domenica 31 gennaio 2021

Gemito e Silenzio - Mons Ernesto Balducci /// Padre Corrado Balducci e gli UFO

Mons. Ernesto Balducci


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Padre Corrado Balducci Conferma esistenza UFO
5 anni fa



8 ottobre 1992,  RAI 1

NOTEVOLE!

Intervista al Mons. Corrado Balducci - 

Realtà Extraterrestre, Segreto di Fatima, Fine dei tempi.




 

In dialogo con gli astronomi

 


Il rapporto tra astronomia e fede in un'intervista a padre Funes, direttore della Specola Vaticana

L'extraterrestre è mio fratello


di Francesco M. Valiante

"E quindi uscimmo a riveder le stelle". Cita Dante - il celebre verso che chiude l'ultimo canto dell'Inferno - per descrivere la missione dell'astronomia. Che è anzitutto quella di "restituire agli uomini la giusta dimensione di creature piccole e fragili davanti allo scenario incommensurabile di miliardi e miliardi di galassie". E se poi scoprissimo di non essere i soli ad abitare l'universo? L'ipotesi non lo inquieta più di tanto. È possibile credere in Dio e negli extraterrestri. Si può ammettere l'esistenza di altri mondi e altre vite, anche più evolute della nostra, senza per questo mettere in discussione la fede nella creazione, nell'incarnazione, nella redenzione. Parola di astronomo e di sacerdote. Parola di José Gabriel Funes, direttore della Specola Vaticana.
Argentino, quarantacinque anni, gesuita, dall'agosto del 2006 padre Funes ha le chiavi della storica sede nel Palazzo Pontificio di Castel Gandolfo, che Pio XI concesse all'osservatorio vaticano nel 1935. Fra circa un anno le restituirà, per ricevere quelle del monastero delle basiliane situato al confine tra le Ville Pontificie e Albano, dove si trasferiranno gli studi, i laboratori e la biblioteca della Specola. Unisce modi cortesi e pacati a quel leggero distacco dalle cose terrene di chi è abituato a tenere gli occhi rivolti verso l'alto. Un po' filosofo e un po' investigatore, come tutti gli astronomi. Contemplare il cielo è per lui l'atto più autenticamente umano che si possa fare. Perché - spiega a "L'Osservatore Romano" - "dilata il nostro cuore e ci aiuta a uscire dai tanti inferni che l'umanità si è creata sulla terra:  le violenze, le guerre, le povertà, le oppressioni".

Come nasce l'interesse della Chiesa e dei Papi per l'astronomia?

Le origini si possono far risalire a Gregorio XIII, che fu l'artefice della riforma del calendario nel 1582. Padre Cristoforo Clavio, gesuita del Collegio romano, fece parte della commissione che studiò questa riforma. Tra Settecento e Ottocento sorsero ben tre osservatori per iniziativa dei Pontefici. Poi nel 1891, in un momento di conflitto tra il mondo della Chiesa e il mondo scientifico, Papa Leone XIII volle fondare, o meglio rifondare, la Specola Vaticana. Lo fece proprio per mostrare che la Chiesa non era contro la scienza ma promuoveva una scienza "vera e solida", secondo le sue stesse parole. La Specola è nata dunque con uno scopo essenzialmente apologetico, ma col passare degli anni è divenuta parte del dialogo della Chiesa col mondo.

Lo studio delle leggi del cosmo avvicina o allontana da Dio?

L'astronomia ha un valore profondamente umano. È una scienza che apre il cuore e la mente. Ci aiuta a collocare nella giusta prospettiva la nostra vita, le nostre speranze, i nostri problemi. In questo senso - e qui parlo come prete e come gesuita - è anche un grande strumento apostolico che può avvicinare a Dio.

Eppure molti astronomi non perdono occasione per fare pubblica professione di ateismo.

Direi che è un po' un mito ritenere che l'astronomia favorisca una visione atea del mondo. Mi sembra che proprio chi lavora alla Specola offra la testimonianza migliore di come sia possibile credere in Dio e fare scienza in modo serio. Più di tante parole conta il nostro lavoro. Contano la credibilità e i riconoscimenti ottenuti a livello internazionale, le collaborazioni con colleghi e istituzioni di ogni parte del mondo, i risultati delle nostre ricerche e delle nostre scoperte. La Chiesa ha lasciato un segno nella storia della ricerca astronomica.

Ci faccia qualche esempio.

Basterebbe ricordare che una trentina di crateri della luna portano i nomi di antichi astronomi gesuiti. E che un asteroide del sistema solare è stato intitolato al mio predecessore alla direzione della Specola, padre George Coyne. Si potrebbe richiamare inoltre l'importanza di contributi come quelli di padre O'Connell all'individuazione del "raggio verde" o di fratello Consolmagno al declassamento di Plutone. Per non parlare dell'attività di padre Corbally - vicedirettore del nostro centro astronomico di Tucson - che ha lavorato con un team della Nasa alla recente scoperta di asteroidi residui della formazione di sistemi binari di stelle.

L'interesse della Chiesa per lo studio dell'universo si può spiegare col fatto che l'astronomia è l'unica scienza che ha a che fare con l'infinito e quindi con Dio?

Per essere precisi, l'universo non è infinito. È molto grande ma è finito, perché ha un'età:  circa quattordici miliardi di anni, secondo le nostre conoscenze più recenti. E se ha un'età, significa che ha un limite anche nello spazio. L'universo è nato in un determinato momento e da allora si espande continuamente.

Da che cosa ha avuto origine?

Quella del big bang resta, a mio giudizio, la migliore spiegazione dell'origine dell'universo che abbiamo finora dal punto di vista scientifico.

E da allora che cosa è successo?

Per trecentomila anni la materia, l'energia, la luce sono rimaste unite in una sorta di miscela. L'universo era opaco. Poi si sono separate. Così noi adesso viviamo in un universo trasparente, possiamo vedere la luce:  quella delle galassie più lontane, per esempio, che è arrivata a noi dopo undici o dodici miliardi di anni. Bisogna ricordare che la luce viaggia a trecentomila chilometri al secondo. Ed è proprio questo limite a confermarci che l'universo oggi osservabile non è infinito.

La teoria del big bang avvalora o contraddice la visione di fede basata sul racconto biblico della creazione?

Da astronomo, io continuo a credere che Dio sia il creatore dell'universo e che noi non siamo il prodotto della casualità ma i figli di un padre buono, il quale ha per noi un progetto d'amore. La Bibbia fondamentalmente non è un libro di scienza. Come sottolinea la Dei verbum, è il libro della parola di Dio indirizzata a noi uomini. È una lettera d'amore che Dio ha scritto al suo popolo, in un linguaggio che risale a duemila o tremila anni fa. All'epoca, ovviamente, era del tutto estraneo un concetto come quello del big bang. Dunque, non si può chiedere alla Bibbia una risposta scientifica. Allo stesso modo, noi non sappiamo se in un futuro più o meno prossimo la teoria del big bang sarà superata da una spiegazione più esauriente e completa dell'origine dell'universo. Attualmente è la migliore e non è in contraddizione con la fede. È ragionevole.

Ma nella Genesi si parla della terra, degli animali, dell'uomo e della donna. Questo esclude la possibilità dell'esistenza di altri mondi o esseri viventi nell'universo?

A mio giudizio questa possibilità esiste. Gli astronomi ritengono che l'universo sia formato da cento miliardi di galassie, ciascuna delle quali è composta da cento miliardi di stelle. Molte di queste, o quasi tutte, potrebbero avere dei pianeti. Come si può escludere che la vita si sia sviluppata anche altrove? C'è un ramo dell'astronomia, l'astrobiologia, che studia proprio questo aspetto e che ha fatto molti progressi negli ultimi anni. Esaminando gli spettri della luce che viene dalle stelle e dai pianeti, presto si potranno individuare gli elementi delle loro atmosfere - i cosiddetti biomakers - e capire se ci sono le condizioni per la nascita e lo sviluppo della vita. Del resto, forme di vita potrebbero esistere in teoria perfino senza ossigeno o idrogeno.

Si riferisce anche ad esseri simili a noi o più evoluti?

È possibile. Finora non abbiamo nessuna prova. Ma certamente in un universo così grande non si può escludere questa ipotesi.

E questo non sarebbe un problema per la nostra fede?

Io ritengo di no. Come esiste una molteplicità di creature sulla terra, così potrebbero esserci altri esseri, anche intelligenti, creati da Dio. Questo non contrasta con la nostra fede, perché non possiamo porre limiti alla libertà creatrice di Dio. Per dirla con san Francesco, se consideriamo le creature terrene come "fratello" e "sorella", perché non potremmo parlare anche di un "fratello extraterrestre"? Farebbe parte comunque della creazione.

E per quanto riguarda la redenzione?

Prendiamo in prestito l'immagine evangelica della pecora smarrita. Il pastore lascia le novantanove nell'ovile per andare a cercare quella che si è persa. Pensiamo che in questo universo possano esserci cento pecore, corrispondenti a diverse forme di creature. Noi che apparteniamo al genere umano potremmo essere proprio la pecora smarrita, i peccatori che hanno bisogno del pastore. Dio si è fatto uomo in Gesù per salvarci. Così, se anche esistessero altri esseri intelligenti, non è detto che essi debbano aver bisogno della redenzione. Potrebbero essere rimasti nell'amicizia piena con il loro Creatore.

Insisto:  se invece fossero peccatori, sarebbe possibile una redenzione anche per loro?

Gesù si è incarnato una volta per tutte. L'incarnazione è un evento unico e irripetibile. Comunque sono sicuro che anche loro, in qualche modo, avrebbero la possibilità di godere della misericordia di Dio, così come è stato per noi uomini.

Il prossimo anno si celebra il bicentenario della nascita di Darwin e la Chiesa torna a confrontarsi con l'evoluzionismo. L'astronomia può offrire un contributo a questo confronto?

Come astronomo posso dire che dall'osservazione delle stelle e delle galassie emerge un chiaro processo evolutivo. Questo è un dato scientifico. Anche qui io non vedo contraddizione tra quello che noi possiamo imparare dall'evoluzione - purché non diventi un'ideologia assoluta - e la nostra fede in Dio. Ci sono delle verità fondamentali che comunque non mutano:  Dio è il creatore, c'è un senso alla creazione, noi non siamo figli del caso.

Su queste basi, è possibile un dialogo con gli uomini di scienza?

Direi che anzi è necessario. La fede e la scienza non sono inconciliabili. Lo diceva Giovanni Paolo II e lo ha ripetuto Benedetto XVI:  fede e ragione sono le due ali con cui si eleva lo spirito umano. Non c'è contraddizione tra quello che noi sappiamo attraverso la fede e quello che apprendiamo attraverso la scienza. Ci possono essere tensioni o conflitti, ma non dobbiamo averne paura. La Chiesa non deve temere la scienza e le sue scoperte.

Come invece è avvenuto con Galileo.

Quello è certamente un caso che ha segnato la storia della comunità ecclesiale e della comunità scientifica. È inutile negare che il conflitto ci sia stato. E forse in futuro ce ne saranno altri simili. Ma penso che sia arrivato il momento di voltare pagina e guardare piuttosto al futuro. Questa vicenda ha lasciato delle ferite. Ci sono stati malintesi. La Chiesa in qualche modo ha riconosciuto i suoi sbagli. Forse si poteva fare di meglio. Ma ora è il momento di guarire queste ferite. E ciò si può realizzare in un contesto di dialogo sereno, di collaborazione. La gente ha bisogno che scienza e fede si aiutino a vicenda, pur senza tradire la chiarezza e l'onestà delle rispettive posizioni.

Ma perché oggi è così difficile questa collaborazione?

Credo che uno dei problemi del rapporto tra scienza e fede sia l'ignoranza. Da una parte, gli scienziati dovrebbero imparare a leggere correttamente la Bibbia e a comprendere le verità della nostra fede. Dall'altra, i teologi e gli uomini di Chiesa dovrebbero aggiornarsi sui progressi della scienza, per riuscire a dare risposte efficaci alle questioni che essa pone continuamente. Purtroppo anche nelle scuole e nelle parrocchie manca un percorso che aiuti a integrare fede e scienza. I cattolici spesso rimangono fermi alle conoscenze apprese al tempo del catechismo. Credo che questa sia una vera e propria sfida dal punto di vista pastorale.

Cosa può fare in questo senso la Specola?

Diceva Giovanni XXIII che la nostra missione deve essere quella di spiegare agli astronomi la Chiesa e alla Chiesa l'astronomia. Noi siamo come un ponte, un piccolo ponte, tra il mondo della scienza e la Chiesa. Lungo questo ponte c'è chi va in una direzione e chi va in un'altra. Come ha raccomandato Benedetto XVI a noi gesuiti in occasione dell'ultima congregazione generale, dobbiamo essere uomini sulle frontiere. Credo che la Specola abbia questa missione:  essere sulla frontiera tra il mondo della scienza e il mondo della fede, per dare testimonianza che è possibile credere in Dio ed essere buoni scienziati.



(©L'Osservatore Romano 14 maggio 2008)

Adrienne von Speyr.

 Adrienne von Speyr. La partecipazione alla Passione e alla derelizione da parte di Dio

A. von Speyr (1902-1967). Die Miterfahrung der Passion und Gottverlassenheit, in P. Imhof (Ed.), Frauen des Glaubens, Würzburg, Echter Verlag, 1985, 267-277 (Trad. nostra)

Potremmo dire che il significato fondamentale della figura di Adrienne von Speyr sta nell’aver consentito una nuova valutazione di ciò che si suole designare, con un termine estraneo alla Bibbia, con la parola «mistica», superando tutti gli influssi neoplatonici nella storia della mistica per tornare al Nuovo Testamento. Non c’è in lei traccia degli «schemi ascendenti» platonici (come i gradi della purificazione, illuminazione, unione), né alcuna enfasi sulle esperienze o sugli stati soggettivi mistici; il solo atteggiamento è quello del semplice sì mariano: lasciare a Dio tutta la libertà di mettere l’essere umano in quella condizione che gli sembra più idonea alla trasmissione di una conoscenza, di un compito. Anche se in Adrienne si sono verificati in fondo tutti i fenomeni conosciuti nella storia della mistica (visioni, cardiognosi, dono di guarigione, bilocazione, levitazione, stigmate… ), non avevano una speciale rilevanza né nella sua vita quotidiana né in quella spirituale; ciò che contava – accanto al supremo dono dell’amore per Dio e per il prossimo, che si è spinto fino alla più stretta sequela Christi, ossia la partecipazione alla Passione di Cristo e alla sua derelizione da parte di Dio a pro dei peccatori –, era quel carisma di profezia massimamente stimato da Paolo (1 Cor 14,1) in quanto chi lo riceve in dono «edifica la Chiesa» (ibid. v. 4). «Profezia» nel senso dell’Antica e della Nuova Alleanza non è predizione del futuro, bensì trasmissione e spiegazione esatta e comprensibile (Gv 1,18) di ciò che Dio ha da dire alla Chiesa e al mondo su di essi o su di sé. Ed è ciò che Adrienne von Speyr ha fatto nei suoi circa cinquanta volumi in commercio: alcuni sono esposizioni di libri biblici, altri invece trattano singoli temi, come Maria, le parole del Signore sulla croce, la confessione, la santa messa, la preghiera, i sacramenti in generale, gli stati di vita ecclesiali e così via. Anche quando si tratta di misteri molto profondi, la spiegazione è sempre sobria, esatta, concisa, priva di ogni affetto personale, sempre nuova, senza ripetizioni, centrale, e ciò, malgrado la mole dei testi prodotti, tutti dettati al suo padre confessore. E quando determinati temi e motivi tornano nei suoi libri – ma sempre con aspetti nuovi –, ciò è legato al suo compito teologico e pratico all’interno della Chiesa: promuovere in essa una determinata visione dell’intera verità cattolica, sia attraverso ciò che lei stessa ha ricevuto e trasmesso nelle sue opere, sia attraverso le comunità che ha avuto il compito di fondare e alle quali tocca vivere e tramandare questa sua visione.

Prima di passare alla sua vita e a singoli aspetti del suo carisma, anticipiamo una breve descrizione di questa sua visione della verità cattolica. La formulazione più concisa di cui siamo capaci potrebbe suonare così: Adrienne è stata presa per mano da sant’Ignazio di Loyola (al quale la univa un’intima amicizia; e lei ha assimilato i suoi Esercizi nel modo più concentrato), e introdotta da lui in quello sfondo trinitario, cristologico ed ecclesiologico che egli durante la sua vita sulla terra non ha potuto esprimere nei dettagli, e che anzi forse solo in cielo ha conosciuto pienamente; la materia di questa introduzione sta soprattutto nel corpus giovanneo, che ha arricchito la visione ignaziana dell’indifferenza, della disponibilità, dell’obbedienza in senso cristologico (e con ciò trinitario): «Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 6,38). Uno dei primi libri di Adrienne è stato dedicato al sì mariano in tutte le sue dimensioni, giacché è sulla scena dell’Annunciazione che il mistero trinitario si schiude per la prima volta: il Padre la saluta come la piena di grazia che darà alla luce il Figlio, e ciò avverrà per opera dello Spirito che la coprirà con la sua ombra. La disponibilità di Maria nella sua pura trasparenza è unità di amore e obbedienza. Niente viene rifiutato o nascosto. Adrienne parla perciò di un perfetto «atteggiamento di confessione» – un’espressione che le è cara –, e della disponibilità mariana a offrire tutto, anima e corpo. E questo è il criterio che verrà applicato a tutti – persino a santi che sono stati canonizzati dopo la sua morte: quanto in là questa o quest’altra persona in particolare si è lasciata condurre, nella propria disponibilità a fare la volontà di Dio? Quest’argomento viene poi ampiamente sviluppato in tutti in suoi aspetti teologici e pratici nell’importante libro sulla confessione, che, dettato negli anni Quaranta, nella crisi in cui oggi versa la confessione è più attuale che mai. Questa dilatazione della spiritualità ignaziana nel senso della totalità della teologia può dunque valere come una succinta descrizione del carisma così variamente articolato di Adrienne. Ora qualche cenno biografico.

Secondogenita di quattro figli, Adrienne von Speyr (1902-1967) nacque a La Chaux-de-Fonds, nel cantone svizzero del Giura. Al padre, che era oftalmologo, fu molto legata nonostante la sua severità; egli fu per lei un vero amico, ma morì già nel 1918 – Adrienne ne aveva avuto il presentimento – per una perforazione dello stomaco non diagnosticata in tempo. La madre aveva una profonda avversione nei confronti della bambina, il cui parto era stato per lei molto difficile; la sorella maggiore, Helen, la prediletta della madre, la tiranneggiava non poco; ma alla piccola Adrienne appariva il suo angelo che le insegnava la pazienza mettendola alla portata di una bambina, la sera faceva l’esame di coscienza insieme a lei, o le mostrava come formare con piccoli pezzi di cartone il nome del suo amico (che lei non conosceva), IL (Ignazio di Loyola), e anche quello dell’amico di Ignazio: IJ (Ignazio, Giovanni [Johannes in tedesco]). All’età di sei anni, il giorno di Natale, Adrienne incontrò su una scalinata stretta e ripida della città un uomo vestito poveramente e leggermente zoppicante che le chiese se volesse andare con lui. Anche se lei l’avrebbe fatto volentieri, rispose: «No, signore, ma buon Natale!». Quando più tardi scrisse a grosse lettere in un piccolo quaderno «J’aurais du dire oui…» («Avrei dovuto dire di sì»), si prese una ramanzina dalla madre: «Così piccola e già così traviata!». Più tardi Adrienne avrebbe visto sant’Ignazio tantissime volte, come pure vedeva spesso Maria e moltissimi santi in cielo. Ma nel frattempo la vita si fece dura. Dopo la morte del padre la famiglia dovette fare economie, e Adrienne, oltre alla scuola, doveva occuparsi di tutte le faccende domestiche. Si ammalò gravemente di tubercolosi, trascorse due anni nel sanatorio di Leysin – dove, entrando una volta in una chiesa cattolica, fece l’esperienza di sentirsi a casa. Dopo un lungo periodo di convalescenza trascorso in parte presso lo zio paterno, direttore della grossa clinica psichiatrica Waldau nei pressi di Berna – egli la mandava volentieri dai pazienti agitati: quando compariva si calmavano immediatamente –, entrò nel ginnasio di lingua tedesca di Basilea dove sostenne la maturità due anni dopo, nel 1923. Voleva studiare medicina, ma la famiglia non lo permetteva; anche lo zio le rifiutò qualsiasi aiuto, ritenendo che questi studi non fossero adatti a lei. Così Adrienne decise di finanziarsi gli studi dando lezioni private. La madre la buttò fuori di casa con tutte le sue cose. Ai suoi fratelli fu vietato di rivolgerle la parola. Così Adrienne iniziò a passare anche le giornate nella mansarda dove già passava la notte. Un altro elemento caratteristico dei suoi primi anni è che l’insegnamento religioso protestante la lasciava delusa: «Dio è diverso». Come un’idea fissa la accompagnava anche una domanda: dove si trova la vera confessione? La cercò nell’Esercito della Salvezza, nel Movimento di Oxford, ma invano: mancava sempre un pezzo. Pregava molto, anche durante gli studi (studiando anatomia pregava per le persone a cui appartenevano le membra da sezionare); la indignavano alcuni professori che non avevano un comportamento abbastanza umano verso i pazienti. Nel luglio del 1927 trascorse le sue prime ferie sola sul San Bernardino; un gruppo di villeggianti di Basilea mise in piedi tutta una manovra di accerchiamento affinché sposasse lo storico basilese Emil Dürr, rimasto vedovo con due bambini piccoli. Adrienne ne ebbe profonda compassione, il matrimonio ebbe luogo e la compassione si trasformò in un grande amore. Nel 1931 Adrienne aprì il suo ambulatorio a Basilea. Sapeva in anticipo che avrebbe perso Emil: che morì nel 1934 dopo una caduta dal tram. Aveva affidato il suo allievo Werner Kaegi (che più tardi gli sarebbe succeduto sulla cattedra di storia) alla custodia di Adrienne, che nel 1936 lo sposò. L’inquieta ricerca religiosa non le dava tregua; inspiegabilmente, diversi sacerdoti cattolici si rifiutarono di aiutarla. Nel 1940 (ero stato appena trasferito a Basilea come cappellano degli studenti) la incontrai; dopo poche ore di catechesi, che si rivelarono quasi superflue – Adrienne accoglieva tutto ciò che dicevo come la cosa più ovvia, come ciò che lei stava aspettando da lungo tempo –, passò alla Chiesa Cattolica nella festa di Tutti i Santi dello stesso anno.

Subito iniziarono le visioni, inizialmente soprattutto mariane e ignaziane, e poco dopo anche i dettati sul Vangelo di Giovanni: la notte le veniva mostrato il contenuto di un passo, e il giorno seguente Adrienne dettava – circa mezz’ora al giorno, e più tardi durante le ferie più a lungo; a volte lavoravamo su due libri o addirittura su tre contemporaneamente. Assieme ai dettati vennero sofferenze fisiche sempre più forti e dure, stati di perfetta derelizione da parte di Dio (ciò che lei chiamava «essere nel buco»), che avevano il loro culmine, cosa per me inattesa, nel Sabato Santo la cui teologia anno dopo anno Adrienne ha dischiuso – per la prima volta nella storia della teologia – con una pienezza e una precisione sorprendenti. Beninteso, in modo tale che resta intatto il carattere misterioso di questo epilogo della Passione.

Già negli anni 1942-43 le furono mostrate le prime linee di una comunità che dovevamo fondare insieme e che doveva consistere per i membri in una unione di lavoro nel mondo e vita consacrata a Dio. Adrienne stessa si impegnò personalmente a una vita secondo i consigli. Quando apparve nel 1947 Provida Mater, il documento di fondazione degli istituti secolari, fummo molto sorpresi perché ciò che Dio ci chiedeva corrispondeva perfettamente alla forma ivi tracciata. Adrienne invitò a casa sua delle studentesse, e poco dopo nacque il ramo femminile della comunità. Quello maschile, malgrado il mio impegno nel dare esercizi spirituali a studenti, finora non è nato; i migliori tra gli studenti di cui mi occupavo entravano in ordini religiosi, il più dotato morì di tubercolosi a Leysin. Nella Compagnia, la mia collaborazione con Adrienne venne inizialmente tollerata, poi del tutto vietata.

Adrienne, che soffriva terribilmente per la responsabilità che assumeva nella vicenda, previde la mia uscita. (Parlai due volte con il generale Janssens, che infine mi consigliò di fare gli esercizi spirituali sotto la guida del mio compagno di studi Donatien Mollat. Alla fine degli esercizi Mollat fu convinto della mia decisione: nel 1950 uscii dall’ordine dei Gesuiti per poter servire sant’Ignazio. Nessun vescovo volle ricevermi nel clero della sua diocesi; dopo tre anni alcuni amici svizzeri presentarono una petizione al vescovo di Coira perché mi accogliesse nella sua diocesi, cosa che accettò a patto che non avanzassi nessuna pretesa finanziaria).

Gli anni dal 1953 alla morte di Adrienne (1967) furono caratterizzati dall’aggravarsi della sua malattia. I rapporti con il cielo e i suoi santi erano come una seconda esistenza, parallela a quella terrena, interrotta dalle più terribili esperienze di derelizione e accompagnata da esercizi di penitenza quasi incredibili – che le apparivano come il compito richiestole di fronte alla miseria del peccato del mondo che le era mostrata – e da «viaggi» notturni, per cui veniva trasferita in qualche luogo (per esempio «una chiesa vuota, credo nel sud della Francia…») il più delle volte per assistere un penitente nel confessionale o un sacerdote poco deciso. Quanto più grandi erano le grazie a lei elargite, tanto più le esigenze che le erano richieste si facevano estreme. Il tesoro di intuizioni teologiche ammassato nei suoi libri è tale da alimentare molte generazioni della Comunità che ha fondato, ma anche della Chiesa tutta; le molte traduzioni (ci sono case editrici che mettono l’opera di Adrienne nel cuore del loro programma editoriale) rendono testimonianza della fecondità insita nelle sue opere. Ma coll’avanzare delle malattie (problemi di cuore, diabete, etc.) e dell’esaurimento fisico i dettati si sono man mano diradati (sebbene sarebbe stato facile ottenere molte volte di più di ciò che Adrienne ha dettato), e nel 1954 Adrienne è stata costretta a chiudere quell’ambulatorio cui era tanto affezionata: una miriade di persone povere si era rivolta a lei, che spesso si trovava a dare piuttosto indicazioni morali o addirittura «sacerdotali» che non consigli medici.

Un’ultima menzione merita il fatto che molte personalità pubblicamente note le facevano visita presso la casa di Münsterplaz o corrispondevano con lei per lettera; mi limito a citare i nomi di Reinhold Schneider, Albert Béguin, Romano Guardini, Gabriel Marcel, Erich Przywara, Carl Jacob Burckhardt, Theodor Heuß, il cardinal Journet, diversi domenicani (come p. de Menasce) e gesuiti (come Pierre Ganne, Hugo Rahner, Henri de Lubac) e naturalmente molti professori dell’università di Basilea. Non era facile, con mezzi sempre scarsi, mandare avanti la casa – una casa fin troppo grande, scomoda, senza riscaldamento centralizzato; e le cose andavano gestite, nonostante i frequenti avvicendamenti nel personale, in modo tale da non disturbare il marito nel suo lavoro intellettuale. Senza che lo si dovesse notare dall’esterno, Adrienne viveva personalmente in una grandissima povertà.

Col passare degli anni si fece silenzio attorno a lei; la cecità crescente le rese impossibile anche la lettura e il ricamo, due attività che tanto amava. Pregava di continuo (tutto il mio operato è sempre rimasto, anche dopo la sua morte, chiaramente avvolto e protetto da questa sua preghiera). Solo quando glielo si chiedeva raccontava ancora dei suoi contatti con i santi. Anche quando ormai quasi non poteva più alzarsi dal letto, insisteva per scendere quotidianamente le faticose scale che dalla camera da letto portavano al pianterreno: «Se la Madre, se gli angeli mi aspettano giù, non posso certo restare al piano di sopra». Aveva desiderato per sé una morte dura, per prendere su di sé il peso di quella di altri, e la ottenne: un orrendo e umiliante cancro all’utero che si trascinò per mesi. Gli ultimi giorni furono di una profonda oscurità («Nelle tenebre percorro a tentoni i muri, e non trovo alcuna porta…»); ma morì ripetendo senza sosta «Grazie, grazie…».

Alla fine, il paesaggio interiore non era ormai altro che il Golgota. Di «scale di perfezione» o di «unioni» neoplatoniche come punto di arrivo Adrienne non ha mai voluto saperne. Sulla terra non si può crescere che nel sì, il sì del Figlio come della Madre e di tutti coloro che cercano di ripeterlo nelle loro vite. Il libro di Adrienne Mistica oggettiva ci insegna che il contenuto delle esperienze mistiche non può legittimamente essere altro che l’approfondimento delle verità compendiate nel Credo Apostolico; e segnatamente non sviluppandole ai margini (e anzi spesso addirittura fuoriuscendone), bensì in modo tale da rischiararle nel loro nucleo centrale e renderle vive nella vita cristiana. E in Mistica soggettiva, l’opera che fa da pendant a quella appena citata, i fenomeni mistici della storia della Chiesa hanno il loro archetipo in quelli biblici: Mosè, i Profeti, Giobbe, e nel Nuovo Testamento le visioni di san Paolo e quelle dell’Apocalisse di san Giovanni – queste ultime Adrienne le ha riviste e spiegate. La vernice neoplatonica di cui tradizionalmente si sono rivestiti i rapimenti di san Paolo («fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare», 2 Cor 12,4) viene tolta. Ci sono, è vero, cose che vengono mostrate e che non sono destinate alle masse, ma Dio parla sempre in maniera comprensibile; la mistica cristiana «balbetta» tanto poco quanto la Sacra Scrittura. Colui che è docile nelle sue mani, Dio lo mette nello stato (psicologico) più adeguato per trasmettergli ciò che lui gli dà. Così, spesso Adrienne ha detto e mostrato in una speciale condizione di rapimento – una condizione nella quale non riconosceva più il suo confessore, ma era solo «un organo di pura trasmissione» – cose che la relazione personale avrebbe alterato. In base alla sua mistica biblica ogni parallelo tra mistica autenticamente cristiana e, poniamo, mistica dell’Estremo Oriente si dimostrerebbe totalmente fuori strada. La mistica cristiana è sempre incarnatoria, quella non cristiana tende alla disincarnazione.

Il carisma profetico di Adrienne manifesta la sua fecondità ecclesiale soprattutto nelle opere in cui Adrienne spiega la Rivelazione. È questa la cosa che andrebbe recepita per prima e come più importante. Gli aspetti più personali della sua mistica non sono che integrazioni complementari, e come tali secondari: li si renderà accessibili al pubblico in un secondo tempo, quando l’essenziale sarà stato recepito. Niente è contrario allo spirito ecclesiale più della curiosità e del sensazionalismo.

https://balthasarspeyr.org/essay/adrienne-von-speyr-1902-1967-la-partecipazione-alla-passione-e-alla-derelizione-da-parte-di-dio/

AMDG et DVM

Don Bosco sei grande!

 


Pubblicato il 31/01/2021

Festa di San Giovanni Bosco con riferimenti alle Opere minori di Maria Valtorta

 

 Dai Quaderni di Maria Valtorta, 31 gennaio 1944

   Ezechiele cap. X e XI1.    
   
   Dice Gesù
   «Il segno del Tau: croce capitozzata come è giusto sia quella che segna i sudditi, i quali non possono portare baldacchino al loro trono, col nome di re. Figli di Dio ma non "primogeniti del Padre". Solo il Primogenito siede sul suo trono di re. Solo il Cristo, il cui trono terreno fu la Croce, porta in alto alla stessa, sull’asse che s’innalza oltre il capo, la sua gloriosa insegna: "Gesù Cristo, Re dei Giudei"2. I cristiani portano il segno di Cristo umilmente monco nella cima come si conviene a figli di stirpe regale ma non primogeniti del Padre.
   In che consiste il segno del Tau? Dove è apposto? Oh! lasciate la materialità delle forme quando vi immergete nella conoscenza del mio regno che è tutto dello spirito!

   Non sarà un segno materiale quello che vi renderà immuni dal verdetto compiuto dagli angeli. Esso sarà scritto, con caratteri invisibili ad occhio umano ma ben visibili ai miei angelici ministri, sui vostri spiriti, e saranno le vostre opere, ossia voi stessi, che avrete durante la vita inciso quel segno che vi fa degni d’esser salvati alla Vita. Età, posizione sociale, tutto sarà un nulla all’occhio dei miei angeli. Unico valore quel segno. Esso uguaglierà i re ai mendicanti, le donne agli uomini, i sacerdoti ai guerrieri. Ognuno lo porterà uguale, se nella rispettiva forma di vita avrà ugualmente servito Dio e ubbidito alla Legge, e uguale sarà il premio: vedere e godere Iddio eternamente, per tutti coloro che si presentano a Me con quel fulgido segno nel loro spirito.
   Il solo esser tanto convinti della necessità, del dovere di dare a Dio ogni gloria e ogni ubbidienza, vi incide nell’anima quel segno santo che vi fa miei e che vi comunica una somiglianza soave con Me Salvatore, per cui voi, come io, vi affliggete dei peccati degli uomini e per l’offesa che recano al Signore e per la morte spirituale che portano ai fratelli. La carità si accende, e dove è carità è salvezza.
   Ezechiele dice d’aver udito il Signore ordinare all’uomo vestito di lino di prendere i carboni accesi che stavano fra i cherubini e di gettarli sulla città a punire i colpevoli, cominciando da quelli del santuario, perché l’occhio del Signore era stanco di vedere le opere dell’uomo, il quale crede di poter fare il male impunemente perché Dio glie lo lascia fare e si illude che Dio non veda altro che l’ipocrito aspetto esteriore.
   No. Con la potenza sua infinita Dio vi legge nel fondo dei cuori, o voi, ministri del santuario, o voi, potenti della terra, o voi, coniugi che peccate, o voi, figli che contravvenite al quarto comandamento, o voi, professionisti che mentite, o voi, venditori che rubate, o voi tutti che disubbidite ai miei dieci comandamenti3. Inutile ogni velame. Come i vostri raggi X, di cui andate tanto fieri, molto più ancora, l’occhio di Dio vi fruga, vi penetra, vi trapassa, vi legge, vi sviscera per quello che realmente siete. Ricordatevelo.
   Non è un’azione simbolica quella del fuoco preso fra i cherubini per punire.
   In che mancate, mancando? Alla carità. Già ve l’ho spiegato parlando del Purgatorio e dell’inferno4, di questi due veri che voi credete fole. Carità, verso Dio, i primi tre comandamenti. Carità verso il prossimo, gli altri sette.
   Oh! molte volte mi sentirete ritornare su questo argomento. Meglio se non ve ne fosse tanto bisogno! Vorrebbe dire che migliorate. Ma non migliorate. Precipitate, anzi, con velocità  di meteorite, verso l’anticarità. 
   Le vostre azioni, anzi le vostre "maleazioni" verso la Carità pullulano sempre più numerose come fungaia nata sulla corruzione di un terreno. Io osservo questo germinare sempre più vasto e forte, questo prosperare di maleazioni sulle maleazioni già esistenti, come se da strato di putredine sorgesse altro strato sempre più venefico, e così via. È l’atmosfera di peccato e delitto, è il terreno di peccato e delitto, è lo strato di peccato e delitto in cui vivete, su cui vi posate, da cui sorgete, quello che alimenta della sua corruzione il nuovo più corrotto e sanguinario strato, terreno, atmosfera. È un moto perpetuo, è un caos rotante di male, simile a quello di certi microbi patogeni, i quali continuano a riprodursi senza soste e con sempre maggiore virulenza in un sangue inquinato.



   Ora è giusto che siate puniti delle colpe contro la Carità col fuoco della Carità che avete respinta. Era Amore. Ora è Punizione. Non si spregia il dono di Dio. Voi l’avete spregiato. Il dono si muta in castigo. Dio vi ritira la Carità e vi lascia nella vostra anticarità. Dio vi getta, come saette, la Carità che avete sprezzata e vi punisce. Per chiamarvi ancora, se non in molti, ancora quelli che sono suscettibili a resipiscenza e a meditazione.
   I cherubini, ossia il simbolo della Carità soprannaturale, custodiscono5 fra loro le braci della Carità. L’azione, che sembra unicamente simbolica, cela una verità reale.
   Quando sarete evocati al grande Giudizio, coloro che vissero nella Carità non appariranno arsi dal fuoco punitivo. Già ardenti di loro, per il santo amore che li colmò, essi non avranno conosciuto il morso delle accese punizioni divine, ma solo il bacio divino che li farà più belli. Mentre coloro che furono carne, unicamente carne, porteranno sulla carne le cicatrici delle folgori divine, poiché la carne, essa sola, può esser segnata da tale cicatrice, non lo spirito che è fuoco vivente nel Fuoco del Signore.
   A questo Giudizio, ai lati del Giudice che io sono, saranno i miei quattro Evangelisti. Consumarono se stessi per portare la legge della Carità nei cuori, e oltre la morte continuarono la loro opera coi loro Vangeli, dai quali il mondo ha vita poiché conoscere il Cristo è avere in sé la Vita. Giusto dunque che Giovanni, Luca, Matteo e Marco siano meco quando sarete giudicati per avere o non avere vissuto il Vangelo6. Io non sono un Dio geloso e avaro. Vi chiamo a condividere la mia gloria. Non dovrei dunque, a questi miei servi fedeli che vi divulgarono la mia Parola e la sottoscrissero col loro sangue e colle loro pene, dare la compartecipazione alla gloria del Giudizio?
   Non nella vita, ma per la vita che avrete vissuta vi giudicherò "ai confini" di essa, ossia là dove la vita cesserà per mutarsi in eternità. Vi giudicherò tutti, dal primo all’ultimo, definitivamente, per quello che avrete fatto o non fatto di bene e, tu l’hai visto7, nel risorgere sarete tutti uguali, povere ossa slegate, povero fumo che si ricondensa in carne, e delle quali cose siete tanto superbi ora, quasi che quelle ossa e quella carne fossero tal cosa da essere superiori a Dio.
   Nulla siete come materia. Nulla. Solo il mio spirito infuso in voi vi fa qualcosa, e solo conservando in voi il mio spirito, divenuto in voi anima, meritate di esser rivestiti di quella luce imperitura che sarà veste alla vostra carne, fatta incorruttibile per l’eternità.
   Vi giudicherò, e già fra voi, in voi, vi giudicherete, anche prima del mio apparire, perché allora vi vedrete. Morta la Terra della quale siete tanto avidi, e con essa tutti i sapori della Terra, uscirete dall’ebrietà di cui vi saziate e vedrete.
   Oh! tremendo "vedere" per chi visse unicamente della Terra e delle sue menzogne! Oh! gaudioso "vedere" per chi oltre le voci della Terra "volle" ascoltare le voci del Cielo e rimase ad esse fedele.
   Morti i primi, vivi i secondi, saranno oscurità o luce, a seconda della loro forma di vita, la quale è o con la Legge o contro la Legge per avere sostituito ad essa la legge umana o demoniaca, e andranno nell’abbraccio tremendo dell’Oscurità eterna o a quello beatifico della Luce trina, che arde in attesa di fondervi a Sé, o miei santi, o miei amatori, per tutta l’Eternità.»


[Saltiamo circa l5 pagine del quaderno autografo, che portano l’episodio della Presentazione di Gesù al Tempio (1° febbraio) e il successivo dettato d’insegnamento (2 febbraio), appartenenti al ciclo della Preparazione della grande opera sul Vangelo.]

 

   1 Meglio: Ezechiele da 9, 1 a 11, 21

   2 Matteo 27, 37; Marco 15, 26; Luca 23, 38; Giovanni 19, 19-22.

  

 3 Esodo 20, 1- 17; Deuteronomio 5, 1-22.

  

 4 Nel dettato del 15 gennaio, pag. 47.

  

 5 custodiscono è nostra correzione da costudiscono 


   6 Matteo 25, 31-46.

   7 Nella visione del 29 gennaio, pag. 79. 


IL GRISO: il cane di Don Bosco

Il 31 Gennaio secondo il calendario si festeggia San Giovanni Bosco, fondatore dei Salesiani, che nacque il 16 agosto 1815 in una modesta cascina, dove ora sorge il Tempio di Don Bosco, nella frazione collinare I Becchi di Castelnuovo d’Asti
Figlio dei contadini Francesco Bosco e Margherita Occhiena , che seguira’ Giovanni Bosco per tutta la sua vita… Giovanni Bosco per la tutta la sua vita ebbe a fianco “il miglior amico dell’uomo”, IL CANE e in svariate occasioni i vari cani che si avvicendarono nel suo cammino gli salvarono la vita!
Quando era ancora studente a Chieri strinse una vera amicizia con il cane di suo fratello Giuseppe, un bracco, solitamente cani per la caccia.
Giovanni invece gli insegnò a prendere al volo pezzi di pane… e a mangiarli solo quando aveva il permesso di farlo.
Lo addestrò a salire e scendere dalla scala del fienile, a fare salti. “Bracco” lo seguiva ovunque e, quando Giovanni lo portò in regalo ad alcuni parenti di Moncucco, l’animale, in preda alla nostalgia, tornò da solo a casa, alla ricerca del suo amico.
Nella vita di don Bosco un grande ruolo lo ha il cane grigio, èl Gris’, (per dirla alla piemontese.)
Questo cane misterioso diventò protagonista di racconti fantasiosi quasi leggendari e lo stesso don Bosco nel tempo si prese la briga di chiarire raccontando “la pura verità” alla fine delle sue “Memorie dell’Oratorio”.
Di seguito, la narrazione che don Bosco fece ai suoi discepoli:

‘Il Grigio fu argomento di molte conversazioni e ipotesi varie. Molti di voi lo ha visto ed anche accarezzato. Lasciando da parte le storie straordi­narie che di lui si raccontano, vi espor­rò la pura verità.
A causa dei frequenti attentati di cui io ero bersaglio, fui consigliato di non andare in giro da solo quando an­davo in città o tornavo indietro.
In un pomeriggio buio, tornavo a casa, con una certa paura, quando vi­di al mio fianco un enorme cane, che a prima vista mi impaurì; siccome però mi faceva festa come se io fossi il suo padrone, avemmo da subito una buo­na relazione, e lui mi accompagnò fino all’Oratorio.
Ciò che accadde in quel pomerig­gio si ripeté molte volte, di modo che io posso ben dire che il Grigio mi pre­stò importanti servizi. Ve ne racconto alcuni.
Alla fine di novembre del 1854, in un pomeriggio scuro e piovoso, torna­vo dalla città, per la via della Donsolata. Ad un certo punto, capii che due uomini camminavano a poca distanza davanti a me. Acceleravano o diminui­vano il passo ogni volta che io accele­ravo o diminuivo il mio.
Quando, per non incontrarmi con loro, ho tentato di passare dal lato op­posto, essi con grande abilità si collo­carono davanti a me. Volli girare sui miei passi, ma non ci fu tempo: facen­do due salti indietro, mi gettarono un mantello sulla testa. Uno di loro riu­scì a imbavagliarmi con un fazzoletto. Volevo gridare, ma non lo potevo fa­re.
In questo preciso momento appar­ve il Grigio. Ringhiando come un or­so, si lanciò con le zampe contro il viso di uno, con la bocca spalancata contro l’altro, in maniera che conveniva loro di più avvolgere il cane che me.
– Chiama il cane! Gridavano spa­ventati.
– Lo chiamo sì, ma lasciate i pas­santi in pace.
– Chiamalo subito!
Il Grigio continuava a ringhiare co­me un orso inferocito. Essi ripersero il loro cammino, ed il Grigio, sempre al mio lato, mi accompagnò. Feci ritorno all’Oratorio ben scortato da lui.
Nelle notti in cui nessuno mi accom­pagnava, non appena passavo le ultime case vedevo spuntare il Grigio da qual­che lato della strada. Molte volte i gio­vani dell’Oratorio lo videro entrare nel cortile.
Alcuni volevano batterlo, altri tirargli pietre.
– Non lo molestate, è il cane di Don Bosco – disse loro Giuseppe Bozzetti.
Allora tutti si misero ad accarezzarlo e a seguirlo fino al refettorio, dove io stavo cenando con alcuni chierici e padri e con mia madre. Davanti a tan­to inaspettata visita, rimasero tutti in­timoriti.
– Non abbiate paura, è il mio Gri­gio, lasciate che venga – dissi io. Facendo un gran giro intorno al ta­volo, venne accanto a me, facendomi festa. Anch’io lo accarezzai e gli of­frii zuppa, pane e carne, ma lui rifiutò. Anzi: neppure annusò il cibo. Continuando allora a dare segnali di soddisfazione, appoggiò la testa sul­le mia ginocchia, come se volesse par­larmi o darmi la buona notte; in segui­to, con grande entusiasmo ed allegria, i bambini lo accompagnarono fuori. Mi ricordo che quella notte ero torna­to tardi a casa ed un amico mi aveva dato un passaggio nella sua vettura.
L’ultima volta che vidi il Grigio fu nel 1866, quando andavo da Murial­do a Moncucco, a casa di Luigi Moglia, un mio amico. Il parroco di Buttigliera volle accompagnarmi per un tratto di strada, e ciò fece sì che la notte mi sor­prese nel mezzo della strada.
– Oh! Se avessi qui il mio Grigio, che buona cosa sarebbe! – pensai.
In quel momento il Grigio giunse correndo nella mia direzione, con grandi manifestazioni di allegria, e mi accompagnò per il tratto di strada che ancora dovevo percorrere, circa tre chi­lometri. Giunto a casa dell’amico, con­versai con tutta la famiglia e andammo a cenare, rimanendo il mio compagno a riposare in un angolo della sala. Ter­minato il pasto, l’amico disse: – Andiamo a dar da mangiare al tuo cane.
E prendendo un po’ di cibo, lo portò al cane, ma non riuscì a trovarlo, mal­grado avesse guardato bene in tutti gli angoli della sala e della casa. Tutti ri­manemmo stupiti perché nessuna por­ta, nessuna finestra era aperta, ed i ca­ni della casa non avevano dato nessun allarme. Cercarono il Grigio nelle ca­mere di sopra, ma nessuno lo trovò.
Fu questa l’ultima notizia che ebbi del Grigio. Mai più seppe del suo pa­drone. So solo che questo animale fu per me una vera provvidenza nei molti pericoli in cui mi vidi coinvolto.
«Questo cane è una creatura degna di nota nella mia vita! Affermare che sia un angelo farebbe sorridere, ma non si può nemmeno dire che sia un cane comune”
Furono le parole di San Giovanni Bosco a proposito di questo suo straordinario Amico!


DON BOSCO... A LA SPEZIA E UN 'CANE GRIGIO' (1959)

Don Tiburzio Lupo, ormai prossimo a compiere i cento anni di età, ci regala questo ricordo di quando, Direttore nella Casa salesiana di Livorno, fu testimone della curiosa vicenda del misterioso cane "Grigio".
L'urna di Don Bosco al ritorno da Roma sostò a La Spezia un giorno, il 12 maggio 1959 dalle ore 6,30 alle ore 15.
Un cane "grigio"!
Per una più chiara comprensione del fatto mi rifaccio agli avvenimenti precedenti.
L'urna contenente il corpo di Don Bosco, sistemata su un furgone speciale concesso dalla Fiat, doveva viaggiare verso Roma e da Roma verso Torino in perfetto incognito. Anche le soste obbligate, dato il lungo percorso, tenute segrete!
Io, peraltro, ero fermamente deciso di fare fermare Don Bosco a La Spezia!
Dovevo lavorarmi Don Giraudi. L'occasione propizia mi venne direttamente da Don Giraudi stesso. Ebbi da lui l'incarico di preparare un pranzo all'albergo del Passo del Bracco per tutti i Confratelli che con lui e con Don Giovannini accompagnavano - come guardia del corpo - l'urna contenente Don Bosco verso Roma.
Feci del mio meglio. Non feci mancare dell'ottimo "cinque terre".
Inter pocula, dopo molte insistenze, Don Giraudi cedette alla mia richiesta!
"Gli avrei dovuto scrivere a Roma. Mi avrebbe precisato il giorno e le modalità da seguire. Fu di parola come sempre... Le modalità erano queste; a) Don Bosco, proveniente da Livorno, sarebbe giunto a La Spezia verso le 5,30 del 12 maggio, in forma segretissima; b) Si sarebbe concesso ai Confratelli e giovani convittori di vedere Don Bosco; c) Si sarebbe ripartiti nella stessa mattinata per Sampierdarena, ultima tappa, prima del rientro a Torino.
Noi si era contenti anche così!
Il giorno 12 maggio io (direttore) e alcuni confratelli ci alziamo per tempo, ci portiamo in viale Garibaldi di fronte alla chiesa Madonna della Neve in attesa del sospirato arrivo di Don Bosco!
A questo punto comincia la storia del "cane grigio"! Due confratelli, impazienti di attendere, si portano sull'incrocio della via Aurelia con la strada di Portovenere per ispezionare l'arrivo.
Un cane, mezzo lupo "grigio" di pelame, si avvicina a loro, vi gironzola attorno. Cercano di cacciarlo via, anche con qualche sasso. Il cane infila viale Garibaldi e si ferma ove mi trovo io, Don Oliva e una buona mamma con un bambino per mano comparsa essa pure per vedere Don Bosco. Come questa avesse saputo che l'urna di Don Bosco si sarebbe fermata a La Spezia, non lo so.
Il cane si avvicina a Don Oliva che lo accarezza. Si accoccola accanto a lui! Don Oliva è seduto su una panchina del viale. Il cane pone la testa sulle sue ginocchia, dimostrandosi assai soddisfatto dei complimenti.
Il furgone con tutto l'accompagnamento giunge con un'ora di ritardo... alle ore 6,30.
Don Giraudi, al mio insistente invito, accetta di fare scendere l'urna e trasportarla in chiesa alla venerazione nostra e dei fedeli!
Prevedendo di poter convincere Don Giraudi, avevo già fatto preparare in presbiterio un solido tavolo ottimamente arredato dalle suore, che avrebbe potuto sostenere l'urna.
Dopo tante manovre, guidate e comandate da Don Giraudi in persona, finalmente l'urna contenente Don Bosco, illuminata da calibrati riflettori, è in presbiterio visibile da ogni parte della chiesa tra la gioia e la venerazione nostra e dei pochi presenti, in quel momento, in chiesa.
Quello che sia successo io non lo so, ma quanto sto per esporre è pura, autentica verità.
Non era ancora trascorsa un'ora, da quando l'urna era esposta in presbiterio, e già la chiesa era zeppa di fedeli accorsi a venerare Don Bosco! E andò aumentando via via in misura così strabocchevole che, verso le ore 8, si dovette fare intervenire la forza pubblica, per regolare l'afflusso e tenere l'ordine.
Da notare che già era stata organizzata una assistenza all'urna con i ragazzi più grandicelli della scuola e con i novizi di Pietrasanta, chiamati per telefono a venire a vedere Don Bosco.
È stata una manifestazione di fede, di venerazione e di amore così spontanea, indescrivibile da stupirci e commuoverci profondamente. Ci sentimmo felici e orgogliosi nello stesso tempo di essere figli di Don Bosco!
Durante la Messa di Don Giraudi - ore 7,30 - una signora entra in sacrestia ad avvertire che un cane sta accovacciato sui gradini della balaustra dalla parte dell'urna e impedisce ai fedeli di avvicinarsi ad essa. Tutti vorrebbero toccare l'urna e fare toccare oggetti!
Mando il sacrista a prendere il malaugurato cane.
Dopo alcuni minuti ritorna solo, scusandosi che il cane gli è sfuggito di mano è penetrato in presbiterio ed è andato ad accovacciarsi sotto il tavolo su cui poggia l'urna!
Per non disturbare la funzione, lo si lascia stare, tanto più che i tendaggi che ornano l'urna, lo nascondono alla vista di tutti.
Io avevo altro da fare in quel momento e non feci più caso al cane.
Nessuno reclamò e il cane se ne stette quieto per tutta la durata della Messa sotto il tavolo dell'urna.
Terminata la Messa rientro in sacrestia per ricevere Don Giraudi e condurlo a colazione.
Ecco comparire il cane! Quieto quieto, scodinzolante, come fosse uno del seguito, ci segue verso il refettorio.
Veramente io cerco di cacciarlo via... Don Giraudi interviene dicendo e sorridendo: "lascialo stare... Chissà che non sia il Grigio di Don Bosco!
Si ride e si lascia il cane al nostro seguito.
In refettorio si accovaccia sotto il tavolo tra i piedi di Don Giraudi! Rifiuta ogni cibo... pane burrato, formaggio, salame! Fosse stato un cane randagio, a quell'ora, credo, che un buon boccone l'avrebbe divorato.
Terminata la colazione Don Giraudi si ritira per un po' di riposo.
Io prendo il cane per la pelle del collo e lo trascino in cortile. I giovani che hanno partecipato alla Messa di Don Giraudi e che già si trovano in ricreazione, appena scorgono il cane si fanno attorno ad accarezzarlo. Anche da essi rifiuta i bocconi che gli porgono.
Suonata la campana della scuola, il consigliere, fa condurre il cane in portineria. Qui si accuccia mogio mogio. Il portinaio visto che si rifiuta di muoversi lo lascia tranquillo.
Verso le dieci passa il sig. Basilio (factotum della casa), prende il cane per il collarino e senza tanti complimenti, lo trascina fuori e chiude la porta; il cane non fu più visto!

Che sia stato il "Grigio di Don Bosco"?

Per me, pur non disturbando il Grigio di Don Bosco, tutto il comportamento di questo cane ha qualcosa di fuori dell'ordinario. Non mi è mai accaduto di incontrare un cane che si comportasse a questo modo!
O... era una cane ben idiota, oppure un cane ben straordinario!
Un fatto molto significativo
Don Giraudi è seduto - vigile custode - presso l'urna. Si bea felice di vedere quella fiumana di gente che passa presso l'urna, che si ferma brevemente... mira e rimira il volto di Don Bosco... prega sommessamente... che vuole far toccare qualche oggetto personale all'urna.
Gli uomini sono incanalati nella navata destra di chi entra in chiesa: passano attraverso il presbiterio, sostano presso Don Bosco e, poi, per la sacrestia sfollano nei cortili dell'Istituto e quindi in via Roma. Le donne si accalcano alla balaustra di fronte all'urna.
Verso le 11 faccio un sapralluogo. In sacrestia mi avvicina una giovane signora con un piccino di pochi mesi stretto tra le braccia.
- Reverendo, mi dice, potrei passare in presbiterio e far toccare l'urna al mio piccino?
- Signora, non è possibile. Lo vede!
- Ma... il piccino è cieco!
Mi prende un groppo alla gola. Le lacrime mi velano gli occhi.
- Farò il possibile... Venga con me.
Entro in presbiterio con lei accanto. Don Giraudi mi lancia un'occhiata!... Mi avvicino, gli espongo il caso.
- Allora, falla passare, mi risponde.
La Signora, giunta presso l'urna, tenta di sollevare il bimbo verso Don Bosco. Don Giraudi delicatamente le prende, egli stesso, il bimbo, lo alza fino all'altezza della testa di Don Bosco, ripetutamente fa toccare la testina di lui all'urna di Don Bosco... Sembra S. Giuseppe con il Bambino tra le braccia... Gli scorrono lacrime di sotto gli occhiali! Riconsegna il piccino alla mamma... trasfigurato!
È stato un segnale!
Altre e altre mamme passano in presbiterio per far toccare l'urna ai loro piccoli. Don Giraudi ripete più volte il pietoso e amorevole atto di bontà. L'accompagna con il cuore e la mente imploranti Don Bosco.
Alle tre del pomeriggio si deve prelevare l'urna e riportarla sul furgone. Si fanno intervenire i carabinieri di servizio.
Chiudono il portone centrale della chiesa, fanno sfollare le centinaia di persone presenti in chiesa, dalla sacrestia nei cortili dell'Istituto.
Contemporaneamente altri militi chiudono il cancello in ferro della cancellata che limita la strada dalla gradinata della chiesa... tra le proteste della gente in arrivo per vedere Don Bosco.
Solo verso le 16 si può riportare l'urna sul furgone e partire per Sampierdarena.
Don Bosco sei grande!

D. Tiburzio Lupo sdb (morto centenario (2001) alla Casa Madre di Torino-Valdocco)

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, noi ci affidiamo a Te!


AMDG et DVM

Imperdibile

 






Profeti e profezie: intervista a Joseph Ratzinger

Intervista al Cardinale Joseph Ratzinger
di Niels Christian Hvidt,
1998

Quando si sente nominare la parola “profezia”, la maggior parte dei teologi pensa ai profeti dell’Antico Testamento, a Giovanni Battista, o alla dimensione profetica del Magistero. Così, nella Chiesa cristiana, il tema dei profeti viene solo raramente affrontato. E tuttavia la storia della Chiesa è costellata di figure profetiche di santi che spesso non verranno canonizzati se non molto più tardi, e che durante la loro vita avevano trasmesso un Messaggio, non come loro parola, ma come Parola proveniente da Dio. Quale sia la specificità dei profeti, che cosa li distingua dai rappresentanti della Chiesa istituzionale e come la Parola loro rivelata si rapporti alla Parola rivelata in Cristo e che ci è stata trasmessa dagli Apostoli, su tutto questo non si è mai riflettuto in modo sistematico. Effettivamente non è mai stata sviluppata una vera e propria teologia della profezia cristiana e di fatto esistono pochissimi studi riguardo a questo problema. Nella sua attività teologica, il card. Joseph Ratzinger si è già occupato da tempo e in modo approfondito del concetto di Rivelazione. La sua tesi di laurea sulla “Teologia della storia di san Bonaventura” aveva avuto un tale impatto innovativo che il suo lavoro era stato dapprima respinto. In quel tempo, la Rivelazione veniva ancora concepita come una raccolta di proposizioni divine. Essa era soprattutto, e prima di tutto, considerata una questione di conoscenze razionali. Tuttavia Ratzinger ha trovato, nelle sue ricerche, che in san Bonaventura la rivelazione si riferiva all’azione di Dio nella storia, nella quale la Verità si rivelava a poco a poco. La Rivelazione è una continua crescita della Chiesa verso la pienezza del Logos, della Parola di Dio. Solo dopo una notevole riduzione e una nuova elaborazione del testo, il suo lavoro venne accolto. Da allora il cardinale Ratzinger sostiene una comprensione dinamica della Rivelazione, alla luce della quale il Cristo, poiché è Parola di Dio, è sempre più grande di ogni altra parola di uomo che non potrà mai esprimerla pienamente. Al contrario le parole partecipano a questa pienezza inesauribile della Parola, si aprono a lei e crescono man mano di generazione in generazione. Una definizione teologica della profezia cristiana può essere raggiunta solo nel quadro di un simile concetto dinamico di Rivelazione. Già nel 1993 il cardinale Joseph Ratzinger affermava che era urgente una profonda ricerca per stabilire ciò che significava essere o non essere profeti, nel senso cristiano del termine. Ecco perché abbiamo chiesto al Cardinale un incontro per parlare sul tema della profezia cristiana. Il 16 marzo 1998 il cardinale ci ha gentilmente concesso questa conversazione.

1) Nella storia della rivelazione nell’Antico Testamento è essenzialmente la parola del profeta che ne apre il cammino con la sua critica e che l’accompagna per tutto il suo percorso. Secondo Lei che ne è della profezia nella vita della Chiesa?
Vogliamo soffermarci innanzitutto per un momento sulla profezia nel senso vetero testamentario del termine. Sarà utile stabilire con precisione chi sia veramente il profeta per eliminare ogni malinteso. Il profeta non è uno che predice l’avvenire. L’elemento essenziale del profeta non è quello di predire i futuri avvenimenti; il profeta è colui che dice la verità perché è in contatto con Dio e cioè si tratta della verità valida per oggi che naturalmente illumina anche il futuro. Pertanto non si tratta di predire l’avvenire nei suoi dettagli, ma di rendere presente in quel momento la verità divina e di indicare il cammino da prendere. Per quanto riguarda il popolo di Israele la parola del profeta ha una funzione particolare, nel senso che la fede di questo popolo è orientata essenzialmente verso l’avvenire. Di conseguenza la parola del profeta presenta una doppia particolarità: da una parte chiede di essere ascoltata e seguita, pur rimanendo parola umana, e dall’altra si appoggia alla fede e si inserisce nella struttura stessa del popolo di Israele, particolarmente in ciò che attende. È pure importante sottolineare che il profeta non è un apocalittico, anche se ne ha la parvenza, non descrive le realtà ultime, ma aiuta a capire e vivere la fede come speranza. Anche se il profeta deve proclamare la Parola di Dio come fosse una spada tagliente, tuttavia egli non è uno che cerchi di fare critiche sul culto e sulle istituzioni. Egli deve sempre fare presente il malinteso e l’abuso della Parola di Dio da parte delle istituzioni e ha il compito di esprimere le esigenze vitali di Dio; tuttavia sarebbe errato costruire l’Antico Testamento su una dialettica puramente antagonista tra i profeti e la Legge. Dato che tutt’e due provengono da Dio, hanno entrambi una funzione profetica. Questo è un punto per me molto importante perché ci porta nel Nuovo Testamento. Alla fine del Deuteronomio, Mosè viene presentato come profeta e si presenta lui stesso come tale. Egli annunzia a Israele: “Dio ti invierà un profeta come me”. Resta la domanda: che cosa significa: “un profeta come me”? Io ritengo che il punto decisivo, sempre secondo il Deuteronomio, consista nel fatto che Mosè parlava con Dio come con un amico. Qui vedrei il nocciolo o la radice della vera essenza profetica in questo “faccia a faccia con Dio”, il “conversare con Lui come con un amico”. Solo in virtù di questo diretto incontro con Dio, il profeta può parlare nella storia di Israele.



2) Come si può rapportare il concetto di profezia con il Cristo? Si può chiamare profeta il Cristo?
I Padri della Chiesa hanno concepito la profezia del Deuteronomio sopra menzionata come una promessa del Cristo, cosa che io condivido. Mosè dice: “Un profeta come me”. Egli ha trasmesso ad Israele la Parola e ne ha fatto un popolo, e con il suo “faccia a faccia con Dio” ha compiuto la sua missione profetica portando gli uomini al loro incontro con Dio. Tutti gli altri profeti seguono quel modello di profezia e dovranno sempre nuovamente liberare la legge mosaica dalla rigidità e trasformarla in un cammino vitale. Il vero e più grande Mosè è quindi il Cristo, che realmente vive “faccia a faccia” con Dio perché ne è il Figlio. In questo contesto tra il Deuteronomio e l’avvento del Cristo si intravede un punto molto importante per comprendere l’unità dei due Testamenti. Cristo è il definitivo e vero Mosè che realmente vive “faccia a faccia” con Dio perché è suo Figlio. Egli non solo ci conduce a Dio attraverso la Parola e la Legge, ma ci assume in sé con la sua vita e la sua Passione, e con l’Incarnazione fa di noi il suo Corpo Mistico. Ciò significa che nel Nuovo Testamento, nelle sue radici, la profezia è presente. Se Cristo è il Profeta definitivo perché è il Figlio di Dio, è nella comunione con il Figlio che discende la dimensione cristologica e profetica anche del Nuovo Testamento.

3) Secondo Lei, come si deve considerare tutto ciò concretamente nel Nuovo Testamento? Con la morte dell’ultimo apostolo non viene posto un limite definitivo ad ogni ulteriore profezia, non se ne esclude ogni possibilità?
Sì, esiste la tesi secondo la quale la fine dell’Apocalisse ponga termine ad ogni profezia. A me pare che questa tesi racchiuda un doppio malinteso. Anzitutto dietro a questa tesi può esserci il concetto che il profeta, che è essenzialmente finalizzato ad una dimensione di speranza, non abbia più ragione di essere, proprio perché ormai c’è il Cristo e la speranza si basa sulla sua presenza. Questo è un errore, perché il Cristo è venuto in carne e poi è risuscitato “in Spirito Santo”. Questa nuova presenza di Cristo nella storia, nel Sacramento, nella Parola, nella vita della Chiesa, nel cuore di ogni uomo, è l’espressione, ma anche l’inizio dell’Avvento definitivo del Cristo che prenderà possesso di tutto e in tutto. Ciò significa che il cristianesimo è di per sé un movimento perché va incontro ad un Signore risuscitato che è salito al Cielo e ritornerà. È questa la ragione per la quale il cristianesimo porta in sé sempre la struttura della speranza. L’Eucarestia è sempre stata concepita come un movimento da parte nostra verso il Signore che viene. Essa incorpora pure tutta la Chiesa. Il concetto che il cristianesimo sia una presenza già del tutto completa e non porti in sé alcuna struttura di speranza è il primo errore che va rigettato. Il Nuovo Testamento ha già in sé una struttura di speranza che è un po’ cambiata, ma che è pur sempre una struttura di speranza. Essere un servitore della speranza è essenziale per la fede del nuovo popolo di Dio. Il secondo malinteso è costituito da una comprensione intellettualistica e riduttiva della Rivelazione che viene considerata come un tesoro di verità rivelate assolutamente complete a cui non si può più aggiungere nulla. L’autentico avvenimento della Rivelazione consiste nel fatto che noi veniamo invitati a questo “faccia a faccia” con Dio. La Rivelazione è essenzialmente un Dio che si dona a noi, che costruisce con noi la storia e che ci riunisce e raccoglie tutti insieme. Si tratta di un incontro che ha in sé anche una dimensione comunicativa e una struttura cognitiva. Essa implica anche il riconoscimento delle verità rivelate. Se si accetta la Rivelazione sotto questo punto di vista, si può dire che la Rivelazione ha raggiunto il suo scopo con il Cristo, perché, secondo la bella espressione di San Giovanni della Croce, quando Dio ha parlato personalmente, non vi è più nulla da aggiungere. Non si può più dire nulla oltre il Logos. Egli è in mezzo a noi in modo completo e lo stesso Dio non può più darci, né dirci qualcosa di più di Sé stesso. Quanto a noi, non ci resta che penetrare, giorno dopo giorno, questo mistero della fede, proprio perché noi cristiani abbiamo ricevuto questo dono totale di sé che Dio ci ha fatto con il suo Verbo fatto carne. Ciò si ricollega alla struttura della speranza. La venuta di Cristo è l’inizio di una conoscenza sempre più profonda e di una graduale scoperta di ciò che il Verbo ci ha donato. Così si è aperto un nuovo modo di introdurre l’uomo nella Verità tutta intera, come dice Gesù nel Vangelo di San Giovanni, dove parla della discesa dello Spirito Santo. Ritengo che la cristologia pneumatologica dell’ultimo discorso di addio di Gesù nel Vangelo di San Giovanni sia molto importante per il nostro discorso, dato che Cristo vi spiega che la sua vita terrena in carne non era che un primo passo. La vera venuta del Cristo si realizza al momento in cui lui non è più legato a un luogo fisso o a un corpo fisico, ma come il Risuscitato nello Spirito capace di andare da tutti gli uomini di tutti i tempi, per introdurli nella verità in modo sempre più profondo. A me pare chiaro che – proprio quando questa cristologia pneumatologica determina il tempo della Chiesa, cioè il tempo in cui il Cristo viene a noi in Spirito – l’elemento profetico, come elemento di speranza e di attualizzazione del dono di Dio, non possa mancare né venire meno.

4) Se allora è così, la domanda è: in quale modo è presente questo elemento profetico e che cosa dice San Paolo a questo proposito?
In Paolo è particolarmente evidente che il suo apostolato, essendo un apostolato universale rivolto a tutto il mondo pagano, comprende anche la dimensione profetica. Grazie al suo incontro con il Cristo Risorto, San Paolo ha potuto penetrare nel mistero della Risurrezione e nella profondità del Vangelo. Grazie al suo incontro con il Cristo egli ha potuto capire in modo nuovo la sua Parola, mettendo in evidenza l’aspetto di speranza e facendo valere la sua capacità di discernimento. Essere un apostolo come San Paolo è naturalmente un fenomeno unico. Ci si può chiedere che cosa avvenga nella Chiesa dopo la fine dell’era apostolica. Per rispondere a questa domanda è molto importante un passo del secondo capitolo della lettera di San Paolo agli Efesini in cui egli scrive: la Chiesa è fondata “sugli apostoli e sui profeti”. Un tempo si pensava che si trattasse dei dodici apostoli e dei profeti dell’Antico Testamento. L’esegesi moderna ci dice che il termine di “apostolo” deve essere inteso in modo più ampio e che il concetto di “profeta” va riferito ai profeti della Chiesa. Dal capitolo dodicesimo della prima lettera ai Corinzi, si apprende che i profeti di allora si organizzavano come membri di un collegio. La stessa cosa viene menzionata dalla Didakhé, la qual cosa significa che questo collegio esisteva ancora quando l’opera fu scritta. Più tardi il collegio dei profeti si dissolse, e questo certamente non a caso, poiché l’Antico Testamento ci dimostra che la funzione del profeta non può essere istituzionalizzata, dato che la critica dei profeti non è diretta solo contro i preti, si dirige anche contro i profeti istituzionalizzati. Ciò appare in modo molto chiaro nel libro del profeta Amos, dove questi parla contro i profeti del regno di Israele. I profeti liberi parlano spesso contro i profeti che appartengono a un collegio, perché Dio trova, per così dire, più margine di manovra e più ampio spazio per agire presso i primi, presso i quali può intervenire e prendere iniziative liberamente, cosa che non potrebbe fare invece con una forma di profezia di tipo istituzionalizzato. A me pare tuttavia che questa dovrebbe sussistere sotto entrambe le forme, come del resto è avvenuto durante tutta la storia della Chiesa. Come gli stessi apostoli erano a loro modo anche profeti, così bisogna riconoscere che nel collegio apostolico istituzionalizzato esiste pur sempre un carattere profetico. Così la Chiesa affronta le sfide che le sono proprie grazie allo Spirito Santo che, nei momenti cruciali, apre una porta per intervenire. La storia della Chiesa ci ha fornito molti esempi di grandi personaggi quali Gregorio Magno e Sant’Agostino che erano anche profeti. Potremmo citare altri nomi di grandi personaggi della Chiesa che sono stati anche figure profetiche in quanto hanno saputo tenere aperta la porta allo Spirito Santo. Solo agendo così essi hanno saputo esercitare il potere in modo profetico, come viene detto molto bene nella Didakhé. Per quanto riguarda i profeti indipendenti, cioè non istituzionalizzati, occorre ricordare che Dio si riserva la libertà, attraverso i carismi, di intervenire direttamente nella sua Chiesa per risvegliarla, avvertirla, promuoverla e santificarla. Credo che nella storia della Chiesa questi personaggi carismatici e profetici si sono continuamente succeduti. Essi sorgono sempre nei momenti più critici e decisivi nella storia della Chiesa. Pensiamo ad esempio al nascere del movimento dei monaci, a Sant’Antonio che va nel deserto e in questo modo dà un forte impulso alla Chiesa. Sono i monaci che hanno salvato la cristologia dall’arianesimo e dal nestorianesimo. Anche San Basilio è una di queste figure, un grande vescovo, ma nello stesso tempo anche un vero profeta. In seguito non è difficile intravedere nel movimento degli ordini mendicanti un’origine carismatica. Né San Domenico né San Francesco hanno fatto profezie sul futuro, ma hanno saputo leggere il segno dei tempi e capire che era arrivato per la Chiesa il momento di liberarsi dal sistema feudale, di ridare valore all’universalità e della povertà del Vangelo, come pure alla “vita apostolica”. Così facendo hanno ridato alla Chiesa il suo vero aspetto, quello di una Chiesa animata dallo Spirito Santo e condotta dal Cristo stesso. Hanno così contribuito alla riforma della gerarchia ecclesiastica. Altri esempi sono Santa Caterina da Siena e Santa Brigida di Svezia, due grandi figure di donne. Penso sia importante sottolineare come in un momento particolarmente difficile per la Chiesa, quale fu quello della crisi di Avignone e lo scisma che ne seguì, si siano levate figure di donne per annunciare che il Cristo vivente è anche il Cristo che soffre nella sua Chiesa.

5) Quando si legge la storia della Chiesa, risulta chiaro che la maggior parte dei mistici profeti sono donne. Questo è un fatto molto interessante che potrebbe contribuire alla discussione sul sacerdozio delle donne. Che cosa ne pensa Lei?
C’è un’antica tradizione patristica che chiama Maria non sacerdotessa, ma profetessa. Il titolo di profetessa nella tradizione patristica è, per eccellenza, il titolo di Maria. È in Maria che il temine di profezia in senso cristiano viene meglio definito e cioè questa capacità interiore di ascolto, di percezione e di sensibilità spirituale che le consente di percepire il mormorio impercettibile dello Spirito Santo, assimilandolo e fecondandolo e offrendolo al mondo. Si potrebbe dire, in un certo senso, ma senza essere categorici, che di fatto la linea mariana incarna il carattere profetico della Chiesa. Maria è sempre stata vista dai Padri della Chiesa come l’archetipo dei profeti cristiani e da lei parte la linea profetica che entra poi nella storia della Chiesa. A questa linea appartengono pure le sorelle dei grandi santi. Sant’Ambrogio deve alla sua santa sorella il cammino spirituale che ha percorso. La stessa cosa vale per San Basilio e San Gregorio di Nysse, come pure per San Benedetto. Più avanti nel tardo Medioevo, incontriamo grandi figure di mistiche, tra cui bisogna menzionare Santa Francesca Romana. Nel XVI secolo troviamo Santa Teresa d’Avila che ha avuto un ruolo molto importante nell’evoluzione spirituale e dottrinale di San Giovanni della Croce. La linea profetica legata alle donne ha avuto una grande importanza nella storia della Chiesa. Santa Caterina da Siena e Santa Brigida di Svezia possono servire da modello come griglia di lettura. Entrambe hanno parlato ad una Chiesa in cui esisteva ancora il collegio apostolico e dove i sacramenti venivano amministrati. Dunque l’essenziale esisteva ancora pur tuttavia, a causa delle lotte interne, rischiava di decadere. Questa Chiesa è stata da loro ravvivata, riportando al suo antico valore il carisma dell’unità e introducendo nuovamente l’umiltà, il coraggio evangelico e il valore dell’evangelizzazione.

6) Lei ha detto che la Rivelazione nel Cristo è avvenuta in modo “definitivo”, ciò che non significa chiusura assoluta, non si identifica con l’ultima parola delle dottrine rivelate. Questa affermazione è di grande interesse per la nostra tesi sulla profezia cristiana. Ora la domanda più urgente è naturalmente questa: in quale misura i profeti, nella storia della Chiesa e anche per la teologia stessa, possono dire qualcosa di radicalmente nuovo? È verificabile che gli ultimi grandi dogmi sono da mettere direttamente in relazione con le rivelazioni di grandi santi profeti, come ad esempio le rivelazioni di Santa Caterina Laburé per quanto concerne il dogma dell’Immacolata Concezione. Questo è un tema assai poco esplorato nei libri di teologia.
Sì, questo tema potrebbe essere veramente trattato a fondo. Mi pare che Hans Urs von Balthasar abbia trovato, nelle sue ricerche, che dietro ad ogni grande teologo vi sia sempre prima un profeta. Un Sant’Agostino è impensabile senza l’incontro con il monachesimo e soprattutto con sant’Antonio. E la stessa cosa vale per Sant’Athanasio; e San Tommaso d’Aquino non sarebbe concepibile senza San Domenico e il carisma dell’evangelizzazione che gli era proprio. Leggendo gli scritti di quest’ultimo, si nota quanto importante sia stato per lui questo tema dell’evangelizzazione. Questo stesso tema ha svolto un ruolo importante nella sua disputa con il clero e con l’università di Parigi, e costrinse San Tommaso a ripensare lo statuto dell’ordine domenicano. Egli qui afferma che la vera regola del suo ordine si trova nelle Sacre Scritture e che è costituita dal quarto capitolo degli Atti degli Apostoli (aveva un cuore solo e un’anima sola) e dal decimo capitolo del Vangelo di San Matteo (annunciare il Vangelo senza pretendere nulla per sé). Questa è per San Tommaso la regola di tutte le regole religiose. Ogni forma monastica non può essere che la realizzazione di questo primo modello che aveva naturalmente un carattere apostolico, ma che la figura profetica di San Domenico gli ha fatto riscoprire in modo nuovo. A partire da questo modello prototipo San Tommaso sviluppa la sua teologia come evangelizzazione, cioè un muoversi con e per il Vangelo, un essere radicato nel concetto di “un cuore solo e un’anima sola” della comunità dei credenti. Lo stesso si potrebbe dire di San Bonaventura e di San Francesco d’Assisi: la stessa cosa avviene per Hans Urs von Balthasar impensabile senza Adrienne von Speyr. Credo che si possa dimostrare come in tutte le figure dei grandi teologi sia possibile una nuova evoluzione teologica solo nel rapporto tra teologia e profezia. Finché si procede solo in modo razionale, non accadrà mai nulla di nuovo. Si riuscirà forse a sistemare meglio le verità conosciute, a rilevare aspetti più sottili, ma i nuovi veri progressi che portano a nuove grandi teologie non provengono dal lavoro razionale della teologia, bensì da una spinta carismatica e profetica. Ed è in questo senso, ritengo, che la profezia e la teologia vanno sempre di pari passo. La teologia, in senso stretto, non è profetica, ma può diventare realmente teologia viva quando viene nutrita e illuminata da un impulso profetico.

7) Nel Credo si dice dello Spirito Santo che “ha parlato per mezzo dei profeti”. La domanda è: i profeti qui menzionati sono solo quelli dell’Antico Testamento, o ci si riferisce anche a quelli del Nuovo Testamento?
Per rispondere a questa domanda bisognerebbe studiare a fondo la storia del Credo di Nicea. Indubbiamente, qui si tratta solo dei profeti dell’Antico Testamento (vedi l’uso del tempo passato: “ha parlato”) e quindi la dimensione pneumatologica della rivelazione viene messa fortemente in evidenza. Lo Spirito Santo precede il Cristo per preparagli la strada, per poi introdurre tutti gli uomini alla verità. Esistono vari tipi di simbolismo in cui questa dimensione viene messa in forte risalto. Nella tradizione della Chiesa Orientale i profeti vengono considerati come un’opera di preparazione dello Spirito Santo che parla già prima di Cristo e che parla attraverso i profeti. Sono convinto che l’accento primario è posto sul fatto che è lo Spirito Santo che apre la porta perché il Cristo possa essere accolto “ex Spiritu Sancto”. Ciò che è avvenuto in Maria per opera dello Spirito Santo (ex Spiritu Sancto) è un evento preparato accuratamente e a lungo. Maria raccoglie in sé tutta la profezia dell’Antico Testamento nel concepimento del Cristo “ex Spiritu Sancto”. Secondo me questo non esclude che si potrebbe continuare nella nostra prospettiva dicendo che il Cristo continua ad essere concepito “ex Spiritu Sancto”. Sembra chiaro che l’evangelista San Luca, a ragion veduta, abbia messo in parallelo il racconto dell’infanzia di Gesù nel suo Vangelo con la nascita della Chiesa nel secondo capitolo degli Atti degli Apostoli. Nei dodici apostoli, raccolti attorno a Maria, avviene una “Concepitio ex Spiritu Sancto” che si attualizza nella nascita della Chiesa. Concludendo si può dire che se anche il testo del Credo si riferisce ai soli profeti dell’Antico Testamento, ciò non significa che l’azione dello Spirito Santo si possa dichiarare con questo conclusa.

8 ) San Giovanni Battista viene spesso designato come l’ultimo dei profeti. Secondo Lei, come va intesa questa affermazione?
Penso che vi siano molte ragioni e contenuti in questa affermazione. Uno di questi è la parola stessa di Gesù: “La Legge e tutti i Profeti infatti hanno profetato fino a Giovanni”, dopo viene il regno di Dio. Qui Gesù stesso dichiara che Giovanni rappresenta la fine dell’Antico Testamento e che dopo verrà qualcuno più piccolo all’apparenza, ma più grande nel Regno di Dio, cioè Gesù stesso. In questo modo il Battista viene ancora inquadrato nell’Antico Testamento e tuttavia apre una Nuova Alleanza. In questo senso il Battista è l’ultimo dei profeti. Questo è pure il giusto senso del termine: Giovanni è l’ultimo prima di Cristo, colui che raccoglie la fiaccola di tutto il movimento profetico e la consegna nelle mani di Cristo. Egli conclude l’opera dei profeti perché indica la speranza del popolo di Israele: il Messia, cioè Gesù. È importante precisare che lui stesso non annuncia nulla che riguarda l’avvenire, ma si ritiene solo uno che chiama alla conversione e che rinnova e attualizza la promessa messianica della Antica Alleanza. Del Messia dice: “In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete”. Anche se in questo annuncio vi è una predizione, Giovanni Battista rimane fedele al modello profetico che non è quello di predire l’avvenire, ma di annunciare che è tempo di convertirsi. Il messaggio del Battista è quello di invitare il popolo di Israele a guardarsi dentro e a convertirsi per poter riconoscere, nell’ora della salvezza, Colui che Israele ha sempre atteso e che ora è presente. Giovanni impersonifica in questo senso l’ultimo dei profeti e l’economia specifica della speranza dell’Antica Alleanza. Quello che verrà dopo sarà un altro tipo di profezia. Per questo il Battista può essere chiamato l’ultimo dei profeti dell’Antico Testamento. Ciò non significa tuttavia che dopo di lui la profezia sia finita. Ci si troverebbe in contrasto con l’insegnamento di San Paolo che dice nella sua prima lettera ai Tessalonicesi: “Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie”.

9) In un certo senso esiste una differenza tra la profezia del Nuovo e dell’Antico Testamento perché Cristo è entrato nella storia. Ma se si guarda all’essenza stessa della profezia, che è quella di immettere nella Chiesa la Parola ascoltata da Dio, non sembra esserci alcuna differenza.
Sì, esiste effettivamente una comune struttura di base tra le due profezie, che varia solo per il rapporto con il Cristo che deve venire e il Cristo già venuto, ma che dovrà ancora ritornare. Questa questione teologica merita di essere studiata e approfondita maggiormente: il nocciolo di questa questione è sapere perché il tempo della Chiesa sul piano strutturale ha molte più affinità con l’Antico Testamento, o per lo meno a questo è molto simile, e in che cosa consiste la novità portata dalla prima venuta di Cristo.



10) Spesso nella teologia si nota la tendenza a volere assolutamente differenziare l’Antico e il Nuovo Testamento. Questa differenziazione appare spesso artificiale e basata su principi astratti piuttosto che concreti.
Il voler radicalizzare le differenze senza voler vedere l’unità interiore che esiste nella storia di Dio con gli uomini è un errore in cui i Padri della Chiesa non sono incorsi. Essi hanno proposto un triplice schema: “umbra, imago, veritas”, dove il Nuovo Testamento è “l’imago”, così l’Antico e il Nuovo Testamento non vengono contrapposti l’uno all’altro come ombra e realtà, ma nella triade di ombra, immagine e verità, si tiene aperta l’attesa verso il definitivo compimento e il tempo del Nuovo Testamento, il tempo della Chiesa, come un ulteriore piano più avanzato, ma sempre nel cammino della Promessa. Questo è un punto che fino ad oggi, secondo me, non è stato sufficientemente considerato. I Padri della Chiesa, invece, hanno sottolineato il carattere di incompletezza del Nuovo Testamento, in cui non tutte le promesse si sono ancora avverate. Cristo è sì venuto nella carne, ma la Chiesa attende ancora la sua Rivelazione nella pienezza della sua gloria.

11) Forse sarebbe questa la ragione che spiega perché molte figure profetiche hanno un carattere fortemente escatologico nella loro spiritualità?
Penso che l’aspetto escatologico – senza esaltazione apocalittica – appartenga essenzialmente alla natura profetica. I profeti sono coloro che esaltano la dimensione della speranza racchiusa nel cristianesimo. Essi sono gli strumenti che rendono sopportabile il presente invitando ad uscire dal tempo per quanto concerne l’essenziale e il definitivo. Questo carattere escatologico, questa spinta a superare il tempo presente, fa certamente parte della spiritualità profetica.

12) Se poniamo l’escatologia profetica in relazione alla speranza, il quadro cambia completamente. Non è più un messaggio che fa paura, ma che apre un orizzonte al compimento della promessa di Cristo per tutta la creazione.
Che la fede cristiana non ispiri paura, ma la superi è un fatto fondamentale. Questo principio deve costituire la base della nostra testimonianza e della nostra spiritualità. Ma ritorniamo un momento a quanto detto sopra. È estremamente importante precisare in che senso il cristianesimo è il compimento della Promessa fatta da Dio e in che senso non lo è. Ritengo che l’attuale crisi della fede sia strettamente legata ad un insufficiente chiarimento di tale questione. Qui si presentano tre pericoli. Il primo pericolo: la promessa dell’Antico Testamento e l’attesa della salvezza degli uomini sono visti solo in modo immanente nel senso di migliori strutture o di prestazioni sempre più perfette. Così concepito il cristianesimo risulta solo una sconfitta. Partendo da questa prospettiva si è tentato di sostituire il cristianesimo con ideologie di fede nel progresso e poi con ideologie di speranza, che altro non sono che varianti del marxismo. Il secondo pericolo è quello di proiettare il cristianesimo completamente nell’al di là, di volerlo solo in modo puramente spirituale e individualistico, negando la totalità della realtà umana. Il terzo pericolo, che è particolarmente minaccioso in tempi di crisi e di svolte storiche, è quello di rifugiarsi in esaltazioni apocalittiche. In opposizione a tutto ciò, diventa sempre più urgente presentare la vera struttura della promessa e del compimento della fede cristiana in modo più comprensibile e realizzabile.



13) Spesso si nota che tra il misticismo puramente contemplativo e senza parole e il misticismo profetico con le parole, esiste una grande tensione. Karl Rahner ha fatto notare questa tensione tra i due tipi di mistica. Alcuni pretendono che la mistica contemplativa e senza parole sia quella più elevata, più pura e spirituale. In tale senso vengono spiegati certi passaggi in San Giovanni della Croce. Altri pensano che tale mistica senza parole in fondo sia estranea al cristianesimo perché la fede cristiana è essenzialmente la religione della Parola.
Sì, direi che la mistica cristiana ha anche una dimensione missionaria. Essa non cerca solo di elevare l’individuo, ma gli conferisce una missione mettendolo in contatto con il Verbo, con il Cristo che parla attraverso lo Spirito Santo. Questo punto viene messo in forte rilievo da San Tommaso d’Aquino. Prima di san Tommaso si diceva: prima monaco e poi mistico; oppure prima prete e poi teologo. Tommaso non accetta questo, perché il dono mistico apre ad una missione. E la missione non è qualcosa di inferiore alla contemplazione, come invece pensava Aristotele che riteneva la contemplazione intellettuale il gradino più alto nella scala dei valori umani. Questo non è un concetto cristiano, dice San Tommaso, perché la forma più perfetta di vita è quella mista, cioè prima quella mistica e da questa poi quella apostolica a servizio del Vangelo. Santa Teresa d’Avila ha esposto questo concetto in modo molto chiaro. Essa mette in relazione la mistica con la cristologia, ottenendo così una struttura missionaria. Con ciò non voglio escludere che il Signore possa suscitare mistici autenticamente cristiani in seno alla Chiesa, ma vorrei precisare che la cristologia come base e misura di ogni mistica cristiana, indica un’altra struttura (Cristo e lo Spirito Santo sono inscindibili). Il “faccia a faccia” di Gesù con il Padre, include “l’essere per gli altri” contiene in sé “l’essere per tutti”. Se la mistica è essenzialmente un entrare in intimità con Cristo, questo “essere per gli altri” le verrà impresso nell’intimo.

14) Molti profeti cristiani, come Caterina da Siena, Brigida di Svezia e Faustina Kowalska attribuiscono a Cristo i loro discorsi profetici o rivelazioni. Queste rivelazioni vengono definite dalla teologia come rivelazioni private. Questo concetto appare molto riduttivo perché la profezia è sempre rivolta a tutta la Chiesa e non è mai privata.
In teologia il concetto di “privato” non significa che il messaggio riguardi solo la persona che lo riceve e non anche tutti gli altri. È un’espressione che riguarda piuttosto il grado di importanza come per esempio si ha nel concetto di “Messa privata”. Con questo si intende dire che le rivelazioni dei mistici cristiani o dei profeti, non potranno mai assurgere al rango della rivelazione biblica, potranno solo condurre a quella o con quella misurarsi. Questo non significa tuttavia che questo tipo di rivelazioni non sia importante per la Chiesa. Lourdes e Fatima provano il contrario. Esse in definitiva ci riportano alla rivelazione biblica. E appunto per questo rivestono una sicura importanza.



15) Nella storia della Chiesa si può constatare che non si possono evitare ferite reciproche, tanto da parte del profeta quanto da parte dei destinatari. Come spiega questo dilemma?
È sempre stato così: l’impatto profetico non può avvenire senza la reciproca sofferenza. Il profeta è chiamato a soffrire in un modo specifico: l’essere pronto a soffrire e a condividere la Croce di Cristo è la pietra di verifica della sua autenticità. Il profeta non cerca mai di imporre se stesso. Il suo messaggio viene verificato e reso fertile dalla Croce.

16) È veramente frustrante constatare che la maggior parte delle figure profetiche della Chiesa sono state respinte durante la loro vita. Esse sono state quasi sempre criticate o sottoposte al rifiuto da parte della Chiesa. Ciò è riscontrabile nella maggioranza dei profeti e delle profetesse.
Sì, è vero. Sant’Ignazio di Loyola è stato in prigione, la stessa cosa è accaduta a San Giovanni della Croce. Santa Brigida di Svezia è stata sul punto di essere condannata dal concilio di Basilea; del resto è tradizione della Congregazione per la Dottrina della Fede di essere in un primo momento molto cauti là dove si hanno affermazioni di mistici. Questo atteggiamento è del resto più che giustificato poiché esistono molti falsi mistici, molti casi patologici. Pertanto è necessario un atteggiamento molto critico per non rischiare di cadere nel sensazionale, nel fantasioso e nella superstizione. Il mistico si manifesta nella sofferenza, nell’obbedienza e nella sopportazione e così la sua voce dura nel tempo. Quanto alla Chiesa, essa deve guardarsi dall’emettere un giudizio prematuro per evitare di meritare il rimprovero di “avere ucciso i profeti”.

17) L’ultima domanda è forse un po’ imbarazzante. Essa riguarda una figura profetica contemporanea: la greco-ortodossa Vassula Rydén. Essa viene considerata da molti credenti, anche da molti teologi, sacerdoti e vescovi della Chiesa Cattolica come messaggera di Cristo. I suoi messaggi, che dal 1991 vengono tradotti in 34 lingue, sono ampiamente diffusi nel mondo. La Congregazione per la Dottrina della Fede si è pronunciata tuttavia in modo negativo al riguardo. La “Notificazione” del 1995, nella quale accanto ad aspetti positivi negli scritti di Vassula, intravede anche punti meno chiari, è stata interpretata da alcuni commentatori come una condanna. Non è vero?
Qui Lei tocca un tema piuttosto delicato. No, la “Notificazione” è un avvertimento, non una condanna. Da un punto di vista procedurale, nessuna persona potrebbe essere condannata senza processo e senza essere stata prima sentita. Ciò che viene detto è che molte cose sono ancora da chiarire. Vi sono elementi apocalittici che suscitano problemi e aspetti ecclesiologici ancora poco chiari. I suoi scritti contengono molte cose buone, ma il grano buono è misto al loglio. È per questo che abbiamo invitato i cristiani cattolici ad osservare il tutto con prudenza e misurarlo con il metro della fede trasmessa dalla Chiesa.

18) Esiste dunque ancora un processo in corso per chiarire la questione?
Sì, e, durante tale processo di chiarificazione, i fedeli devono rimanere prudenti e mantenere sveglio lo spirito di discernimento. Indubbiamente negli scritti si constata un’evoluzione che non sembra ancora conclusa. Non dobbiamo dimenticare che le espressioni e le immagini ispirate dall’incontro interiore con Dio, anche in caso di mistica autentica, dipendono sempre dalle possibilità dell’anima umana e dalla sua limitatezza. La fiducia illimitata va posta soltanto nella effettiva Parola della Rivelazione che incontriamo nella fede trasmessa dalla Chiesa.



[testo tratto dal Sito della Congregazione per il Clero]

AMDG et DVM