Dalla contemplazione del creato alla contemplazione del Creatore. Con san Giovanni della Croce,Dottore Mistico, per cantare l'inno più bello al Dio vivente
STROFA 7
E quanti intorno a te vagando,
di te infinite grazie raccontando,
ravvivan così le mie ferite,
e me spenta lascia non so cosa
ch’essi vanno appena balbettando.
SPIEGAZIONE
1. Nella strofa precedente l’anima ha mostrato di essere malata o ferita d’amore per lo
Sposo a motivo di quanto di lui ha conosciuto attraverso le creature irrazionali. In
questa strofa lascia intendere che è ferita d’amore a motivo di una conoscenza più alta
che ha dell’Amato, per mezzo delle creature razionali, cioè gli angeli e gli uomini, che
sono più nobili delle altre. Non dice soltanto questo, ma aggiunge anche che sta
morendo d’amore a causa dell’immensità straordinaria che le si svela attraverso queste
creature, senza riuscire a scoprirla del tutto; la chiama qui non so che, perché non sa dire
cosa sia, ma è tale da farla morire d’amore.
2. Possiamo dedurre che in questo interscambio d’amore vi sono tre forme di sofferenza
per l’Amato, a seconda delle tre forme di conoscenza che si possono avere di lui. La
prima si chiama ferita. È la più superficiale e guarisce più in fretta, come una ferita,
perché nasce dalla conoscenza che l’anima riceve dalle creature, appunto le opere
inferiori di Dio. Di questa ferita, che si può anche chiamare malattia, parla la sposa del
Cantico dei Cantici, quando dice: Adiuro vos, filiae Ierusalem, si inveneritis Dilectum
meum ut nuntietis ei quia amore langueo, cioè: Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme,
se trovate il mio Diletto, ditegli che sono malata d’amore! (Ct 5,8). Per figlie di
Gerusalemme intende le creature.
3. La seconda si chiama piaga: penetra nell’anima più della ferita e per questo dura di
più, perché è come una ferita trasformata ormai in piaga, così che l’anima si sente
veramente piagata d’amore. Questa piaga si forma nell’anima attraverso la conoscenza
delle opere dell’incarnazione del Verbo e i misteri della fede. Sono queste le opere
maggiori di Dio, le quali rispetto alle creature racchiudono in sé un amore più grande.
Come tali producono nell’anima un effetto più profondo d’amore. La loro qualità è tale
che, se la prima forma è come una ferita, questa seconda è come una piaga aperta, che
dura a lungo. Parlando di essa, lo Sposo del Cantico dei Cantici dice all’anima: Tu mi
hai piagato il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai piagato il cuore, con un solo tuo
sguardo, con un solo capello del tuo collo! (Ct 4,9). Lo sguardo qui significa la fede
nell’incarnazione dello Sposo e il capello l’amore per la stessa incarnazione.
4. La terza forma di sofferenza per amore è uguale al morire ed è come avere una piaga
incancrenita nell’anima. Divenuta tutta una piaga purulenta, l’anima vive morendo fino
a quando l’amore, uccidendola, la farà vivere della vita d’amore, trasformandola in
amore. Questo morire d’amore avviene nell’anima mediante un tocco di somma
conoscenza della Divinità, cioè quel non so cosa – di questa strofa – che vanno appena
balbettando. Questo tocco non è continuo né intenso, perché altrimenti l’anima si
separerebbe dal corpo, ma è brevissimo. In questo modo l’anima è sempre sul punto di
morire, e tanto più muore quanto più si accorge di non morire d’amore. Questo si
chiama amore impaziente. Se ne parla nella Genesi, dove la Scrittura dice che era tale il
desiderio che Rachele aveva di concepire, da dire al suo sposo Giacobbe: Da mihi
liberos, alioquin moriar: Dammi dei figli, se no io muoio! (Gn 6,8.9 Volg.). E il profeta
Giobbe diceva: Quis mihi det… ut qui coepit, ipse me conterai?, che significa: Oh,
avvenisse… che colui che ha cominciato mi finisca, lasci libera la sua mano e mi faccia
morire! (Gb 6,8.9 Volg.).
5. Secondo la strofa, queste due forme di sofferenza d’amore, cioè la piaga e il morire,
sono prodotte dalle creature razionali: la piaga, per il fatto che le vanno raccontando
infinite grazie dell’Amato nei misteri e nella sapienza di Dio insegnati dalla fede;
quanto al morire, esso è dovuto a ciò che, come riferisce la strofa, vanno appena
balbettando, cioè il sentimento e la nozione della Divinità che alcune volte l’anima
scopre in quello che sente raccontare di Dio. Dice allora: E quanti intorno a te vagando.
6. Con coloro che vagano qui intende, come ho detto, le creature razionali, cioè gli
angeli e gli uomini, perché solo costoro fra tutte le creature si dedicano a Dio
prestandogli attenzione; questo, infatti, vuol dire il termine vagano, che in latino
sarebbe vacant. È come dire: tutti quanti attendono a Dio, gli uni contemplandolo in
cielo e godendone, come gli angeli; gli altri amandolo e desiderandolo sulla terra, come
gli uomini. Siccome attraverso queste creature razionali l’anima conosce più
chiaramente Dio, sia considerandone la superiorità che esse hanno su tutte le cose
create, sia per ciò che esse ci insegnano di Dio – gli angeli interiormente con ispirazioni
segrete, gli uomini esteriormente per mezzo delle verità della Scrittura –, dice: di te
infinite grazie raccontando.
7. Cioè: mi fanno capire cose stupende della tua grazia e della tua misericordia
nell’opera della tua incarnazione e nelle verità di fede che mi parlano e mi riferiscono
sempre più cose su di te, perché quanto più esse vorranno dirmi, tanto maggiori grazie
potranno svelarmi di te. Ravvivan così le mie ferite.
8. Perché quanto più gli angeli mi ispirano e gli uomini mi insegnano di te, tanto più mi
fanno innamorare di te, e così tutti mi feriscono ancor più d’amore. E me spenta lascia
non so cosa ch’essi vanno appena balbettando.
9. È come se dicesse: oltre al fatto che queste creature mi feriscono con le infinite grazie
che di te mi fanno conoscere, rimane sempre un non so che, qualcosa che resta ancora
da dire, qualcosa che si riconosce ancora inespresso. È una sublime impronta di Dio che
si svela all’anima, che dev’essere ancora indagata. È un’altissima conoscenza di Dio che
non si sa esprimere e che l’anima chiama un non so che. Se ciò che comprendo mi piaga
e mi ferisce d’amore, quello che non riesco a comprendere, ma che avverto in modo
così sublime, mi uccide. Questo accade talvolta alle anime già progredite, che Dio
favorisce concedendo loro, attraverso quello che sentono o vedono o intendono – a volte
solo con l’una o con l’altra di queste percezioni –, una chiara conoscenza in cui fa loro
comprendere e sentire la sua sublimità e grandezza. In tale esperienza l’anima sente Dio
in modo tanto sublime da riconoscere chiaramente che le resta tutto da comprendere.
Questo capire e sentire che la Divinità è talmente immensa da non poter essere
compresa interamente, è una forma di conoscenza molto elevata. Uno dei grandi favori
transitori che Dio concede in questa vita a un’anima è quello di farle comprendere e
sentire la sua presenza in modo tanto sublime che essa si rende chiaramente conto che
non potrà mai comprendere o sentire Dio del tutto. Questo, in un certo qual modo, è
simile alla visione di Dio in cielo, dove quelli che più lo conoscono, comprendono più
chiaramente l’infinito che devono ancora comprendere, mentre a quelli che lo vedono
meno, non appare tanto distintamente – come a quelli che più lo vedono – ciò che resta
loro da vedere.
10. Questo, credo, non riuscirà a comprenderlo bene chi non l’ha sperimentato. L’anima
invece che lo sperimenta, vedendo quanto dista dal comprendere ciò che sente così
intensamente, lo chiama un non so che, perché come non si comprende, così neppure si
sa esprimere, anche se è possibile sentirlo. Per questo l’anima dice che le creature lo
vanno appena balbettando, proprio perché non riescono a farlo comprendere. Balbettare
– atto tipico dei bambini – significa infatti non riuscire a esprimere in modo
comprensibile ciò che si ha da dire.
11. Anche in relazione alle creature superiori vengono concesse all’anima illuminazioni
simili a quelle accennate sopra, quantunque non sempre così elevate, allorquando Dio
accorda la grazia di rivelarle la conoscenza e il senso spirituale di esse. Sembra che tali
illuminazioni facciano comprendere le grandezze di Dio ma non del tutto: è come se
volessero far comprendere qualcosa e non vi riuscissero. Tutto questo è un non so cosa,
che vanno appena balbettando. E allora l’anima prosegue nel suo lamento e nella strofa
seguente parla con la vita della sua anima, dicendo:
STROFA 8
Ma come duri ancor,
o vita, se non vivi ove vivi,
se ti fanno morir
le frecce che subisci
da ciò che dell’Amato concepisci?
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