.

4. Cioè fa’ che ti possa vedere faccia a faccia (1Cor 13,12), con gli occhi della mia anima, perché ne sei la luce.

5. Dio, oltre a essere luce soprannaturale degli occhi dell’anima, senza la quale essa è nelle tenebre, è affettuosamente chiamato dall’anima luce dei suoi occhi, come l’innamorato suole chiamare la persona amata «luce degli occhi miei» per dimostrare l’affetto che le porta. Nei due versi citati sopra è come se dicesse: poiché gli occhi della mia anima non hanno altra luce, né per natura né per amore, se non te, ti vedan i miei occhi, perché in ogni modo ne sei la luce. Davide sentiva la mancanza di questa luce quando, desolato, esclamava: Lumen oculorum meorum, et ipsum non est mecum: Si spegne la luce dei miei occhi! (Sal 37,11). Per te solo desidero serbarli!

6. Nel verso precedente l’anima ha lasciato intendere come i suoi occhi erano nelle tenebre dal momento che non vedevano l’Amato, perché solo lui ne è la luce. Con tale espressione l’anima vuole obbligare lo Sposo a donarle questa luce di gloria. Nel presente verso vuole obbligarlo ancora di più dicendogli che se ne servirà solo per lui. Se è giusto, infatti, che l’anima sia privata di questa luce quando getta lo sguardo della sua volontà su qualcosa al di fuori di Dio, poiché vi frappone degli ostacoli, è altrettanto giusto che il suo merito venga ricompensato quando chiude i suoi occhi a tutte le cose create per aprirli solo al suo Dio.



"Perché mi cercavate?
Non sapevate che io devo occuparmi 
delle cose del Padre mio?"