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giovedì 29 ottobre 2015

Il latino, vincolo di unità tra popoli e culture

 ottobre 2015

L'evoluzione storica della lingua liturgica nel rito romano.
L'autore di questo articolo, Padre Uwe Michael Lang, già Officiale della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti e Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, ora è membro dell’oratorio di San Filippo Neri a Londra. [vedi anche il suo magistrale intervento al primo Convegno su il Motu Proprio Summorum Pontificum - Una ricchezza spirituale per tutta la Chiesa, Roma 16-18- settembre 2008 e Tamquam cor in pectore: Il Tabernacolo sull'Altare maggiore].
Lo ricordiamo anche come autore del libro Rivolti al Signore [vedi qui la Prefazione del card. Ratzinger]

L'unità culturale e politica del mondo mediterraneo fu un fattore provvidenziale nella diffusione della fede cristiana. In particolare, la diffusione della lingua greca nei centri urbani dell'Impero Romano favorì l'annuncio del Vangelo. Il greco parlato a Oriente e Occidente non era l'idioma classico, bensì la koiné semplificata, il linguaggio comune delle varie nazioni della parte orientale del mondo mediterraneo: Grecia, Asia Minore, Siria, Palestina ed Egitto.

La koiné greca era anche la lingua del proletariato urbano in Occidente che vi era emigrato dai territori orientali dell'Impero. Roma era divenuta una città multi-etnica e multi-culturale. In essa viveva anche una consistente popolazione ebraica, che sembra parlasse principalmente il greco. La lingua delle prime comunità cristiane a Roma era il greco. Ciò risulta evidente dalla Lettera ai Romani di Paolo e dalle prime opere letterarie cristiane che videro la luce a Roma, per esempio laPrima Lettera di Clemente, il Pastore di Erma e gli scritti di Giustino.

Nei primi due secoli si avvicendarono parecchi papi con nomi greci e le iscrizioni tombali cristiane erano composte in greco. Durante questo periodo, greca era anche la lingua comune della liturgia romana. 

Lo spostamento verso il latino non cominciò a Roma, ma nell'Africa settentrionale, dove i convertiti al cristianesimo erano in maggioranza nativi di lingua madre latina piuttosto che immigrati greco parlanti. Verso la metà del terzo secolo questa transizione era molto avanzata: membri del clero romano scrivevano a Cipriano di Cartagine in latino; latina era anche la lingua in cui Novaziano compose il suo De trinitate e altre opere, citando una versione latina esistente della Bibbia. Nessun riferimento si fa qui alla cosiddetta Traditio Apostolica, attribuita a Ippolito da Roma, a causa dell'incertezza sulla data, sull'origine e sul vero autore. 

Sembrerebbe che nella seconda metà del terzo secolo il flusso immigratorio dall'Oriente verso Roma diminuisse. Questo cambio demografico comportò un peso crescente dei nativi latino parlanti nella vita della Chiesa di Roma. Ciò nonostante il greco continuò ad essere usato nella liturgia romana, almeno a un certo livello, fino alla seconda metà del IV secolo; questo si evince da una citazione greca della preghiera eucaristica nell'autore latino Mario Vittorino, risalente al 360. 

Intorno a quell'epoca, comunque, la transizione al latino era in fase molto avanzata; ciò risulta molto evidente da un autore altrimenti sconosciuto che scrive fra il 374 e il 382, il quale sostiene che la preghiera eucaristica a Roma si riferisce a Melchisedek come summus sacerdos - un titolo che ci suona familiare dal più tardo Canone della messa.

La più importante risorsa per la storia della prima liturgia latina è Ambrogio di Milano. Nel suo De sacramentis, una serie di catechesi per i neo battezzati tenute intorno al 390, egli cita estesamente la preghiera eucaristica usata a quell'epoca a Milano. I passaggi citati sono le forme più antiche delle preghiere Quam oblationemQui pridieUnde et memoresSupra quae, e Supplices te rogamus del Canone Romano. Altrove, nel De sacramentis, Ambrogio sottolinea il suo desiderio di seguire l'uso della Chiesa romana in tutto; per questa ragione, possiamo ritenere con certezza che questa preghiera eucaristica fosse di origine romana. Anche nei sermoni di Zeno, vescovo di Verona dal 362 al 372, ci sono tracce che attestano la diffusione geografica di questa forma originaria del Canone Romano.

La formulazione letterale delle preghiere citate da Ambrogio non è sempre identica al Canone che Gregorio Magno promulgò alla fine del VI secolo ed è giunto fino a noi con poche modifiche di scarso rilievo rispetto ai libri liturgici più antichi, specialmente il vecchio Sacramentario Gelasiano, risalente alla metà dell'VIII secolo, ma ritenuto eco di usi liturgici più antichi. 

In ogni caso le differenze fra questi due testi sono di gran lunga inferiori alle loro somiglianze, dato che i quasi trecento anni intercorrenti fra di essi furono un periodo di intenso sviluppo liturgico.

Il passaggio dal greco al latino nella liturgia romana avvenne gradualmente e fu completato sotto il pontificato di Damaso I (366-384). Da allora in poi la liturgia a Roma fu celebrata in latino, con l'eccezione di poche reminiscenze dell'uso più antico, come il Kyrie eleison nell'Ordo e le letture in greco nella messa papale.

Stando a Ottato di Milevi, che scrive intorno al 360, c'erano più di quaranta chiese a Roma prima dell'editto di Costantino. Se questa informazione è vera, sarebbe ragionevole opinare che ci fossero comunità latino parlanti nel III secolo, se non prima, che celebravano la liturgia in latino, in particolare la lettura della Sacra Scrittura. 

I Salmi erano stati cantati in latino sin dalle origini e l'antica versione usata nella liturgia aveva acquisito una tale aura di sacralità che Girolamo la corresse soltanto con molta cautela. In seguito egli tradusse il Salterio dall'ebraico non per uso liturgico, come disse, ma per fornire un testo agli studiosi e al dibattito. Christine Mohrmann suggerisce che la liturgia battesimale fosse tradotta in latino sin dal II secolo. Nessuna certezza si può avere su questi punti, ma è chiaro che ci fu un periodo di transizione e che esso fu lungo.
Mohrmann introduce una distinzione utile fra, primo, "testi di preghiera", dove la lingua è soprattutto un mezzo di espressione, secondo, testi "destinati a essere letti, l'Epistola e il Vangelo", e, terzo, "testi confessionali", come il credo. Nei testi di preghiera ci troviamo di fronte a modi di esprimersi; negli altri primariamente a forme di comunicazione.
Recenti ricerche su lingua e rito, come l'opera di Catherine Bell, confermano l'intuizione di Mohrmann che la lingua ha differenti funzioni in differenti parti della liturgia, che vanno oltre la mera comunicazione o informazione. Queste riflessioni teoretiche ci aiutano a capire lo sviluppo della prima liturgia romana: quelle parti in cui gli elementi di comunicazione erano prevalenti, come la lettura delle Scritture, furono tradotte prima, mentre la preghiera eucaristica continuò ad essere recitata in greco per un periodo molto più lungo. 

La "sociolinguistica" - una disciplina accademica relativamente nuova - ci mette in guardia sul fatto che la scelta di una lingua rispetto a un'altra non è mai questione neutrale o trasparente. Di conseguenza è importante considerare il cambio dal greco al latino nella liturgia romana nei suoi contesti storici, sociali e culturali.

Gli storici dell'antichità hanno indicato che la formazione di lingua latina liturgica fece parte di uno sforzo a largo raggio di cristianizzazione della cultura e della civiltà romana.

Nella seconda metà del IV secolo i vescovi più influenti in Italia, soprattutto Damaso a Roma e Ambrogio a Milano, erano impegnati a cristianizzare la cultura dominante dei loro giorni. Nella città di Roma c'era una forte presenza pagana e specialmente l'aristocrazia continuava ad aderire ai vecchi costumi, anche se nominalmente erano divenuti cristiani. Roma non era più il centro del potere politico, ma la sua cultura continuava ad avere radici nella mentalità delle sue élites. 

Il IV secolo è ora considerato un periodo di rinascimento letterario, con un rinnovato interesse per i "classici" della poesia e della prosa romane. Gli imperatori del IV secolo coltivarono questaLatinitas, e ci fu una riscoperta del latino anche ad Oriente. Con tenacia caratteristica, Roma mantenne le sue antiche tradizioni. 

In relazione a ciò, i papi del tardo IV secolo promossero un progetto consapevole e comprensivo di appropriazione dei simboli della civiltà romana da parte della fede cristiana. Parte di questo tentativo fu l'appropriazione di spazio pubblico tramite impegnativi progetti edilizi. Dopo che gli Imperatori della dinastia di Costantino avevano dato il via con le monumentali basiliche del Laterano e San Pietro, come pure con le basiliche dei cimiteri fuori delle mura urbane, i papi continuarono questo programma edilizio che avrebbe trasformato Roma in una città dominata da chiese.
Il progetto più prestigioso fu la costruzione di una nuova basilica dedicata a San Paolo sulla Via Ostiense, sostituendo il piccolo edificio costantiniano con una nuova chiesa simile per dimensioni a San Pietro. Un altro aspetto importante fu l'appropriazione del tempo pubblico con un ciclo di feste cristiane lungo il corso dell'anno al posto delle celebrazioni pagane (vedi il calendario Filocalianodell'anno 354). La formazione del latino liturgico fece parte di questo sforzo onnicomprensivo di evangelizzare la cultura classica.
Christine Mohrmann ravvisa in essa il fortuito combinarsi di un rinnovamento della lingua, ispirato dalla novità della rivelazione, e di un tradizionalismo stilistico fermamente radicato nel mondo romano. Il latino liturgico ha la gravitas romana ed evita l'esuberanza dello stile di preghiera dell'Oriente cristiano, che si ritrova anche nella tradizione gallicana. Questa non fu un'adozione della lingua "vernacola" nella liturgia, dato che il latino del Canone Romano, delle collette e dei prefazi della messa, fu rimosso dall'idioma della gente comune. Essa era una lingua fortemente stilizzata che difficilmente avrebbe capito un cristiano medio di Roma della tarda antichità, considerato specialmente che il livello di istruzione era molto basso rispetto ai nostri tempi. Inoltre lo sviluppo della Latinitas cristiana può avere reso la liturgia più accessibile alla gente di Milano o Roma, ma non necessariamente a coloro la cui lingua madre era il gotico, il celtico, l'iberico o il punico. 

È possibile immaginare una Chiesa occidentale con lingue locali nella sua liturgia, come in Oriente, dove, in aggiunta al greco, erano usati il siriano, il copto, l'armeno, il georgiano e l'etiope.

Ad ogni modo la situazione in Occidente era fondamentalmente differente; la forza unificatrice del papato era tale che il latino divenne l'unica lingua liturgica. Questo fu un fattore importante per favorire la coesione ecclesiastica, culturale e politica.

Il latino liturgico fu sin dai primordi una lingua sacra separata dalla lingua del popolo; tuttavia la distanza divenne maggiore con lo sviluppo delle culture e delle lingue nazionali in Europa, per non menzionare i territori di missione. 

"La prima opposizione al latino liturgico - ha scritto Christine Mohrmann - coincise con la fine del latino medievale come "seconda lingua viva", che fu rimpiazzato da una lingua veramente "morta", il latino degli umanisti. E l'opposizione dei nostri giorni al latino liturgico ha qualcosa a che fare con l'indebolimento dello studio del latino - e con la tendenza al "secolarismo"" ("The Ever-Recurring Problem of Language in the Church", in Études sur le latin des chrétiens, IV, Roma, 1977). 

Il Concilio Vaticano II volle risolvere la questione estendendo l'uso del vernacolo nella liturgia, soprattutto nelle letture (Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 2).

Allo stesso tempo, esso sottolineò che "l'uso della lingua latina ... sia conservato nei riti latini" (Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 1; cfr anche art. 54). I Padri conciliari non immaginavano che la lingua sacra della Chiesa occidentale sarebbe stata rimpiazzata dal vernacolo.

La frammentazione linguistica del culto cattolico nel periodo post-conciliare si è spinta così oltre che la maggioranza dei fedeli oggi può a stento recitare un Pater noster insieme agli altri, come si può notare nelle riunioni internazionali a Roma o a Lourdes.

In un'epoca contrassegnata da grande mobilità e globalizzazione, una lingua liturgica comune potrebbe servire come vincolo di unità fra popoli e culture, a parte il fatto che la liturgia latina è un tesoro spirituale unico che ha alimentato la vita della Chiesa per molti secoli. Infine, è necessario preservare il carattere sacro della lingua liturgica nella traduzione vernacola, come fa notare l'istruzione della Santa Sede Liturgiam authenticam del 2001.
Uwe Michael Lang
(©L'Osservatore Romano - 15 novembre 2007)

mercoledì 3 giugno 2015

Che fine ha fatto la lingua liturgica dell'Occidente

Che fine ha fatto la lingua liturgica dell'Occidente?




Vi riporto senza commento (ma ce ne sarebbero di commenti da fare....) l'articolo del prof. Lang sulla lingua liturgica della Chiesa d'Occidente, che l'autore "osa" inserire nella categoria di "lingua sacra" (mi immagino appena l'orrore dei liturgisti di scuola contemporanea per questa blasfèmia degna di condanna a morte....). Recuperando comunque ovvie e naturali categorie antropologiche, sociologiche oltre che teologiche, il prof. Lang ci offre in condensato una lode del latino liturgico e delle sue virtù (che nessun Concilio ha mai pensato neanche lontanamente di debellare.... ma tant'è siamo arrivati dove siamo arrivati). 
Speriamo che anche questo semplice, ma incisivo articolo, possa essere un'ennesima goccia che scava la roccia (o meglio il cranio più duro della roccia dei liturgisti difensori strenui della "Sacra e immutabile Tradizione degli ultimi 40 anni"). Interessantissimo il modo con cui il padre Lang smonta, senza nominarle, alcuni dei pretestuosi e sempre ripetuti argomenti contro la reintroduzione del latino nella liturgia. In particolare fa capire, senza dirlo, che dopo anni e anni di memorizzazione dei testi nelle diverse lingue vernacole, non siamo nella condizione del pre-Concilio. 
Tutti i frequentatori della Messa domenicale sanno benissimo il Gloria, il Credo, il Santo e tutte le risposte e perfino le preghiere eucaristiche nella propria lingua. Non dovrebbero perciò aver alcun problema nel comprendere cosa "si dice" in latino! Tanto più che con un semplice foglietto possono seguire agevolmente, anche se di lingue madri diverse, la stessa liturgia cattolicamente latina.... E così un po' di commento preventivo ce l'ho messo!
Un grazie a Zenit che ci dà l'opportunità di leggere questo bell'articolo.



LA LINGUA DELLA CELEBRAZIONE LITURGICA
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di Padre Uwe Michael Lang. Officiale della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti e Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.

La lingua non è soltanto uno strumento che serve per comunicare fatti, e deve farlo nel modo più semplice ed efficiente, ma è anche il mezzo per esprimere la nostra mens in un modo che coinvolga tutta la persona. Di conseguenza, la lingua è anche il mezzo in cui si esprimono i pensieri e le esperienze religiosi.

La lingua adoperata nel culto divino, ovvero la “lingua sacra” non si spinge fino alla glossolalia (cf 1Cor 14) o al mistico silenzio, escludendo completamente la comunicazione umana, o almeno tentando di farlo. 

Tuttavia, si riduce l’elemento della comprensibilità a favore di altri elementi, in particolare quello espressivo. Christine Mohrmann, la grande storica del latino dei cristiani, afferma che la lingua sacra è un modo specifico di “organizzare” l’esperienza religiosa. Infatti, la Mohrmann sostiene che ogni forma di credere nella realtà soprannaturale, nell’esistenza di un essere trascendente, conduce necessariamente all’adozione di una forma di lingua sacra nel culto, mentre un laicismo radicale porta a respingere ogni forma di essa. 

In tal senso, il Cardinale Albert Malcolm Ranjith ha ricordato in un’intervista: «L’uso di una lingua sacra è tradizione in tutto il mondo. Nell’Induismo la lingua di preghiera è il sanscrito, che non è più in uso. Nel Buddismo si usa il Pali, lingua che oggi solo i monaci buddisti studiano. Nell’Islam si impiega l’arabo del Corano. L’uso di una lingua sacra ci aiuta a vivere la sensazione dell’al-di-là» (La Repubblica, 31 luglio 2008, p. 42).

L’uso di una lingua sacra nella celebrazione liturgica fa parte di ciò che san Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae chiama la solemnitas. Il Dottore Angelico insegna: «Ciò che si trova nei sacramenti per istituzione umana non è necessario alla validità del sacramento, ma conferisce una certa solennità, utile nei sacramenti a eccitare la devozione e il rispetto in coloro che li ricevono» (Summa Theologiae III, 64, 2; cf. 83, 4).

La lingua sacra, essendo il mezzo di espressione non solo degli individui, ma di una comunità che segue le sue tradizioni, è conservatrice: mantiene le forme linguistiche arcaiche con tenacia. Inoltre, vengono introdotti in essa elementi esterni, in quanto associazioni ad un’antica tradizione religiosa. Un caso paradigmatico è il vocabolario biblico ebraico nel latino usato dai cristiani (amen, alleluia, osanna ecc.), come ha osservato già sant’Agostino (cf. De doctrina christiana II, 34-35 [11,16]).

Lungo la storia, si è adoperata un’ampia varietà di lingue nel culto cristiano: il greco nella tradizione bizantina; le diverse lingue delle tradizioni orientali, come il siriaco, l’armeno, il georgiano, il copto e l’etiopico; il paleoslavo; il latino del rito romano e degli altri riti occidentali. In tutte queste lingue si trovano forme di stile che le separano dalla lingua “ordinaria” ovvero popolare. Spesso questo distacco è conseguenza degli sviluppi linguistici nel linguaggio comune, che poi non sono stati adottati nella lingua liturgica a causa del suo carattere sacro. Tuttavia, nel caso del latino come lingua della liturgia romana, un certo distacco è esistito sin dall’inizio: i romani non parlavano nello stile del Canone o delle orazioni della Messa. Appena il greco è stato sostituito dal latino nella liturgia romana, è stato creato come mezzo di culto un linguaggio fortemente stilizzato, che un cristiano medio della Roma della tarda antichità avrebbe capito non senza difficoltà. Inoltre, lo sviluppo della latinitas cristiana può avere reso la liturgia più accessibile alla gente di Roma o Milano, ma non necessariamente a coloro la cui lingua madre era il gotico, il celtico, l’iberico o il punico. Comunque, grazie al prestigio della Chiesa di Roma e la forza unificatrice del papato, il latino divenne l’unica lingua liturgica e così uno dei fondamenti della cultura in Occidente.

La distanza fra il latino liturgico e la lingua del popolo divenne maggiore con lo sviluppo delle culture e delle lingue nazionali in Europa, per non menzionare i territori di missione. Questa situazione non favoriva la partecipazione dei fedeli nella liturgia e perciò il Concilio Vaticano II volle estendere l’uso del vernacolo, già introdotto in una certa misura nei decenni precedenti, nella celebrazione dei sacramenti (Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 2). Allo stesso tempo, il Concilio ha sottolineato che «l’uso della lingua latina […] sia conservato nei riti latini» (ibid., art. 36, n. 1; cf. anche art. 54). Comunque, i Padri conciliari non immaginavano che la lingua sacra della Chiesa occidentale sarebbe stata totalmente sostituita dal vernacolo. 

La frammentazione linguistica del culto cattolico si è spinta così oltre, che molti fedeli oggi possono a stento recitare un Pater noster insieme agli altri, come si può notare nelle riunioni internazionali a Roma e altrove. In un’epoca contrassegnata da grande mobilità e globalizzazione, una lingua liturgica comune potrebbe servire come vincolo di unità fra popoli e culture, a parte il fatto che la liturgia latina è un tesoro spirituale unico che ha alimentato la vita della Chiesa per molti secoli. 

Senz’altro il latino contribuisce al carattere sacro e stabile «che attrae molti all’antico uso», come scrive il Santo Padre Benedetto XVI nella sua Lettera ai Vescovi, in occasione della pubblicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum (7 luglio 2007). Con l’uso più ampio della lingua latina, scelta del tutto legittima, ma poco usata, «nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità» (ibid.).

Infine, è necessario preservare il carattere sacro della lingua liturgica nella traduzione vernacolare, come fa notare con esemplare chiarezza l’Istruzione della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti sulla traduzione dei libri liturgici Liturgiam authenticam del 2001. Un frutto notevole di questa istruzione è la nuova traduzione inglese del Missale Romanum che verrà introdotta in molti paesi anglofoni nel corso di quest’anno.




Testo preso da: Che fine ha fatto la lingua liturgica dell'Occidente? http://www.cantualeantonianum.com/2011/02/che-fine-ha-fatto-la-lingua-liturgica.html#ixzz3bydaVyHk
http://www.cantualeantonianum.com 










domenica 15 marzo 2015

15. INTERVISTA AD ALESSANDRO GNOCCHI



4- Il valore della Tradizione: molti preti, chiamiamoli modernisti, sembra non vogliano riconoscere adeguatamente il valore della Tradizione, ma il loro obiettivo,dicono, è quello di costruire una Chiesa, al passo coi tempi, e quindi di uscire dagli schemi, spesso ideologici, che portano la Chiesa a conservare il passato per difendersi dal presente…Qual è la sua risposta?
Basta vedere il risultato: quando si parla della crisi della chiesa facciamo riferimento a questa ideologia che rappresenta la cultura comune del sacerdote di oggi; cioè ordinariamente il sacerdote cattolico di oggi ha questa concezione della Chiesa.
Ma preti del genere non sono cattolici!
San Tommaso diceva che basta non credere in una delle verità cattoliche per non essere cattolico, cioè in un solo elemento della dottrina cattolica per non esserlo: immaginiamo come è conciata la Chiesa di oggi. Io ho un amico salesiano (costretto a migrare per tutto il nord Italia perché non si adegua ad una serie di “cose”) il quale mi confidava che a Venezia c’era il Superiore della sua casa che gli nascondeva il crocefisso per non farglielo usare durante la Messa, per impedirgli di porlo sull’altare; oppure che il Superiore usava le candele nere sull’altare…questi sono esempi di ciò che sta accadendo nella Chiesa.
Di alcuni accadimenti non abbiamo mai dato forma pubblica perché sono veramente gravi (alcuni addirittura demoniaci) e, se non è possibile intervenire per farli cessare, è bene non denunciarli in quanto si finirebbe soltanto per scandalizzare e inquietare inutilmente le persone… Io ho risposto a quell’amico salesiano: “noi e loro appartiamo a due religioni diverse”. Ormai non formalmente ma nella pratica io, con chi sostiene che “bisogna costruire una Chiesa al passo coi tempi, e quindi uscire dagli schemi, spesso ideologici, che portano la Chiesa a conservare il passato per difendersi dal presente”, non ho niente a che fare: apparteniamo a due religioni diverse, a due chiese diverse, a due dottrine diverse, a due punti di vista diversi.
”Lo sai” mi a detto quel frate “io ho sofferto per anni e anni perché non riuscivo a capire come mai i miei confratelli mi aggredissero…adesso che ho metabolizzato tali comportamenti ho capito e mi sono messo il cuore in pace. Ora capisco il  motivo per cui mi aggrediscono nonostante siamo tutti salesiani, nonostante siamo nella stessa casa, e dovremmo lavorare, pensavo, per la stessa causa: apparteniamo a due chiese diverse!”.
Il suo Superiore gli impediva persino di celebrare tutti i giorni la Messa all’oratorio estivo, salesiano! Cioè i salesiani, che hanno come scopo ultimo la formazione cattolica dei giovani, gli impedivano di celebrare la Messa!
Quando il suo Superiore ha visto nel volantino dell’oratorio estivo il programma delle messe, l’ha chiamato e l’ha redarguito. Irritato e in piena collera gli diceva:  “ma cosa vuoi fare, vuoi farli diventare santi?” …In realtà quello dovrebbe essere l’obiettivo!... Siamo a questi livelli, lo capite?
Vi assicuro di sacerdoti e vescovi che al solo nominare la messa tradizionale si trasformano, persino fisicamente: tutto ciò è veramente inquietante; ragion per cui io non credo di appartenere alla stessa Chiesa a cui appartengono loro.
Mons. Crepaldi, arcivescovo di Trieste, ha parlato espressamente dell’esistenza di due chiese, ed è proprio così. Ma questa cosa sembra non si possa dire perché in realtà comanda quella chiesa che c’è all’interno della Chiesa. I componenti di questa chiesa eretica, ed è un fatto unico, sono riusciti a mettere in pratica ciò a cui hanno mirato di realizzare la maggior parte delle eresie nascenti da quando esiste la Chiesa: fino a ora è successo che in qualche modo queste eresie avevano sempre dovuto creare delle chiese al di fuori della Chiesa (i protestanti, gli ariani, i vari scismi); per la prima volta ora ci troviamo di fronte qualcuno che ha fatto una chiesa all’interno della Chiesa, con l’idea di farne una più bella. Se andiamo a ritroso nel tempo e guardiamo quanto accaduto nel 900 e tutto quello che ha preparato la venuta del Vaticano II, emerge con chiarezza il tentativo di affossare in modo definitivo quella Chiesa ritenuta cattiva che era la Chiesa preconciliare.
Per cui è chiaro che il concetto di Tradizione è quanto di più gli possa essere alieno, perché loro nascono per cancellare il passato, così come è curioso notare che tutte le dittature nascono per cancellare il passato. Non possono vivere se c’è un legame col passato.
La crisi dentro al mondo cristiano nasce nel rinascimento, e tutto poi trova compimento in Lutero che è il paradigma della rivoluzione sebbene non sia riuscito a creare la chiesa dentro la Chiesa come invece è stato fatto adesso.
Ora, va detto che qui ci sono gradi diversi di consapevolezza e quindi gradi diversi di responsabilità: si trovano anche sacerdoti che pensano in siffatto modo perché sono stati formati in siffatto modo. Però quelli che hanno un minimo di vocazione vera, soprattutto quelli più giovani (perché la generazione tra i 50/55 in su è persa, completamente persa perché è quella che ha fatto il cambiamento), cominciano a riflettere e notare alcune cose…
Quando passerà tutto questo? Ci vorrà qualche generazione, se non c’è un intervento provvidenziale. Il problema va indirizzato nella formazione fatta in questo modo eretico nei seminari (per fortuna non in tutti). Ci sono persino seminaristi che vengono allontanati perché ritenuti non in linea con quanto si insegna in seminario. Una volta ho incontrato due ragazzi di Cagliari, usciti dal seminario, perché si era ritenuto segno che non avessero la vocazione il fatto che si inginocchiassero alla consacrazione! A Bergamo ci sono due giovani che sono andati al seminario di Albenga in quanto ritenuti dal seminario bergamasco non idonei (uno frequentava anche la messa tradizionale, immaginatevi!)…da quando è stata liberalizzata la Messa in rito antico, su 100 persone che frequentano la Messa tradizionale, ci sono state già tre vocazioni mentre quest’anno nel seminario di Bergamo sono entrate soltanto tre nuove persone. Quindi il rapporto è 3 a 3. Una diocesi intera contro 100 persone che vanno alla Messa tradizionale! 
Da questo si evince, e ne sono assolutamente convinto, che il calo di queste vocazioni sia un segno della Provvidenza perché quei seminaristi nascono, forse, anche buoni, ma vengono formati per autodistruggersi e per distruggere il sacerdozio. È chiaro che arriveremo anche al punto in cui ci sarà un sacerdote per 20 parrocchie, però sarà un sacerdote cattolico? Ebbene, piuttosto che avere 20 sacerdoti protestanti è meglio averne uno solo, ma cattolico. La situazione può ordinariamente soltanto peggiorare, ancora adesso, anche se, girando l’Italia, da quando è diventato Papa Benedetto XVI, qualche segno, anche timido, di risveglio c’è.


5- Molti fedeli, per semplice ignoranza o perché assuefatti dalla mentalità progressista, contestano il valore della messa col rito antico, poiché il latino, ad esempio,  impedirebbe di comprendere quanto accade in quella celebrazione. Qual è quella specialità che in realtà contraddistingue proprio la messa in latino?
Intanto, punto primo,  basterebbe andare in una Messa qualsiasi col rito nuovo, prendere una persona qualsiasi e chiederle: adesso cosa sta succedendo? Non saprebbe rispondere.
Secondo, la Messa non è una conferenza, bensì un atto di adorazione. Per quanto riguarda la lingua quindi, se non si comprende tutto, non è un problema (ci sono anche i libretti con la traduzione, quindi anche in questo caso il problema non sussiste). 
Terzo, l’utilizzo della lingua latina realizza un senso sacrale e immutabile a quello che viene fatto, cosa che la lingua vernacolare non offre;  prova ne è che le traduzioni in lingua vernacolare continuano ad essere cambiate: se fosse vero che la traduzione in lingua vernacolare è la panacea di tutti i mali, dovremmo avere le chiese piene, in realtà le chiese si sono svuotate.
Quarto, ed è l’altra obiezione che mi manda su tutte le furie, è l’ammonimento di non recitare il rosario durante la celebrazione. Mia nonna andava alla Messa in latino e invece di seguirla recitava il rosario; io personalmente durante la Messa dico una corona del rosario, e purtroppo non ho la fede di mia nonna e di quelle nonnine del suo tempo. Sputare sulla fede di quelle donne che andavano a Messa alle 4 di mattina, in genere tutti i giorni, che recitavano il latino storpiato, che tornavano a casa e forse le prendevano persino dal marito, significa sputare sulla fede, perché tutto ciò che facevano in quella vita dura e di sacrificio era sorretto dalla fede… nella - Mediator Dei- c’è un punto (90) dove PIO XII spiega che non solo è possibile ma è bene dire il rosario durante la Messa: “…chi dunque potrà dire spinto da tale preconcetto -(cioè il fatto che non si deve pregare durante la messa)- che tanti cristiani non possano partecipare al principio eucaristico e goderne i benefici? Questi possono certamente farlo in altra maniera che ad alcuni riesce più facile; come, per esempio, meditando piamente i misteri di Gesù Cristo, o compiendo esercizi di pietà e facendo altre preghiere che, pur differenti nella forma dai sacri riti, ad essi tuttavia corrispondono per la loro natura”. Io seguo anche le preghiere del sacerdote, le cosiddette segrete, che sono di una bellezza straordinaria e assoluta: la Messa antica è tutto un salmo! E se recito poi il rosario partecipo di più alla Messa.

AMDG et BVM

martedì 24 febbraio 2015

Hanno chiuso il Cielo



Hanno chiuso il Cielo
Editoriale "Radicati nella fede" - Anno VII 


  È la liturgia che si deve adattare al tempo degli uomini, o è il tempo degli uomini che deve prendere la forma della liturgia cattolica?

  Ci sembra che la questione cruciale sia tutta qui.

  Un cristianesimo “modernistico” che vede le verità di fede emergere dal profondo della coscienza degli uomini, vorrebbe che la liturgia prendesse le mosse dal vissuto antropologico, dalla vita degli uomini, per celebrare la consapevolezza umana del proprio rapporto con Dio. In fondo è stata questa la linea vincente di questi anni: la liturgia ha sempre di più celebrato l'uomo, anche quando ha celebrato la fede dell'uomo. Insomma, la liturgia si è adattata alla vita del tempo. Risultato? Una tragedia! Dio e le cose eterne praticamente scomparse dalle chiese, per far posto alla fede dei credenti, che esprimono, commentano, interpretano quello che loro vivono nei confronti di Dio. La liturgia riformata parla nel migliore dei casi della Chiesa, ma quasi mai di Dio. E quando parla della Chiesa, lo fa più secondo l'ottica di “Popolo di Dio in cammino” che come “Corpo Mistico di Cristo”.

  E guardate che non stiamo parlando di quelle sfacciate para-liturgie tutte sociali e umanamente impegnate dei catto-comunisti degli anni '70... parliamo piuttosto di quelle liturgie, di quelle messe, che oggi vanno per la maggiore nell'ufficialità delle diocesi, dove si parla di fede, di comunità credente, di popolo attorno al suo vescovo; di liturgie che celebrano questa comunità, ma nelle quali non si adora Dio presente e non ci si inabissa nel mistero della redenzione. È una sorta di neomodernismo liturgico che ha superato la tentazione marxista del solo impegno del mondo, ma che parlando di fede si sofferma sui credenti, ma non arriva mai a Dio, a Nostro Signore, alle verità eterne, alla questione della salvezza. È come se ci si fosse accorti che non si poteva andare avanti, come anni fa, in un cristianesimo orizzontale, e si è così approdati all'impegno sociale ecclesiale, per edificare la comunità dei credenti. In ogni caso l'errore è sempre lo stesso: partire dall'uomo e chiudere il Cielo.
  Ma l'uomo ha proprio bisogno di questa auto-celebrazione della propria fede, o non è fatto piuttosto per inabissarsi in Dio?

  No, la liturgia cattolica è cosa totalmente diversa: è l'irruzione del Cielo sulla terra ed è la porta aperta tra il Cielo e la terra!

  Se volete tentiamo di dare due eloquenti immagini contrapposte, che dicono due concezioni diverse, molto diverse del culto: quella di un semplice prete che in una delle tante chiese sparse nell'orbe cattolico celebra, nella quiete della preghiera, rivolto al Crocifisso, l'eterno sacrificio che salva le anime, assistito dalla orante e adorante attenzione dei fedeli, e quella di una rumorosa e festosa comunità, che andando alla messa è preoccupata di “fare comunità esprimendo i propri carismi” (in verità facendo qualcosa perché nelle nuove messe mal si sopporta lo stare fermi) e di mettersi al passo con le direttive dell'operatore pastorale... e che in ultimo farà certo anche la comunione. Sono due concezioni opposte, inconciliabili. Una, quella tradizionale, fa spazio all'azione di Dio, l'altra si sofferma... ma forse, osiamo dire, si ferma all'azione della comunità!

  Vedete, le verità di fede non nascono dalla coscienza profonda degli uomini, dal vissuto della comunità che reinterpreta il proprio vissuto alla luce di Dio, ma sono comunicate dalla reale rivelazione di Dio che la Chiesa custodisce e trasmette: la rivelazione discende dal Cielo, non germoglia dalla terra come vorrebbero i modernisti. Così la liturgia porta il Cielo in terra e porta la terra al Cielo. É azione di Dio innanzitutto, e non primariamente azione della Chiesa. La Chiesa riceve l'azione di Dio, la custodisce, la esprime utilizzando certamente tutte le possibilità umane adeguate; salvaguardia la liturgia dalle modifiche errate che possono confondere l'opera di Dio e la trasmette fedelmente custodendola, perché il Cielo resti aperto sugli uomini.

  Tutti, praticamente tutti, quando si parla di Movimento Liturgico amano rifarsi a dom Guéranger, il grande abate benedettino che rifondò il monachesimo in Francia dopo la tempesta rivoluzionaria. Con lui si dà inizio al Movimento Liturgico, cioè a quella rinascita dello spirito cristiano che dalla liturgia prende le mosse. Autore prolifico, pensiamo all'Anno Liturgico da lui pubblicato ma non solo, partecipe di tutti i drammi e le battaglie della Chiesa del XIX secolo, ascoltato consigliere di Pio IX... fondatore dell'abbazia di Solesmes.

  Ma cosa voleva veramente dom Guéranger? E cosa chiedeva San Pio X, riprendendo con autorevolezza il lavoro del grande benedettino e dando così nuovo vigore proprio al Movimento Liturgico? Volevano che il popolo avesse l'intelligenza delle cose divine (che capisse la liturgia della Chiesa), perché queste penetrassero di nuovo la vita del popolo cristiano. Volevano una grande opera di educazione perché le cose del Cielo tornassero a dare forma alla vita degli uomini.

  Ma citiamo dom Guéranger: “I misteri del grande sacrificio, dei sacramenti, dei sacramentali, le fasi del ciclo cristiano così feconde in grazia e in luce, le cerimonie, questa lingua sublime che la Chiesa parla a Dio davanti agli uomini; in una parola tutte queste meraviglie torneranno familiari al popolo fedele. L’istruzione cattolica sarà ancora per le masse il grande e sublime interesse che dominerà tutti gli altri; e il mondo tornerà a comprendere che la religione è il primo dei beni per l’individuo, la famiglia, la città, la nazione e per la razza umana tutta intera” (Institutions liturgiques - seconda ediz., t. III cap. 1, pag. 13).

  Guéranger, e con lui Pio X con la sua troppo mal citata “partecipazione attiva”, volevano l'esatto contrario di quello che si è fatto dal Concilio in poi. Nel post-concilio la liturgia è stata trasformata per aderire alla vita degli uomini, la Chiesa nel passato ha invece sempre desiderato che la vita degli uomini prendesse forma dalla liturgia cattolica.

  Non volevano un abbassamento della liturgia alla vita meramente naturale degli uomini, ma volevano un innalzamento del popolo ai sublimi misteri.

  Cosa se ne fa un uomo di una liturgia che gli parla solo delle sue speranze e delle sue fatiche, che gli parla del suo “senso religioso”, ma che non gli parla mai del Cielo? E’ su questo equivoco che tragicamente è fallito il Movimento Liturgico.

  Occorre tornare a Guéranger e al vero San Pio X. Ma, a quando questo ritorno?

AMDG et BVM

La questione liturgica. Il Rito Romano Antiquior e il Novus Ordo Missae a 50 anni dal Vaticano II

lunedì 23 febbraio 2015

La questione liturgica. Il Rito Romano Antiquior e il Novus Ordo Missae a 50 anni dal Vaticano II

È uscita la Seconda edizione riveduta e aggiornata del mio saggio «La questione liturgica. Il rito Romano usus antiquior e il Novus Ordo Missae a 50 anni dal Vaticano II», Ed. Solfanelli, pag.136, Euro 11. Sarà presto distribuito nelle librerie.
Ordini via mail: tabulafatiordini@yahoo.it

Il Libro:
Lo scenario della Chiesa di oggi, riformata secondo le applicazioni del Concilio Vaticano II, presenta un mosaico di “criticità” che non sfuggono ai fedeli ed agli studiosi più coinvolti. Esse non hanno risparmiato — anzi vi trovano il loro focus — la Liturgia, culmine e fonte della vita di fede nella sua espressione sacramentale (SC,10), funzione primaria della Chiesa santificante oltre che docente e guidaper i fedeli. In vista dell’annuncio e della testimonianza di Cristo al mondo.
Nel presente saggio viene analizzato sul piano filosofico e teologico lo status quaestionis, in ambito liturgico, della crisi che viene da lontano ma caratterizza l’ultimo cinquantennio. Vengono quindi sviluppati in termini essenziali alcuni dei punti rilevanti di un dibattito ancora aperto, da diffondere ed allargare, al fine di alimentare una “pastorale” secondo la Tradizione che è vita e giovinezza della Chiesa.

L'autore
Maria Guarini, laureata in teologia ed esperta in Comunicazione e nuove tecnologie, ha diretto per anni la Biblioteca e le Relazioni al Pubblico del Ministero delle Comunicazioni. Continua a svolgere un’attività di Operatore dell’Informazione a livello internazionale.
È da tempo impegnata a testimoniare la presenza della Chiesa sulla Rete Internet, nuova frontiera di libertà e crogiolo per la formazione di correnti di pensiero svincolate dalle culture dominanti e tendenti al vero, in quanto radicate nella Tradizione perenne, ritrovando e rivendicando il primato della verità sull’azione, della conoscenza sulla prassi ateoretica. Autrice dei libri «La Chiesa e la sua continuità. Ermeneutica e istanza dogmatica dopo il Vaticano II» (DEUI, Rieti 2012) e «Agorà Telematica» (Edizioni Vivere in, Roma 2001).
Presentazione di Mons. Brunero Gherardini

Ho avuto, poco tempo fa, una gradita sorpresa: il testo La questione liturgica di Maria Guarini, un nome non nuovo nell’ambito della teologia e segnatamente della liturgia.
Il testo è dedicato alla questione liturgica, considerata non astrattamente o genericamente, ma in relazione al santo sacrificio della Messa. E più precisamente alla Messa secondo il rito che il Santo Padre Benedetto XVI ha definito straordinario. Il suo contenuto non è, dunque, ciò di cui il titolo potrebbe indurre l’attesa, vale a dire uno studio più o meno scientificamente condotto sul concetto di liturgia, sul suo contenuto e sulle sue singole parti, ma una serie di riflessioni, non raramente e giustamente critiche circa la situazione di fatto determinatasi sulla scia della “creatività” postconciliare, ma protese alla riconquista del terreno perduto. A tale riguardo non si può far altro che applaudire.

È bene poi rilevare il sano equilibrio che la Guarini distribuisce a piene mani nelle sue pagine. Si potrebbe pensare che essa si muova in direzione più tradizionalista che progressista; sono anzi convinto che le cose stiano esattamente così. Tuttavia il suo aperto tradizionalismo non è per lei un “paraocchi”. Ci vede anzi e ci vede bene, tanto se si volge all'indietro, quanto se guarda in avanti. Sa che la liturgia non è “immodificabile”, per usare un suo aggettivo; conosce l’evolversi del fatto liturgico attraverso tanti secoli di storia ecclesiastica e d’adattamento del culto alla sempre più profonda comprensione del mistero in esso e con esso celebrato. E presa dalla bellezza ineffabile e dalla ricchissima simbologia d'ogni azione liturgica, ne trae la conclusione in termini di coerenza cristiana: gettarsi in ginocchio, adorare e ringraziare.

Se è vero che liturgia e fissismo non vanno d’accordo, è altrettanto vero che dell’autentica liturgia non è un ottimo interprete né chi sa o preferisce voltarsi soltanto all’indietro, né chi, guardando in avanti, non ha occhi se non per l’ancor confuso domani.
Se s’è d’accordo su questo, allora si capisce perché né l’archeologismo fine a se stesso, né l’improvvisazione, fosse pur seria, devota ed edificante, potrebbero esser mai vera liturgia. Questa è sempre collegata alle sole due fonti che ne garantiscono l'autenticità: la continuità della sacra Tradizione e la sua proposta ufficiale ad opera del magistero ecclesiastico. Non è senza significato il fatto che la Tradizione perde la sua vitalità quando viene strappata dalle mani di chi, per divina disposizione, ne ha il controllo, la custodia e il compito di ritrasmetterla – ossia il magistero ecclesiastico –, così come viene letteralmente soffocata ogni volta che proprio chi ne ha il controllo, la custodia e il compito di ritrasmetterla è sistematicamente ignorato, se non anche rifiutato, tanto dal fissismo quanto dall'improvvisazione.

Mi sembra che sia questa la griglia attraverso la quale affrontare la lettura del succoso scritto della Guarini. Affacciandosi, infatti, a codesta griglia, s’intuisce il motivo e l’obbiettività sia dei “no” sia dei “sì” che si rincorrono nelle pagine di questo testo; si capisce soprattutto “la funzione e la ragion d’essere della Liturgia” ed il perché della conservazione gelosa della lingua latina come lingua sacra – o meglio liturgica – per eccellenza. Si tratta in realtà della griglia dalla quale traspare tutto il valore – e tutto il significato – del fatto liturgico. Specialmente sul significato non bisogna sorvolare. Guai, anzi, a non assimilarlo progressivamente e sapidamente in tutta la sua portata; ministro e fedeli rischierebbero altrimenti di coinvolgersi in una pura e semplice mess’in scena e nella conseguente recita, nonché di perder il dovuto contatto con l’actio sacra per antinomasia.

Giustamente è messo l'accento sul cosiddetto rinnovamento dal basso. Dico “giustamente” non per provocare nel lettore la consapevolezza, o addirittura la presunzione, d’esser il motore della rinnovata liturgia, e men ancora l’idea che solo dal basso possa insorgere una autentica riforma liturgica. L’accorta Autrice fa capire che un’operazione di tal genere, il cui contenuto attiene all’ambito della fede e, quindi, della divina rivelazione, non potrà né dovrà mai essere, in ultim’analisi, d'iniziativa popolare o personale, ma opera di coloro ai quali Cristo affidò il presente e il futuro della sua Chiesa.

L'importanza dello scritto qui analizzato è data anche dalla “confutazione d’alcuni luoghi comuni”. A dir il vero si tratta non di semplici “frasi fatte” e di “ritornelli” privi del senso del sacro, ma anche e soprattutto di pretestuose ed infondate obiezioni contro la forma classica del Rito Romano. Questa viene felicemente riaffermata anche mediante la critica della “desacralizzazione, banalizzazione, orizzontalità di gesti”, nonché del degrado al quale è pervenuta la deformazione concettuale e pratica d'una liturgia ridotta “a cornice sacrale”.
Importante, anche in ordine alla spesso ripetuta domanda di spiegazione, appare la precisazione sul senso da dare alla cosiddetta “attiva partecipazione”, di cui il Santo Padre ha più volte parlato e all’insegnamento del quale l'Autrice significativamente si aggancia.
In special modo l’importanza dello scritto della Guarini sta nella sua riaffermazione della centralità di Cristo, soggetto ed oggetto, attraverso il ministero ecclesiastico, dell’azione liturgica e della sua preghiera.

Non mancherà qualche lettore che, non nuovo alle tematiche teologiche e al relativo dibattito, troverà nel presente scritto alcune espressioni meno felici, riscattate però dall’evidente intenzione d’aderire con tutt’il cuore e tutta l’anima al dato rivelato, alla Tradizione, alla parola magisteriale della Chiesa. Sotto codesto punto di vista, lo scritto della Guarini ha un’incidenza d’evidente portata esemplaristica e metodologica: non si nega alla discussione, ma del dibattito teologico all’interno d’un legittimo scopo di comprensione e d’approfondimento, trova sempre la soluzione nella Parola della Chiesa.

I miei più vivi complimenti e l’augurio sincero di continuare l’impresa nella direzione seguita: l’unica che consenta al teologo di sfuggire al pericolo d’esser quasi aerem verberans
Brunero Gherardini

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domenica 30 novembre 2014

Missale Romanum PRIMA DOMENICA DI AVVENTO



PRIMA DOMENICA
DI AVVENTO
Questa Domenica, la prima dell'Anno Ecclesiastico, è chiamata, nelle cronache e negli scritti del medioevo, la Domenica Ad te levavi, dalle prime parole dell'Introito, oppure anche la Domenica Aspiciens a longe, dalle prime parole d'uno dei Responsori del Mattutino.
La Stazione [1] è a S. Maria Maggiore. È sotto gli auspici di Maria, nell'augusta Basilica che onora la Culla di Betlemme, e che perciò è chiamata negli antichi monumenti S. Maria ad Praesepe, che la Chiesa Romana ricomincia ogni anno il Ciclo sacro. Non era possibile scegliere un luogo più conveniente per salutare l'avvicinarsi della divina Nascita che deve finalmente allietare il cielo e la terra, e mostrare il sublime prodigio della fecondità d'una Vergine. Trasportiamoci con il pensiero in quell'augusto Tempio, e uniamoci alle preghiere che vi risuonano; sono le stesse preghiere che verranno esposte qui.
All'Ufficio notturno, la Chiesa comincia oggi la lettura del Profeta Isaia (VIII secolo a. C.), colui fra tutti che ha predetto con maggiore evidenza i caratteri del Messia, e continua tale lettura fino al giorno di Natale compreso. Sforziamoci di gustare gl'insegnamenti del santo Profeta, e l'occhio della nostra fede sappia scoprire con amore il Salvatore promesso, sotto i segni ora graziosi, ora terribili, con i quali Isaia ce lo dipinge.
Le prime parole della Chiesa, nel cuore della notte, sono le seguenti:
Il Re che sta per venire, il Signore, venite, adoriamolo!
Dopo aver compiuto questo supremo dovere di adorazione, ascoltiamo l'oracolo di Isaia che ci viene trasmesso dalla santa Chiesa.
Qui comincia il libro del Profeta Isaia [2].
Visione ch'ebbe Isaia, figlio di Amos, intorno a Giuda e Gerusalemme ai tempi di Ozia, Iotam, Achaz ed Ezechia, re di Giuda.
Udite, o cieli, ascolta, o terra,  
che parla il Signore:
"Dei figli ho ingranditi ed innalzati,  
ed essi mi sono ribelli.
Conosce il bue il suo padrone  
e l'asino la greppia del suo possessore [3];
ma Israele non ha conoscenza,  
il mio popolo non intende".
Ah! gente traviata,  
popolo carico di colpe,  
genia di malfattori,  
figli snaturati,
che avete abbandonato il Signore,  
spregiato il Santo d'Israele;  
tralignaste a ritroso!
Perché attirarvi nuovi colpi  
persistendo nella rivolta?
Tutto piagato è il capo  
e tutto languido il cuore.
Dalla pianta dei piedi sino alla testa  
non c'è parte intatta [4],
ma contusione e lividura e fresca piaga,  
non compresse né fasciate, né lenite con olio.
(Is 1,1-6)
 Queste parole del santo Profeta, o meglio di Dio che parla per bocca sua, debbono destare una viva impressione nei figli della Chiesa, all'inizio del sacro periodo dell'Avvento. Chi non tremerebbe sentendo il grido del Signore misconosciuto, il giorno in cui è venuto a visitare il suo popolo? Egli ha deposto il suo splendore per non atterrire gli uomini; ad essi, lungi dal sentire la divina forza di Colui che si abbassa così per amore, non l'hanno conosciuto e la mangiatoia che egli ha scelto per riposarvi dopo la nascita non è stata visitata che da due animali senza ragione. Sentite, o cristiani, quanto amari sono i lamenti del vostro Dio? quanto il suo amore disprezzato soffre della vostra indifferenza? Egli prende a testimoni il cielo e la terra, scaglia l'anatema alla nazione perversa, ai figli ingrati. Riconosciamo sinceramente che fino ad ora non abbiamo compreso tutto il valore della visita del Signore, che abbiamo imitato troppo l'insensibilità dei Giudei, i quali non si commossero affatto quando egli apparve in mezzo alle loro tenebre. Invano gli Angeli cantarono nel cuore della notte, e i pastori furono chiamati ad adorarlo e a riconoscerlo; invano i Magi vennero dall'Oriente per chiedere dove fosse nato. Gerusalemme fu turbata un istante, è vero, alla notizia che le era nato un Re; ma ricadde tosto nella sua indifferenza, e non si occupò nemmeno del grande annunzio.

È così, o Salvatore! Tu vieni nelle tenebre, e le tenebre non ti comprendono. Oh! fa che le nostre tenebre comprendano la luce e la desiderino! Verrà il giorno in cui lacererai le tenebre insensibili e volontarie, con la terribile folgore della tua giustizia. Gloria a te in quel giorno, o Giudice supremo! Ma salvaci dalla tua ira, durante i giorni di questa vita mortale! Perché attirarvi nuovi colpi? - dici - Il mio popolo non è ormai più che una piaga. Sii dunque Salvatore, o Gesù! nella Venuta che noi aspettiamo. Tutto piagato è il capo e tutto languido è il cuore. Vieni a risollevare le fronti che la confusione e troppo spesso anche vili attaccamenti curvano verso la terra. Vieni a consolare e ristorare i cuori timidi e abbattuti. E se le nostre piaghe sono gravi e indurite, vieni, tu che sei il caritatevole Samaritano, a effondere su di esse l'olio che fa sparire il dolore e ridona la salute.

Il mondo intero ti attende, o Redentore! Vieni e rivelati ad esso, salvandolo. La Chiesa, tua Sposa, comincia in questo momento un nuovo anno; il suo primo grido è un grido di angoscia verso di te; la sua prima parola è: Vieni! Le nostre anime, o Gesù, non vogliono più camminare senza di te nel deserto di questa vita. Si fa tardi: la sera s'avvicina, le ombre sono scese. Levati, o Sole divino; vieni a guidare i nostri passi, e salvaci dalla morte.
MESSA
EPISTOLA (Rm 13,11-14). - Fratelli, riflettiamo che è già l'ora di svegliarsi dal sonno; perché la nostra salvezza è più vicina ora di quanto credemmo. La notte è inoltrata e il giorno si avvicina: gettiam dunque via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Viviamo onestamente, come di giorno; non nelle crapule e nelle ubriachezze; non nelle mollezze e nell'impudicizia; non nella discordia e nella gelosia; ma rivestiti del Signore Gesù Cristo.
Il Salvatore che aspettiamo è dunque la veste che coprirà la nostra nudità. Ammiriamo in questo la bontà del nostro Dio il quale, ricordandosi che l'uomo si era nascosto dopo il peccato, perché si sentiva nudo, vuole egli stesso servirgli di velo, e coprire tanta miseria con il manto della sua divinità. Siamo dunque preparati al giorno e all'ora in cui egli verrà, e guardiamoci dal lasciarci cogliere dal sonno dell'abitudine e della mollezza. La luce risplenderà presto; facciamo sì che i suoi primi raggi rischiarino la nostra giustizia, o almeno il nostro pentimento. Se il Salvatore viene a coprire i nostri peccati affinché non appaiano più, noi almeno distruggiamo nei nostri cuori ogni affetto a quegli stessi peccati; e non sia mai detto che abbiamo rifiutato la salvezza. Le ultime parole di quest'Epistola caddero sotto gli occhi di sant'Agostino quando egli, spinto da lungo tempo dalla grazia divina a consacrarsi a Dio, volle obbedire alla voce che gli diceva: Tolle, legeprendi e leggi. Esse decisero la sua conversione; egli risolse d'un tratto di romperla con la vita dei sensi e di rivestirsi di Gesù Cristo. Imitiamo il suo esempio in questo giorno: sospiriamo ardentemente la cara e gloriosa divisa che presto sarà messa sulle nostre spalle dalla misericordia del nostro Padre celeste, e ripetiamo con la Chiesa le commoventi suppliche con le quali non dobbiamo temere di affaticare l'orecchio del nostro Dio.
VANGELO (Lc 21,25-33). - In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: Vi saranno dei segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra costernazione delle genti spaventate dal rimbombo del mare e dei flutti; gli uomini tramortiranno dalla paura nell'aspettazione delle cose imminenti a tutta la terra; perché le potenze dei cieli saranno sconvolte. E allora vedranno il Figlio dell'uomo venire con grande potenza e gloria sopra le nubi. Or quando cominceranno ad avvenire queste cose, alzate il vostro capo e guardate in alto, perché la redenzione vostra è vicina. E disse loro una similitudine: Osservate il fico e tutte le altre piante. Quando le vedete germogliare, voi sapete che l'estate è vicina. Così pure quando vedrete accadere tali cose sappiate che il regno di Dio è vicino. In verità vi dico, che non passerà questa generazione avanti che tutto ciò s'adempia. Cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.
Dobbiamo dunque aspettarci di veder giungere d'improvviso la tua terribile Venuta, o Gesù! Presto tu verrai nella tua misericordia per coprire le nostre nudità, come veste di gloria e d'immortalità; ma tornerai un giorno, e con sì terrificante maestà che gli uomini saranno annientati dallo spavento. O Cristo, non perdermi in quel giorno d'incenerimento universale. Visitami prima nel tuo amore. Voglio prepararti la mia anima. Voglio che tu nasca in essa, affinché il giorno in cui le convulsioni della natura annunceranno il tuo avvicinarsi, possa levare il capo, come i tuoi fedeli discepoli che, portandoti già nel cuore, non temevano affatto la tua ira.
PREGHIAMO
Risveglia, Signore, la tua potenza e vieni; affinché meritiamo d'essere sottratti colla tua protezione e salvati col tuo aiuto dai pericoli che ci sovrastano a causa dei nostri peccati.

[1] Le Stazioni segnate nel Messale romano per alcuni giorni dell'anno, designavano un tempo le chiese in cui il Papa, accompagnato dal clero e da tutto il popolo, si recava in processione per celebrarvi la messa solenne. Questa usanza risale senza dubbio al IV secolo; esiste ancora oggi in certa misura e le Stazioni vi si continuano a tenere, benché con minor pompa e minor concorso di popolo, in tutti i giorni segnati nel Messale.
[2] La traduzione dei brani tratti da Isaia è quella eseguita sul testo originale ebraico a cura del Pontificio Istituto Biblico di Roma (Salani, Firenze, 1953), riprodotta per gentile concessione dell'Editore.
[3] "Israele ha meno intelletto degli animali senza ragione. Questi conoscono il loro padrone. Israele non riconosce il proprio Dio e Benefattore. Questo versetto è spesso usato per descrivere l'accecamento dei Giudei che hanno respinto il loro Messia. D'altra parte esso ha contribuito a creare l'antica tradizione della nascita di Gesù tra due animali, il bue e l'asino" (Tobac, Les Prophètes d'Israel, 2, 16).
[4] "Il Profeta descrive lo stato di Giuda colpito dal castigo: egli è simile a un ferito tutto coperto di piaghe. La Chiesa applica questo versetto al Messia, 'trafitto a causa dei nostri delitti', Is 53,5" (ivi, 17).

da: dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - I. Avvento - Natale - Quaresima - Passione, trad. it. P. Graziani, Alba, 1959, p. 36-40