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venerdì 6 ottobre 2017

Un'ora sola di pena mi è parsa più lunga di un anno!

DURATA DEL PURGATORIO

E' tanto grande la nostra cecità, che spesso diciamo: « Che importa che siano atroci quelle pene? Un giorno poi finiranno».

L'obiezione fu già fatta da Sant'Agostino. Sed dicat aliquis: non pertinet ad me, quamdiu moras habeam, si tamen, ad vitam aeternam pervenero. E risponde « Per amor di Dio, non dite così! Nemo hoc dicat, fratres carissimi, nemo hoc dicat». Quelle pene, così atroci, hanno due durate cosi dolorose che mettono compassione solo a pensarvi.

La prima durata è secondo la stima che ne fanno le anime; e noi vediamo dalle rivelazioni, che un'ora sola di purgatorio sembra spesso più lunga di un secolo a quelle anime infelici, tanta è la loro impazienza di veder Dio ed eccessivo il rigore dei loro supplizi. Anche su questa terra una notte insonne, soprattutto se siamo infermi, ci pare un'eternità.

Negli annali dei padri Cappuccini si legge una storia assai curiosa (Tomo III, anno 1618).

Il padre Ippolito da Scalvo, eletto Guardiano e Maestro dei novizi in un convento di Fiandra, si sforzava di eccitare nei suoi figli spirituali le virtù proprie del loro stato sublime. Ora accadde che uno dei novizi, che aveva fatto grandi progressi nella via della perfezione spirò dolcemente nel Signore, mentre il guardiano era assente. Avvisato della sventura ritornò la sera stessa; e dopo mattutino si fermò in coro per attingere conforto nella preghiera. Ad un tratto vede il povero defunto comparirgli di tutto avvolto in fiamme, che così gli parla: « Mio buon Padre! Impartitemi, vi prego, la vostra benedizione. Per una leggera mancanza da me commessa contro la regola, mi trovo ora in purgatorio per soddisfare alla divina Giustizia. Il buon Gesù mi ha concesso di rivolgermi a voi, affinché m'imponiate quella punizione che credete conveniente; dopo la quale volerò all'amplesso eterno di Dio». Atterrito a quella vista e a quelle parole, il pio Guardiano si affrettò a dargli la benedizione, con tutta l'effusione del cuore; e per penitenza gli disse che rimarrebbe in purgatorio fino all'ora di Prima, cioè fin verso le otto del mattino. Udito ciò il novizio, si mise a correre come un disperato per la chiesa urlando: « Padre crudele! Cuore durissimo e senza pietà! Come mai volete punire tanto severamente un fallo, che in vita avreste appena giudicato degno di una leggera disciplina? Voi dunque ignorate la atrocità dei miei tormenti?».

E ciò dicendo sparì. Il povero Guardiano che aveva creduto di essere molto indulgente nell'imporre quella penitenza, si sentì drizzare i capelli per lo spavento e il dispiacere, ed avrebbe voluto rimediare a tanto errore a costo della sua vita. Ma non essendo in suo potere il farlo, suonò la campana, riunì i frati in coro, narrò loro piangendo l'accaduto; ed ordinò che s'incominciasse immediatamente la recita di Prima. Forse questo contribuì ad abbreviare le pene del defunto; ma il povero Guardiano portò nel cuore per tutta la vita il ricordo di quella scena orribile, e confessava spesso che fino allora aveva avuto una idea molto imperfetta delle pene del purgatorio.

Il Rossignoli nel suo libro « Meraviglie del Purgatorio » che scrisse per invito del Beato Sebastiano Valfré, narra che un santo religioso ebbe rivelazione dall'angelo custode, che tra breve doveva morire e restare in purgatorio, finché fosse detta una messa in suo suffragio. Esultò egli a quell'annunzio; e si affrettò ad ottenere formale promessa da un confratello che alla sua morte avrebbe subito applicato per lui il santo sacrifizio.

Poco dopo morì; ed essendo di mattina, il prete corse subito ad indossare i sacri paramenti e celebrò con grande fervore e commozione di spirito. Appena ebbe finito, mentre in sacrestia si spogliava,, gli apparve l'amico, raggiante di gloria. e gli rimproverò di aver dimenticato la promessa, lasciandolo più di un anno in purgatorio.

T'inganni, rispose l'altro meravigliato. Appena tu sei spirato, corsi in chiesa. a celebrare ed ho finito or ora. Il tuo cadavere è ancora caldo sul letto di morte».

Allora il defunto esclamò: « Ohimè! come sono spaventevoli le pene del purgatorio. Un'ora sola di pena mi è parsa più lunga di un anno! Benedetto sia Dio che così ha abbreviato la mia prova e grazie mille volte a te, o fratello Carissimo, della premura e carità che mi hai usato. Io, salgo ora al cielo e pregherò Dio che ci unisca lassù come fummo uniti sulla terra ».

La durata reale del purgatorio varia da ore a secoli. Dalle rivelazioni risulta che alcune anime vi stettero qualche ora o qualche giorno, mentre altre vi stettero anni e secoli e molte dovranno stare fino al giorno del giudizio.

Innocenzo III fu uno dei più grandi Pontefici che cinsero la somma tiara. Ebbe uno zelo ardentissimo per la gloria di Dio e la salute delle anime e compì opere meravigliose. Riunì il concilio Lateranense, si adoperò per la riforma della Chiesa, fece fronte ai disordini dei principi dell'Europa con la fermezza del Battista, rivolgendo al tempo stesso le sue cure all'Oriente.

Dopo la morte apparve a santa Lutgarda, tutto avvolto nelle fiamme, e le disse che era condannato al purgatorio, fino al giorno del giudizio per alcune colpe commesse.

Il cardinale Bellarmino diceva di rabbrividire ogni volta che pensava a questo fatto; e ne deduceva salutari conseguenze. 
« Se un Pontefice, diceva, così degno di encomio e che passa per santo agli cechi degli uomini, si trova sottoposto ai più orribili tormenti del purgatorio sino alla fine del mondo, che cosa mai sarà riserbato agli altri ecclesiastici, religiosi e fedeli? Chi non tremerà da capo a piedi e non andrà a scrutare gli intimi penetrali del suo cuore, per scacciarne gli attacchi più lievi ed i difetti anche più insignificanti? ».

Negli atti di santa Perpetua, scritti in gran parte dalla Santa mentre era in prigione e che sono una splendida testimonianza della credenza del Purgatorio nel terzo secolo della Chiesa, si legge che vide il suo fratellino Dinocrate, morto all'età di sette anni, per un cancro orribile che gli corrose tutto il volto, penare in quel carcere tenebroso. E vi stette lungo tempo perchè Perpetua si dimenticò di pregare per lui. Consideriamo il fatto. E' un fanciullo appena settenne, allevato santamente, che fece lunga penitenza in vita con quel cancro che lo rendeva oggetto di orrore a quanti lo avvicinavano; eppure è condannato nel Purgatorio, finché la sorella non prega per lui. E soffriva atrocemente, poichè le apparve in luogo tenebroso, arso dalla sete, e colla faccia tuttora corrosa dall'ulcera di cui perì. Vicino aveva una vasca d'acqua freschissima, con l'orlo più alto della. sua persona. Tentava l'infelice di arrivarvi, per saziare la sete che lo struggeva, ma non vi riusciva mai per la bassezza della statura.

S. Agostino, vent'anni dopo la morte della santa madre Monica, scrivendo le Confessioni, scongiura i lettori di pregare per lei; ed egli stesso rivolge a Dio una prece commoventissima che strappa le lacrime. Adunque dopo quattro lustri il grande Dottore temeva ancora che la, sua santa genitrice fosse in Purgatorio. Qual lezione per noi che dimentichiamo così presto i nostri trapassati e sentiamo così poco i rigori della giustizia divina!

La pia contessa Matilde era così penetrata da tali sentimenti che, alla morte di suo marito, ordinò un milione di Messe, oltre alle sue preghiere e mortificazioni ed alle generose elemosine elargite ai poverelli ed ai monasteri.

Nella vita del beato Ugone si legge che un monaco fu condannato al Purgatorio per cinquant'anni: vi stette quaranta e poi Dio gli permise di apparire per domandar suffragi. Presso il Maggiolo (Par. I Dierum canicularium, colloq. 2) si legge che un'anima passeggiava e metteva gran rumore dentro un castello, gridando ad alta voce che le erano toccati mille anni di Purgatorio orribìle.

Nelle lettere annue della Compagnia di Gesù del 1597 si trova che un giovane, modello di virtù, di nome Celso Finetti, che in morte fu onorato da una visita di Maria SS. e predisse a sè e ad un altro l'ora del trapasso, venne condannato a quatto anni di Purgatorio. Un altro pure di santa vita, ne ebbe quattordici. Eppure nella Compagnia, come in generale tutti gli Ordini, si usano fare infiniti suffragi, Messe, Comunioni, rosari, uffizi e penitenze.

Narra il Padre Rossignoli nelle Meraviglie sul Purgatorio, che un pittore in tempo di sua gioventù si lasciò trascinare dal cattivo esempio; e pressato vivamente da un signore, dipinse un quadro in cui vi era qualche nudità.

Più tardi si pentì di quell'opera che poteva essere di scandalo alle anime e si pose a riparare al mal fatto col dipingere unicamente immagini sacre, proprie ad accendere la devozione. L'ultimo suo lavoro fu un grande quadro, che donò gratuitamente alla chiesa dei Carmelitani, affinchè i frati celebrassero messe in suffragio dell'anima sua, quando Dio lo avesse chiamato agli eterni riposi.

Infatti poco dopo si addormentò placidamente nel bacio del Crocifisso, pieno di fiducia in quella misericordia che volentieri perdona e fu sepolto nella chiesa dei medesimi Carmelitani. Tutti avevano una dolce fiducia che fosse salito presto alla gloria eterna, perchè la sua vita negli ultimi anni era stata veramente edificante. Ma quanto non sono diversi i giudizi di Dio! Qualche giorno dopo che era stata chiusa la sua tomba, un religioso rimasto in coro dopo il mattutino se lo vide comparire innanzi, tutto avvolto nelle fiamme. Spaventato il Carmelitano gli domandò se egli era il buon pittore morto poc'anzi, e come mai si trovasse tra quelle pene.
Allora l'infelice, traendo un gran sospiro, disse che al tribunale di Dio molte anime scandalizzate da quel quadro dipinto in sua gioventù, avevano deposto contro di lui e che Dio l'aveva condannato ad ardere nel Purgatorio tra tormenti indicibili, finchè quella pittura non fosse distrutta. Lo supplicava quindi di recarsi dal proprietario ed indurlo a gettare sul fuoco il quadro, annunciandogli al tempo stesso, che in pena di averlo sollecitato a dipingere quella figura, Dio gli avrebbe tolto con morte prematura i suoi due figli.

Si affrettò il religioso ad obbedire. Il signore bruciò all'istante la tela; ma ciò, nonostante si vide, nel breve giro di un mese, morire i suoi cari figli. Allora si pose a far penitenza del fallo commesso nell'ordinare e conservare il dipinto, finché ebbe vita.
AMDG et BVM

martedì 3 ottobre 2017

Nemo credit, nemo credit, nemo credit, -

- quam districte judicet Deus et quam severe puniat.

"...offero tibi Deo vivo et vero... et pro omnibus
fidélibus christianis vivis atque defunctis:
ut mihi et illis proficiat ad salutem in vitam aeternam. Amen"

FIAMME DEL PURGATORIO

Abbandoniamo ora questa terra e spingiamo lo sguardo oltre la tomba, per contemplare i castighi terribili con cui Dio punisce il peccato veniale. Vi è un carcere creato appositamente a ciò dalla giustizia divina, carcere pieno di fuoco e di tutti i tormenti: il purgatorio. Che cos'è il purgatorio? E' un inferno temporaneo; e le stesse fiamme che bruciano il dannato purificano pure l'eletto. Eodem igne, dice S. Tommaso, torquetur damnatus et purgatur electus

Tra l'inferno ed il purgatorio non passa, altra differenza che quella della durata: il primo non finisce mai, mentre il secondo ha un termine, che varia a seconda della gravità e del numero delle colpe. La più piccola pena del purgatorio è di gran lunga superiore alla più grande di questo mondo. Il fuoco nostro è freddo, dice un Santo, a paragone di quello che brucia. quelle povere anime. Tra le fiamme del purgatorio e le nostre v'è la differenza, che passa tra il fuoco reale ed il dipinto. 
S. Caterina da Genova scrive: « Le anime purganti provano un tal tormento, che lingua umana non può riferire, né alcuna intelligenza darne la più piccola nozione, eccetto che Dio non lo facesse conoscere per grazia speciale ». 

Vi è nel purgatorio come nell'inferno doppia pena, quella del danno, che consiste nella privazione di Dio, e quella del senso. La pena del danno è senza paragone più grande: ed è tanto più intensa, perché quelle anime, vivendo nell'amicizia di Dio, sentono più forte il bisogno di unirsi a Lui, come l'ago calamitato si volge al polo, la freccia vola al centro ed il fuoco tende ad elevarsi.

Un religioso di S. Francesco, morto in concetto di molta virtù, comparve dopo lungo tempo ad un suo amico, lamentandosi d'essere stato abbandonato. Ciò era vero, perché il confratello, stimando il defunto già pervenuto alla gloria eterna, non pregava più per lui, e su questa supposizione faceva a quell'anima le sue scuse. Diede allora un lamentevole grido l'anima abbandonata; e disse tre volte: Nemo credit, nemo credit, nemo credit, quam districte judicet Deus et quam severe puniat. Nessuno può credere, nessuno può credere, nessuno può credere quanto laggiù si è giudicati severamente. Il Divin Redentore stesso ci ha avvertito, che non ne usciremo, senza prima aver pagato tutti i nostri debiti fino all'ultimo centesimo: Donec reddas novissimum quadrantem (Matth. V. 26).

Verso la metà del nostro secolo, il Signore nella; sua bontà permise un'apparizione di oltre tomba per confermarci nella fede del purgatorio e dimostrarci l'intensità dei patimenti che laggiù si soffrono. Nel monastero delle Francescane di Foligno una Suora, morta, da poco tempo in concetto di santità, apparve alla sorella che l'aveva sostituita nel suo ufficio, per impetrare suffragi. « Ahi! quanto soffro » disse; e per darne una prova, toccò con la palma della mano la porta e vi lasciò l'impronta carbonizzata, riempiendo la camera di fumo denso e di odor di legno bruciato. Quel terribile segno si conserva ancora; e chi non credesse può recarsi nel convento per osservarlo da vicino e leggere la cronaca del fatto.

A Zamora, città della Spagna, viveva in un convento di Domenicani un buon religioso, legato in santa amicizia con un Francescano, uomo come lui di grande virtù. Un giorno in cui s'intrattenevano di cose spirituali,, si promisero, scambievolmente che il primo a morire sarebbe apparso all'altro, se così a Dio fosse piaciuto, per informarlo della. sorte toccatagli nell'altro mondo. Morì il Francescano e, fedele alla sua promessa, apparve al religioso Domenicano, mentre stava preparando il refettorio. Dopo averlo salutato con straordinaria benevolenza, gli disse di essere salvo, ma che gli restava ancor molto a soffrire per alcuni piccoli falli dei quali non s'era abbastanza pentito in vita. Indi soggiunse: «Niente c'è sulla terra che possa dare un'idea delle mie pene». E perchè il Domenicano ne avesse una prova,. stese la destra sulla tavola del refettorio. All'istante il legno andò in fumo ed in fiamme, e vi restò la impronta, come se la mano fosse stata un ferro rovente. Immagini ognuno la commozione del Domenicano a quello spettacolo! Corse a chiamare ì confratelli, mostrò loro quel segno ferale e tutti si ritirarono subito in Chiesa a pregare per l'infelice defunto. Questa rivelazione è narrata nella vita di S. Domenico, scritta da Ferdinando di Castiglia (28 parte, libro I, capo 23). La tavola si conservò a Zamora religiosamente fino al termine del secolo passato, quando le rivoluzioni politiche la fecero sparire, insieme con tanti altri ricordi di pietà, di cui abbondava l'Europa.

Nella Storia del Padre Stanislao Choscoa, domenicano polacco, si legge che un giorno, mentre pregava per i defunti, vide un'anima tutta divorata dalle fiamme, come un carbone nel mezzo di una fornace ardente. Il pio religioso la interrogò, se quel fuoco era più penetrante del terreno.
Ahimè! rispose gemendo la misera tutto il fuoco della terra, paragonato a quello del purgatorio, è come un soffio d'aria freschissima.
E come mai è possibile? soggiunse Stanislao: Bramerei pur farne la prova, a condizione che ciò giovasse a farmi scontare una parte delle pene che dovrò un giorno soffrire nel purgatorio.
Nessun mortale replicò allora quell'anima potrebbe sopportarne la minima parte, senza morirne all'istante, se Dio non lo sostiene. Se vuoi convincertene stendi la mano.
Stanislao, lungi dallo sgomentarsi, porse la mano; ed il defunto vi lasciò cadere sopra una goccia del suo sudore. All'istante stramazzò al suolo, emettendo grida acute. Quella stilla gli aveva passata la carne, lasciandovi una piaga profonda.

Accorsero i confratelli atterriti e con pronte cure lo fecero ritornare in sé. Allora raccontò, pieno di spavento l'accaduto: e concluse dicendo: « Ah! fratelli miei, se ognun di noi conoscesse il rigore dei divini castighi, non peccherebbe giammai. Facciamo penitenza in questa vita per non doverla, poi fare nell'altra, perchè terribili sono quelle pene; combattiamo i nostri difetti e specialmente le colpe veniali avvertite. La Maestà divina è cosa santa, che non può soffrire la minima macchia nei suoi eletti ». Dopo di che si pose a letto e vi stette un anno, sempre tormentato da orribili spasimi, prodotti dalla piaga della mano.
Alla fine dell'anno, dopo di aver nuovamente esortato i suoi confratelli a temere i rigori della giustizia divina ed a fuggire qualunque peccato, benché leggero, spirò nel bacio del Signore. Lo storico aggiunge che questo fatto rianimò il fervore in tutti i monasteri e che i religiosi s'eccitavano a vicenda nel servizio di Dio, al fine di essere salvi da sì atroci supplizi.
*
Il venerabile Bernardino da Busto, non men dotto che santo religioso, racconta che un suo fratellino, di nome Bartolomeo, morto ancor puro ed innocente nell'età di otto anni, fu condannato al purgatorio, perchè talora aveva recitato distratto le preghiere del mattino e della sera.

Nella storia dell'ordine Cistercense si legge di una monaca di molta virtù, che andò al purgatorio, perchè disse, senza necessità, qualche parolina sottovoce in coro al tempo dell'ufficio divino; e di un altro religioso per non aver chinato la testa al Gloria Patri, come prescriveva la regola. Essi comparvero cinti di fiamme ad implorare aiuto e ad ammonire il convento dei rigori della Giustizia divina.

Nella vita di S. Martino si legge che morì una vergine chiamata Vitalina. Era in tal concetto di santità, che non solo la città ma tutta la diocesi di Tours andò alle sue esequie, non già per suffragare l'anima, ma per impetrare grazie dalla sua intercessione, persuasi tutti che fosse in cielo. Lo stesso S. Martino non disse requiem o de profundis; e solo si congratulava con lei della sua sorte beata e ringraziava Dio dei favori fattile. Allora la defunta gli si fece vedere in abito bruno, l'occhio mesto, il volto bianco come un cencio, e con voce lamentevole: « Non mi è ancora concesso, disse, di vedere il volto del mio Signore ». Oh! Dio, e perchè mai? 
«Perché un giorno di venerdì violai la regola, che ordina di non acconciare i capelli in segno di lutto per la morte del Divin Redentore».

Un Domenicano di gran pietà fu punito atrocemente solo per soverchio affetto che aveva ai suoi scritti; ed un Cappuccino di santa vita comparve in veste di fuoco, solo perchè, essendo cuoco del convento, consumò un poco di legna più del bisogno, contro il voto di povertà.

Gli stessi Santi canonizzati poi dalla Chiesa non sempre andarono esenti da quelle terribili fiamme espiatrici... Si legge nelle opere di S. Pietro Damiani che San Severino, Arcivescovo di Colonia, quantunque fosse stato in vita pieno di zelo apostolico e adorno di straordinarie virtù, dovette tuttavia rimanere per qualche tempo in quel luogo di espiazione, per avere senza bisogno anticipate le ore canoniche.

S. Gregorio Magno riferisce nei suoi dialoghi, (Libro IV, capo 40) che il santo diacono Pascasio fu condannato ad una lunga espiazione, come il defunto stesso rivelò a S. Germano di Capua. Eppure la sua dalmatica, stesa sul feretro, aveva operato portentosi miracoli.

S. Pellegrino e S. Valerio, vescovi di Augusta, passarono pure per quel fuoco. Quest'ultimo essendo vecchio cadente, cercò di lasciare l'arcivescovado ad un suo nipote, ecclesiastico meritevole per la scienza e per la virtù di cui era adorno. Ma siccome oltre al merito, guardò anche alla persona del nipote, così ebbe, per quell'affetto carnale, due terribili castighi. Dio gli tolse subito il nipote con morte prematura, e condannò lui ad un severo purgatorio, dove fu udito gridare pietà e misericordia, mentre il popolo lo invocava come santo.

Al leggere questi esempi viene spontanea sul labbro la preghiera del santo profeta: Confige timore tuo carnes meas, a judiciis enim tuis timui: Inchioda col tuo timore le mie carni, perchè ho temuto i tuoi giudizi (Ps. CXVIII, 120).

Papa BenedettoXVI. I precedenti sono di uguale importanza

AMDG et BVM

lunedì 2 ottobre 2017

O profondità delle ricchezze della sapienza e della scienza di Dio!


TERRIBILI CASTIGHI

Il nome di veniale, dato al peccato di cui parliamo, è nome improprio, che non ne designa la natura, perchè si può attribuire anche al mortale, il quale è pur remissibile, capace di venia cioè di perdono, se l'uomo si pente, ne domanda perdono a Dio e lo confessa al sacerdote. Del resto anche la colpa veniale non ottiene remissione che con la penitenza o con qualche atto soddisfatorio. Se tu pecchi, per quanto leggermente, e non ti penti, Dio ti punirà o in questa vita o nell'altra, e ti farà scontare severamente la colpa commessa.
Anzi talvolta la Giustizia divina ha castigato in questo mondo certe colpe veniali, con un rigore che ci riempie di spavento e ci dimostra quanto essa odia il peccato, anche leggero. Nella Sacra Scrittura possiamo trovare non pochi esempi.

L'infelice moglie di Lot fu colpita di morte istantanea e cambiata in una statua di sale per una curiosità. Udiva il crepitar delle fiamme, le grida disperate dei cittadini; e si voltò per osservare quel terribile spettacolo.

Mosè ed Aronne furono esclusi dalla terra promessa per una mancanza di confidenza, quando percossero due volte la rupe per ottenere l'acqua tra le infuocate arene del deserto. Quanto non sono imperscrutabili i giudizi divini! Dio perdonò al capo del sacerdozio levitico il grave peccato di aver assecondato Israele, nel fabbricarsi il vitello d'oro, e non perdonò quella leggera diffidenza! E notiamo la gravezza del castigo. I due fratelli avevano strappato il loro popolo dalla schiavitù dei Faraoni, l'avevano condotto per il deserto, attraverso a mille stenti, difendendolo dai nemici. Avevano speso tutta la loro vita nel beneficarlo. nobilitarlo della lunga schiavitù ed elevarlo a vera nazione. Non rimaneva più che introdurlo nella terra promessa, luogo sospirato da tanto tempo e riposo beato di lunghe fatiche. Quanto tranquilli sarebbero allora discesi nella tomba benedetti dalla tribù! Ma no: essi hanno commesso un peccato veniale, e per questo peccato non toccheranno la meta ardentemente bramata. 

Vedranno da lungi quella terra fortunata, contempleranno le fertili valli baciate dalle onde del Giordano, le colline popolate di vigneti, le pianure biondeggianti di messi mature; ma non vi porranno piede. Altri coglierà il frutto delle loro fatiche, altro gusterà la gioia di porre fine al pellegrinaggio d'Israele ed intonare il cantico finale di ringraziamento all'Eterno, che nutri il suo popolo con la dolce manna e lo salvò da mille pericoli. Mosè ed Aronne moriranno senza compiere la loro missione, in castigo della loro diffidenza.

Infelice Davide! Nel colmo di sua potenza dimenticò per un istante che Dio dal campo lo aveva sollevato al trono e gli aveva cambiato l'umile bastoncello nello scettro. Fece il censimento del suo popolo e si compiacque vanamente di quel numero sterminato di sudditi, attribuendo quasi a sè quella gloria che era di Dio. Subito l'ira divina scese su di lui e domandò una severa espiazione, proponendogli tre orribili flagelli: la peste, la fame e la guerra. « Venga la pestilenza, esclamò l'umile monarca pentito, e così correrò anch'io il pericolo comune di essere infetto e punito personalmente della mia colpa ». Ed il contagio invase il popolo, e ben sessantamila perirono.

L'Arca santa veniva portata processionalmente, con gran pompa, dalla casa di Aminadab a Gerusalemme. Davide, seguito da trentamila guerrieri, il fiore dell'esercito d'Israele, nelle loro brillanti armature, le faceva corteggio, al suono delle cetre e dei timpani, tra il fumo degli incensi ed il lieto canto dei salmi. Ad un tratto i buoi recalcitrando, fanno dondolare l'Arca; ed Oza stende la mano per fermarla. Non l'avesse mai fatto! All'istante cade al suolo morto, quasi colpito dal fulmine. Egli era semplice Levita e non poteva toccare l'Arca. Quella morte improvvisa gettò lo spavento in tutti. 
Davide concepì un'idea così grande della maestà divina, che non osò più ospitare l'Arca nel suo palazzo, e la fece condurre nella casa di Obededon.
Profeta, disse un dì il Signore a Semeia, va', distruggi l'altare profano che Geroboamo edificò agli idoli ed annunziagli terribili castighi. Ma bada di non mangiare, né di bere cosa alcuna in quel luogo maledetto e di non ritornare per la via per cui sei venuto. Veloce il servo di Dio vola alla reggia, parla con voce franca all'empio monarca e con un cenno atterra l'altare. 
Legate il temerario, esclamò furibondo Geroboamo; e stese la mano verso le guardie. Ma quella, mano resta paralizzata; ed allora il superbo dovè umiliarsi ed implorare la sanità dal profeta. L'uomo di Dio pregò e gliela ottenne. 
Compiuta la sua missione, Semeia, rifiutando i doni del re, se ne ritornava per una via diversa da quella per cui era venuto. Quand'ecco incontra un altro profeta, il quale, per mettere alla prova la sua obbedienza, lo invita con calde istanze a rifocillarsi. Resiste egli, ma poi si lascia vincere. Poco dopo un leone, strumento dell'ira divina, lo sbranò per punire quella trasgressione agli ordini ricevuti.

Ascendeva Eliseo, già vecchio cadente, la bella collina di Bethel, popolata di verdi foreste; ed una turba di monelli si prese a burlarlo, dicendo: « Vieni su, o vecchione, vieni su, o calvo ». Il servo di Dio fu afflitto da quella mancanza di rispetto alle sue calvizie, e maledisse gli insolenti nel nome del Signore. Subito uscirono dalla selva due orsi feroci, che si scagliarono su quei tristi, sbranandone quarantadue.

Più terribile fu ancora la punizione toccata ai Betsamiti. Migliaia e migliaia di essi restarono fulminati per aver guardato con curiosità ed irriverenza nell'Arca santa.

Maria, sorella di Mosè, per una mormorazione contro il fratello fu punita di lebbra. 
Anania e Safra dissero una bugia a S. Pietro e furono colpiti di morte istantanea.

Dinanzi a queste terribili punizioni vengono spontanee le parole della Scrittura: Quis non timebit te, o Rex gentium? (Ier. X, 7) Quis novit potestatem irae tuae, et prae timore tuo iram dinumerare?(LXXXIX, 11, Ps.). Notiamo che in tutti questi fatti scritturali, i santi Padri vedono per lo più solamente una colpa veniale, per difetto dì materia, o per difetto di cognizione, o per difetto di volontà o per altre circostanze attenuanti.
Soggiungiamo poi a nostro conforto che certamente Dio punì con rigorosa pena temporale tali mancanze per usare misericordia nella vita futura.

Ora se Dio castiga con la morte, che è la massima pena temporale, il peccato veniale, dobbiamo concludere che essa non è cosa da nulla, come talvolta ci pensiamo, ma un male grandissimo da evitare a qualunque costo.

Mentre Dio suole spesso flagellare con tanto rigore il peccato veniale, spesso premia anche con preziosi favori le piccole corrispondenze alla grazia, per invitarci ad essere fedeli nel poco. 
Fu rivelato a S. Gregorio Magno, che il Signore gli donò la somma tiara pontificia, per un'elemosina fatta ad uno sconosciuta Euge, serve borse et fidelis, quia super pauca fuisti fidelis super multa te constituam (Matth. XXV, 23). Orsù, servo buono e fedele, perchè nel poco sei stato fedele, ti farò padrone del molto.

Un giovane gesuita, in tempo di vacanza, stava per andare a diporto, quando un Padre lo pregò di fermarsi a servirgli la Santa Messa. Acconsentì egli di buon grado, e rinunciò alla passeggiata. Dopo alcuni anni andò missionario tra gli infedeli, e colse la palma del martirio. Venne rivelato ad un confratello, che il fortunato giovane era stato da Dio favorito della grazia insigne di versare il sangue per la fede, per quel piccolo sacrifizio fatto in quel dì, a richiesta del sacerdote. O altitudo divitiarum sapientiae et scientiae Dei: quam incomprehensibilia sunt judicia eius et investigabiles viae eius (ad Romanos XI, 33)! O profondità delle ricchezze della sapienza e della scienza di Dio! Quanto incomprensibili sono i suoi giudizi ed imperscrutabili le sue vie!

AMDG et BVM

venerdì 29 settembre 2017

Generosità con il Signore Gesù

BELLEZZA DI UN'ANIMA IN GRAZIA

Chi desidera arrivare alla perfezione deve assolutamente muovere guerra atroce di sterminio ai difetti ed alle colpe anche leggere. La santità è incompatibile coi peccati veniali commessi ad occhi aperti, con piena cognizione del male che facciamo. Bisogna essere generosi col Signore e non disgustarlo continuamente, se desideriamo che anch'Egli sia largo con noi delle sue grazie. L'anima che sta attaccata alle creature con affezioncelle, non può volare liberamente all'amplesso beato di Dio. Che importa all'uccellino di essere legato con filo sottile o con una grossa corda, se non può librarsi a piacimento nell'aria?

Vaga è la rosa, fragrante e ci attira coi suoi colori brillanti alla luce del sole: ma se ha una foglia avvizzita, perde molto del suo pregio. Una mela matura e bella se ha una parte guasta, per quanto piccola, non è più degna di essere collocata sulla mensa reale. Un magnifico vestito di seta, adorno di oro e di gemme, ricamato da mano esperta, riceve una piccola macchia. Via, via! La regina non lo vestirà più. Dev'essere tutto puro, tutto immacolato, senza alcun neo. Nella reggia non entrano che vesti convenienti alla maestà, regale.

Dio è la santità stessa che scorge imperfezioni anche nei Serafini che tremano dinanzi a Lui, velandosi il volto colle ali; e vuole che le anime, consacrate in modo speciale al suo amore, cerchino di acquistare la purezza di coscienza. Chi dunque fa pace coi suoi difetti, chi si adagia mollemente nelle sue imperfezioni,. chi ripete sempre le stesse colpe compiacendosi in asse e non curando di emendarsi, non speri di arrivare alla perfezione, di essere ammesso nella intimità dell'Amor divino ed inebriato di celesti consolazioni. Perchè Dio si comunichi intieramente all'anima, bisogna che essa sia vuota di ogni affetto terreno e spoglia di ogni attacco alle creature. Se il nostro cuore è lordo di fango, se ama le cose caduche della terra, non può essere illuminato dai raggi divini e riempito del soave liquore della sua santa grazia. Il balsamo perde presto il suo profumo se vi muore dentro una mosca.

Santa Margherita Maria Alacoque, la fortunata discepola del Cuore divino, entrata nel monastero e datasi alla più sublime perfezione, conservò un attacco sensibile ad una compagna. Gesù le apparve e le fece intendere che quel dolce legame contristava il suo amore, geloso di regnare nel cuore di lei, e che doveva assolutamente troncarlo. 
La santa vergine, sensibile ad ogni minima prova di affetto, lottò per vari mesi contro quell'attaccamento e infine trionfò; ed allora lo Sposo Divino la inondò di consolazioni e l'abbellì di favori singolari, che fino allora le aveva nascosti, perché non ancora libera di se stessa.

La serafina del Carmelo, S. Teresa di Gesù, ebbe una terribile visione, in cui le fu mostrato l'inferno ed il luogo preparato per lei se non si emendava di alcuni difetti che la avrebbero poco per volta trascinata alla perdizione. Ed un'anima veduta dalla ven. Suor Anna dell'Incarnazione, morta in concetto di santa, fu veramente dannata per difetti leggeri che la portarono a colpe gravi.

I peccati veniali in una persona che si dà alla perfezione fanno l'effetto di moscerini o polvere negli occhi. Un granellino di sabbia od una pagliuzza è un nonnulla; ma se entra in un occhio lo fa lacrimare e soffrire atrocemente: lo si vede gonfiare, diventar rosso e, finché non è uscito, non si può star fermi e neppure veder bene gli oggetti.

La beata Chiara di Montefalco un giorno s'invanì di una sua azione, ed il Signore le sottrasse subito i lumi e le celesti consolazioni per molto tempo, nonostante che ella facesse penitenza del suo fallo e ne chiedesse perdono con un profluvio di lacrime.

Gesù Cristo è uno Sposo geloso, che non può tollerare le infedeltà al suo amore nelle anime a Lui consacrate. Egli le amò perdutamente fino a discendere dal cielo, vestire umana carne, soffrire dolorosissima passione e finalmente morire in croce; ed ha diritto che esse gli donino tutto il loro cuore, senza dividerlo con le creature. E' così piccolo questo cuore che non ammette due amori; e conviene che arda tutto per Colui che lo creò e lo redense e desidera santificarlo.

La santa vergine olandese Liduvina, vissuta per trentott'anni in un letto, colpita da tutte le infermità, alla morte di suo padre si afflisse più che non conveniva ad un cristiano, il quale sa che la tomba non è che la culla dell'immortalità. In castigo di quell'affetto troppo naturale ed eccessivo, Dio la privò delle dolci consolazioni, con cui soleva visitarla sul letto del suo dolore: e gravò la mano su di lei mandandole molte pene interne.

Un pio solitario fu avvertito di quanto passava in quell'anima e le mandò a dire che si correggesse di quell'imperfezione e si rassegnasse all'adorabile Volere divino, se voleva riacquistare i favori di prima.

Appelliamoci infine alla nostra esperienza. Non è forse vero che quando cadiamo in difetti volontari, quando neghiamo a Dio il sacrificio delle nostre piccole voglie ed accontentiamo le affezioni disordinate del cuore, subito sentiamo diminuire la grazia di Dio, la soavità nella pratica della virtù e lo slancio nel cammino della perfezione? 
Allora l'anima nostra sonnecchia nel servizio divino: Dormitavit anima mea pro taedio (Psal. CXVIII); e non è più capace di propositi generosi e di magnanime risoluzioni. E' malaticcia, è ferita, come il disgraziato sulla via di Gerico, e se non ci affrettiamo a medicarla, presto morirà. Perciò se vuoi farti santo, muovi guerra spietata alle colpe veniali avvertite. Non essere avaro con Dio, non misurare col compasso o col metro fin dove arrivi il lecito e l'illecito, il mortale e il veniale, l'obbligo grave e quello leggero. Questo è difficile e pericoloso, perchè i limiti non sono sempre chiari. Cerca invece di evitare qualsiasi offesa di Dio, obbedendo sempre alle soavi ispirazioni della Grazia.

Volere è potere; e chi vuole tenacemente si fa santo, perchè gli aiuti divini non mancano mai a chi li riceve con prontezza e li traffica con sollecitudine.

Salve Sancte Pater

mercoledì 27 settembre 2017

Bisognerebbe cambiare il nome al veniale.


SULLA BILANCIA DELLA FEDE

[Premesso che in questo mondo nessuno mai sarà perfetto. Solo la divina Madre di Dio è stata Perfetta anche in questa vita...]

Vediamo il peccato veniale alla luce dell'eternità. 
Che cosa è mai? 
E' un disordine che si commette col pensiero, con la parola, con l'azione o con l'omissione contro la legge del Signore, ma che non è cosa grave da farci incorrere nella sua disgrazia. 

Nei termini pertanto di questa colpa si rinchiude tutto ciò che costituisce un vero peccato, cioè: Dio che comanda e l'uomo che ricusa di obbedire. Quindi non vi è altra differenza tra il peccato mortale ed il veniale che dal più al meno, cioè conoscenza più o meno perfetta, consenso più o meno completo, materia più o meno grave.

Ma è sempre un'indegna preferenza accordata alla volontà dell'uomo su quella di Dio, e perciò è una vera offesa che si fa a Dio. Se lo confrontiamo col peccato grave, il veniale è certo cosa lieve; ma se lo consideriamo in se stesso, è un affronto che racchiude una gravità infinita, perché offende una infinita maestà. 
La nostra terra paragonata al sole, a Sirio o ad altre stelle è come un granellino di sabbia perduta negli spazi; ma guardata in se stessa non è certo piccola; e le cinque parti del mondo con le loro sublimi montagne ed i cinque oceani con la loro sterminata quantità di acqua, offrono una estensione che sembra interminabile.

Bisognerebbe cambiare il nome al veniale. Al nostro orecchio, avezzo alle massime del mondo, peccato veniale significa quasi cosa da nulla, peccato che non è peccato. Eppure è un'ingiuria che noi, vili esseri della terra, destinati alla corruzione del sepolcro, impastati di ogni miseria, facciamo al Dio eterno, che con una parola distese il padiglione dei cieli e lo disseminò di stelle, pari a rubini brillanti; al Dio immenso che con una parola ci trasse dal nulla e con una parola, mentre l'offendiamo, potrebbe riversarci nel nulla.

Mettiamo da un lato l'uomo con le sue miserie, dall'altro Dio con le sue infinite perfezioni, e poi vedremo se il peccato veniale è cosa da poco. I Santi sogliono paragonare la colpa veniale ad una ingiuria che si fa a Dio, ad una crollata di spalle, mentre dicono che il peccato mortale è un pugnale piantato in cuore a Dio, Perché, per quanto è in sé, nega, distrugge, uccide il Creatore. E vi par poca cosa fare un'ingiuria a Gesù Cristo che ci redense? Noi abbiamo forse pianto al leggere nel santo Vangelo l'empietà crudele di quel servo [Malco] che diede uno schiaffo al Divin Redentore nel Sinedrio dinanzi a Caifa.

Quanto più dovremmo invece piangere sulle nostre colpe veniali, che insultano. più amaramente il dolce nostro Signore; dico più amaramente, perché quel servo non riconosceva in Gesù il Figlio di Dio, mentre noi lo conosciamo e pur l'offendiamo.

Un cortigiano si guarda bene dal crollar le spalle quando il Re comanda. E perchè noi le crolliamo a Dio con tanta facilità? Si! Perchè Dio è buono, noi abusiamo della sua bontà. Egli non fa come il re Assuero che degradò la regina Vasti, solo perchè non volle andare al suo convito e la sostituì con Ester: egli ci perdona e noi seguitiamo ad offenderlo.
Si racconta che Maometto II fece aprire il ventre a quindici paggi per sapere chi avesse mangiato un frutto, colto nel giardino imperiale. Due suoi figli entrarono in un parco di caccia che si era riserbato per sé e li condanna inesorabilmente alla morte. Ma volendo poi riserbarsi un successore, fece tirare le sorti, quale dovesse morire e quale regnare.

Nei paesi non ancora illuminati dalla luce soave del Vangelo, questi fatti avvengono di frequente, e perciò i cortigiani vegliano attentamente per non commettere nessun errore in presenza del monarca e stanno tremanti, attendendo gli ordini.

Quest'attenzione dovremmo averla noi verso il nostro buon Dio, non tanto per timore dei castighi, quanto per quell'amore filiale che rifugge dal disgustare un Padre affettuoso che ci ama come la pupilla del suo occhio. 
L'anima in grazia di Dio, uscita dal lavacro salutare del Battesimo o lavata dalla Penitenza, è bella come la luce dell'aurora, candida come il giglio, tersa come un cristallo. Ma il peccato veniale offusca questa bellezza divina di cui sfavilla, come quelle nubi che scolorano gli splendori del sole e rendono il grande astro del giorno languido, pallido, quasi malato.

L'anima in grazia di Dio è una principessa vestita a nozze, adorna di perle e diamanti, risplendente di vesti e di monili preziosi, e diventa sposa di Gesù Cristo. Or bene il peccato veniale imbratta questa magnifica veste nuziale, le macchia il volto, quasi fosse stata colpita dal vaiolo e la rende meno bella, meno gradita all'Amante celeste.

Prendiamo la bilancia della Fede: poniamo da un lato le lacrime tutte della povera umanità, dall'alba della creazione fino al giudizio, tutti i tormenti atroci dei martiri, le austerità degli anacoreti, i travagli, i dolori e la carità di tutti i Santi, tutte le opere buone fatte e che si faranno, le preghiere degli Angeli e, qualora gli astri siano abitati, le soddisfazioni ed i meriti di tutte quelle creature (1). Se dall'altro lato collochiamo un solo peccato veniale, la bilancia trabocca da questa parte, e rimane sempre piegata. finché alle soddisfazioni delle creature non uniremo una soddisfazione od un sospiro, od una preghiera, od una goccia del Sangue dell'UomoDio.

Il peccato veniale è un'offesa di una Maestà infinita; e per ripararlo ci vuole un risarcimento di valore infinito. Solo Gesù Cristo può riparare condegnamente l'offesa recata a Dio col peccato, che noi riteniamo cosa da poco. Né Maria, né i nove cori degli Angeli, né i Santi, lo potrebbero fare. Quale confusione per la nostra durezza di cuore, pronto sempre a disprezzare Dio per un nonnulla. Violabant me ad populum meum propter pugillum hordei et fragmen panis. Mi disonorarono dinanzi al mio popolo per un po' d'orzo e per un tozzo di pane. Così diceva il Signore delle false profetesse di Israele.

E forse noi l'offendiamo anche per cosa, da meno, per un puntiglio, per una curiosità, per appagare l'amor proprio, per salvarci da una riprensione.

I teologi per farci comprendere la malizia del peccato veniale, ricorrono a supposizioni impossibili ad avverarsi, ma che dimostrano la grande verità che stiamo meditando.
Se con un peccato veniale si potessero spegnere le fiamme eterne dell'inferno e mandare tutti i dannati in Paradiso; se si potesse convertire il mondo tutto, non sarebbe lecito commetterlo; e noi dovremmo rinunciare alla salvezza di tante creature per non disgustare l'infinita Maestà divina.
Sarebbe anche male minore di un peccato veniale, se tutti gli uomini andassero perduti eternamente, se l'universo si riducesse in polvere. E la ragione è sempre la medesima. L'offesa ed il danno, anche eterno, delle creature finite e limitate, non ha paragone coll'offesa recata a Dio, bontà infinita.

Caro Gesù! Quando finiremo di persuaderci che peccando anche venialmente contro di Te commettiamo un gran male? Quando ameremo talmente la tua gloria da anteporla alla vita ed alla morte, alle sostanze ed alle ricchezze ed a tutte le cose miserabili del tempo? Illuminaci con la tua santa grazia.

AMDG et BVM

lunedì 25 settembre 2017

La morte, ma non peccati

La morte ma non peccati

IL SUICIDIO SPIRITUALE

Che cosa è il peccato mortale?

E' la morte e la tomba dell'anima. Colui che commette una colpa grave, priva se stesso della Grazia santificante, uccide il suo spirito, lo copre come di un velo mortuario, lo chiude nella fossa; e se non lo risuscita con la penitenza, un'eternità di tormenti l'avvolgerà tra le sue fiamme divoratrici. In una parola, il peccato mortale è un suicidio spirituale.

Che cosa è il peccato veniale?

E' la malattia dell'anima, è la lebbra del nostro spirito, che lo rende schifoso. Il peccato veniale non dà la morte all'anima, non la priva della grazia di Dio; ma la ferisce, la piaga, la copre come di un'ulcera. E come un'infermità che non è curata può condurre alla fossa, così la colpa veniale può disporre e condurre l'anima alla sua morte, cioè al peccato mortale.

Ah! se noi sentissimo i mali spirituali, come sentiamo le disgrazie temporali, e fossimo più sensibili dinanzi all'eternità che dinanzi al tempo, muteremmo idea intorno all'offesa di Dio (1). 

(1) Cristo pianse alla tomba del diletto amico Lazzaro. I santi Padri, commentando il fatto, asseriscono che quelle lacrime divine furono versate non già sul defunto che doveva tra poco rivivere, ma sulla morte dell'umanità peccatrice, di cui quella di Lazzaro era figura.

Quanta sollecitudine per la nostra salute corporale! E quanta noncuranza per la sanità spirituale! Appena abbiamo qualche raffreddore o una febbriciattola, corriamo subito dal medico a domandar medicine, sospendiamo il lavoro e sconvolgiamo mezzo mondo. Invece, se ci accade di cadere in peccato, crolliamo le spalle ci adagiamo in una deplorevole indifferenza, lasciando che la nostra povera anima languisca, senza curarci dei rimedi così facili ed abbondanti che il buon Dio ci ha acquistato, a costo del suo preziosissimo Sangue, sul Calvario.

Un giorno il re di Francia San Luigi discorreva con un cortigiano dell'enormità del peccato. Ad un tratto gli domandò se amava meglio diventar lebbroso od offendere il Signore. Il cavaliere, che si intendeva più di guerre e di armi che di religione, uscì in questo sproposito: « Preferirei commettere qualunque peccato, piuttosto che prendermi tale malattia! ». « Ed io, replicò commosso il generoso re, sceglierei cento volte la lebbra, piuttosto che una sola offesa di Dio ».

Questa risposta pare sublime, straordinaria, eroica e da lasciarsi solamente al fervore magnanimo dei Santi. Ma c'inganniamo. E' un sentimento che dovrebbe avere ogni cristiano, ogni religioso; è un sentimento che dovrebbe essere ordinario, naturale, comune a tutti quelli che credono in un Dio disceso dal Cielo e morto su un abominevole legno per espiare il peccato.

Nel Medio Evo era assai comune in Europa l'orribile malattia della lebbra, trasportata dall'Oriente con le Crociate; ed in molti luoghi si edificavano lazzaretti o lebbrosari per raccogliere quei disgraziati. Ora alcuni impetrarono dal Signore il terribile malore per espiare i loro peccati e farne penitenza in questa vita. Essi avevano certamente una giusta idea dell'offesa di Dio; e pesavano i mali temporali ed i mali eterni sulla bilancia del Vangelo.

Conosco un sacerdote religioso che fu visitato da Dio con una lunga malattia, la quale lo tiene continuamente sull'orlo della tomba. Molte sono le sue sofferenze fisiche e morali. Egli era nel flore dell'età, aveva le più belle speranze di lavorare nella vigna della Chiesa, sognava infinite conversioni di anime, quando ad un tratto il Signore lo colpì di una inesorabile malattia che troncò tutte le sue aspirazioni. Nelle ore di sconforto, nei momenti in cui sente tutto il peso dei suoi mali e la natura piange tante belle speranze svanite, egli ragiona così: « Che cosa è dopo tutto questa mia malattia? E' una disgrazia inferiore a un solo peccato veniale. Io dovrei piangere assai più amaramente il più piccolo peccato commesso, che non la sanità perduta. Coraggio, dunque, anima mia, che non sei infelice; più infelice è chi offende Dio ». Questo pensiero lo sostiene, lo conforta e gli rende dolce il patire.

Quel caro giovanetto, Domenico Savio, che profumò con le sue virtù l'Oratorio di S. Francesco di Sales, quasi cespuglio di rose nei lieti giorni di primavera, aveva preso per suo programma queste generose parole: « La morte, ma non peccati ». E con la grazia di Dio fu fedele. Chi lo conobbe assicura che nessuna ombra di peccato macchiò la candida stola della sua innocenza.

AMDG et BVM

sabato 23 settembre 2017

LA SCUOLA DEI SANTI cioè dei FIGLI DI DIO, è giudiziosa. Non ha...


PREGIUDIZI GROSSOLANI

Intorno al peccato veniale abbiamo pregiudizi grossolani, che riescono di grande danno al nostro profitto spirituale. 

Persuasi che sia cosa da nulla, lo commettiamo ogni giorno e direi quasi ogni ora, senza pensare alla malizia che racchiude in sé, alle tristi conseguenze che lascia ed ai castighi che ci accumula sul capo dall'Eterna Giustizia.

«E' una colpa veniale, diciamo se non con le parole almeno coi fatti; è un'imperfezione che si lava con acqua santa, con un segno di croce o con una giaculatoria; e non dobbiamo essere tanto scrupolosi. Non v'è neppur l'obbligo di confessarcene, perchè non toglie la grazia di Dio. Se avessi a guardarmi dalle bugie, dal ridere a spalle altrui, dalle piccole golosità, non la finirei più. Dovrei stare continuamente su me stesso, condurre una vita mesta; ed avrei timore di cadere in scrupoli e rompermi il capo ». Ma non così ragionavano i Santi. 
Contemplando le cose alla luce divina, essi nutrivano un orrore estremo al peccato veniale e gli mossero guerra a morte, pronti a subire qualunque pena, piuttosto ché commetterlo.

Udite il concerto armonioso, che s'innalza dalle loro vite e che rende splendido omaggio alla Giustizia ed alla Bontà divina, mentre fa uno strano contrasto con la nostra vergognosa condotta.

« Amo meglio, esclama Sant'Edmondo, gettarmi in un rogo ardente, anziché commettere avvertitamente qualsiasi peccato contro il mio Dio». 

Santa Caterina da Genova getta uno sguardo sull'azzurra immensità dell'oceano, pensa al mare di fuoco che sommerge i dannati nell'inferno, come i pesci nell'acqua; e da qui, com'è proprio delle anime amanti che vedono dovunque un segno dell'oggetto amato, risale a Dio, mare di bontà, e medita sui benefizi fatti all'uomo e sulla malizia del peccato. Allora, fuori di sé per dolore, esclama: « O mio Dio, per fuggire un peccato anche lieve, io mi getterei, se fosse necessario, in un abisso di fiamme e vi resterei per tutta l'eternità, piuttosto che commetterlo per uscirne.

La serafica vergine di Siena, Santa Caterina, uscita da un'estasi in cui aveva contemplata la bellezza di un'anima in grazia di Dio e la miseria di quella che è macchiata di peccato, scriveva: « Se l'anima, di sua natura immortale, potesse morire, basterebbe ad ucciderla la vista di un peccato veniale che ne scolorisse la bellezza! ».

Sant'Ignazio di Loiola insegnava spesso ai suoi discepoli: 
« Chi è geloso della purità della sua coscienza deve confondersi alla presenza di Dio per i peccati più lievi, considerando che, Colui contro cui sono commessi è infinito nelle sue perfezioni; la qual cosa li aggrava di una malizia infinita ».

Ammaestrato da questi santi princìpi sant'Alfonso Rodriguez fece risuonare le mura del convento, di cui era portinaio, con quest'ammirabile ed eroica preghiera, che trova eco fedele in tutti i cuori veramente divorati dallo zelo per la gloria di Dio: « Prima soffrire, o Signore, tutte le pene dell'inferno, che commettere un sol peccato veniale! ».

Nella storia della Chiesa si trovano spesso anime generose che sacrificarono la vita temporale, anziché salvarla con una bugia o con un peccato veniale. E' ben noto il fatto di quel Santo che, ricercato a morte dall'imperatore, ricoverò in sua casa i soldati che andavano in cerca di lui, li trattò con ogni squisitezza, offrendo loro cibo e ricovero per la notte. Arrivato il mattino, gli domandarono se avesse notizia di un cristiano, che non viveva secondo le leggi dell'impero ed era perciò stato condannato a morte. Ed egli confessò semplicemente che era lui stesso; e si offerse pronto ad accompagnarli alla corte. Ma quei soldati, pieni di gratitudine per le cure ricevute, gli proposero la fuga, assicurandolo che avrebbero riferito di non averlo trovato. Il Santo rifiutò recisamente per non farli cadere in una menzogna; ed andò coraggiosamente incontro al martirio.

Così ragionano e così operano i Santi. Chi ha ragione, il mondo o questi eroi, seguaci delle massime del Vangelo? Noi che valutiamo le cose alla luce del tempo, od essi che le considerano alla luce infallibile dell'eternità? Noi, che con lo sguardo miope vediamo solo la terra coi suoi beni miserabili, o essi che con la pupilla dell'aquila contemplavano il mondo avvenire e le gioie immortali del Cielo?

AMDG et BVM

venerdì 22 settembre 2017

IL PECCATO VENIALE

MICROBI DEL CORPO E DELL'ANIMA

Una nave, carica di merci preziose, usciva dal porto per recarsi ai celebri mercati di oriente. Era fortissima, fornita di robusti fianchi e pareva sfidare i venti e le tempeste. Nella stiva si formò una piccola spaccatura, appena visibile, e l'acqua cominciò a filtrare. Nessuno si accorse; e la fessura andò sempre più ingrandendosi, finchè una notte la nave calò a fondo. Ecco la storia delle tristi conseguenze del peccato veniale. Qui spernit modica, paulatim decidet (Eceli. XIX, 1). Chi disprezza le cose piccole, chi non tien conto delle venialità a poco a poco andrà in rovina, cadrà in peccato mortale.

Seguitiamo pure a commettere difetti ad occhi aperti: Dio ritirerà le sue grazie, l'anima resterà indebolita e presto avremo a piangere qualche caduta fatale.

La scienza moderna ha indagato arditamente le cause delle malattie contagiose e scoperto che traggono origine dai microbi, ossia esseri piccolissimi ed invisibili, che entrano nel corpo umano e si moltiplicano a dismisura consumando e distruggendo le membra. 

Poniamo la tisi. Che cosa è mai questa infermità, che divora tanta gioventù nel fiore degli anni? E' un bacillo o microbo che invade i polmoni ed a poco a poco li consuma.
L'infelice giovane comincia a tossire, scolorisce, dimagra; ed in breve tempo col cader delle foglie di autunno, discende nella tomba.

Se il male è preso in tempo, la medicina potrà isolare od uccidere il bacillo micidiale; ma, se si aspetta che abbia preso stanza e si sia moltiplicato, i rimedi non faranno che tormentare il povero ammalato, e non allontaneranno da lui la morte.

Il peccato veniale è il bacillo, il microbo dell'anima, e se non si vince in tempo, la disporrà al mortale.
Se gli Angeli potessero piangere, verserebbero lacrime amare al vedere l'uomo offendere con tanta facilità il suo Creatore, il suo Padre celeste, il suo Redentore, che per amore di lui prese la croce e s'incamminò per l'erta sanguinosa del Golgota, per essere crocifisso.
Il demonio, sempre pieno di quell'astuzia e malizia con cui sedusse Eva, non ci tenta subito di peccato mortale, perchè noi lo ributteremmo con orrore. Cerca di farci cadere in colpe veniali, le une più gravi delle altre, ci indebolisce e ci snerva a poco a poco. Quando vede che siamo privi degli aiuti soprabbondanti del Signore, svogliati nelle pratiche religiose, ormai deboli, allora ci assale arditamente e ci fa precipitare in colpa grave.

Cosi un capitano esperto, prima di assalire la città, abbatte le fortificazioni avanzate, i terrapieni ed i parapetti; e passo passo avanza sotto le mura per dare l'assalto definitivo.
Si narra che un prigioniero, rinchiuso in un'altissima torre, inventò questo stratagemma per fuggire. Legò ad uno ad uno i suoi lunghi capelli: e lanciandoli giù dalla finestra con un leggero peso al fondo, tirò a sè un filo di seta che un suo amico gli porse. Col filo di seta tirò su una funicella più forte, e con questa infine una grossa corda, con la quale si calò giù e si pose in libertà.

Lo spirito maligno ci domanda un nonnulla, poi qualche cosa più considerevole, e così via via fino a chiederci una grave trasgressione della legge divina.
E perciò lo Spirito Santo ci avverte per bocca del grande Apostolo S. Paolo, di non dar adito al diavolo: Nolite locum dare diabulo.

Narrasi che Semiramide, regina di Assiria, con le sue scaltrezze ottenne da Nino di poter comandare e farla da imperatore per un giorno solo. Appena ebbe nelle mani le redini del governo, fece gettare in una prigione e poi decollare il disgraziato marito e regnò da sola su Ninive e sul vasto impero.

Si racconta parimenti che la regina Didone approdò alle spiagge Africane; e domandò al re Jarba tanto terreno quanto ne poteva chiudere una pelle di bue. Il monarca acconsentì ridendo; ma la scaltra donna prese la più grossa pelle che gli venne fatto di trovare, fece filare i peli, tagliò il cuoio in liste sottilissime e le distese in modo da chiudere un'area. amplissima, ove edificò la potente città, di Cartagine, che soggiogò tutta l'Africa. Il disgraziato Jarba si avvide troppo tardi dell'inganno; e maledisse quella concessione.

Il perfido tentatore usa le stesse arti domanda poco per ottenere il molto, chiede da noi il peccato veniale e poi passa, al mortale. Guai a noi se gli diamo ascolto! Non si diventa grandi in un giorno: nemo repente fit summus; e neppure si diventa cattivi tutto un tratto: nemo nepente fit pessimus
E perciò il dottore S. Gregorio Magno dice che, sotto un certo" aspetto, vi è maggior pericolo nelle piccole colpe che non nelle grandi; perché le grandi quanto più chiaramente si conoscono, tanto maggiormente con la cognizione del maggior male muovono ad evitarle e ad emendarsene; ma le colpe piccole quanto meno si conoscono tanto meno si fuggono, e non facendone conto, si replicano e si continuano e l'uomo se ne sta giacendo in esse, senza mai risolversi virilmente di scacciarle da sé e liberarsene; e perciò da piccole diventano grandi. S. Giovanni Grisostomo va più in là ed osa dire che alle volte dobbiamo badar più alle piccole colpe che non alle ,grandi, perché le gravi di loro propria natura recano di per sé un certo orrore che induce ad odiarle e a fuggirle; ma le altre, per la ragione che son piccole, ci tengono negligenti e siccome le valutiamo poco, non pensiamo di uscirne e così ci vengono a recare gran danno. 

Chi ha veramente cura della salute, bada bene a curare i primi assalti delle malattie, le indisposizioni anche leggere, i piccoli raffreddori, per timore di peggio. Cosî dobbiamo far noi:  Bada ai primi sintomi, perchè la medicina è inutile, quando il male per lunga trascuranza ha preso stabile piede.

AMDG et BVM

mercoledì 11 dicembre 2013

OCCORRE VEGLIARE SU DI SE' ! FONDAMENTALE INSEGNAMENTO


Invocazione a Cristo della sposa afflitta da diversi e futili pensieri, che non riesce a scacciare. Cristo risponde alla sposa che cio è permesso da Dio. Grande utilità dei sentimenti di dolore e di timore a confronto della corona e come il peccato veniale non debba essere disprezzato, perché non conduca a quello mortale.

Capitolo Diciannovesimo

Parla il Figlio alla sposa: Figlia, perché ti preoccupi e sei agitata? Ella risponde: Perché sono presa da vari e vani pensieri e non posso liberarmene e mi turba udire il tuo giudizio terribile.

Risponde il Figlio: Questa è vera giustizia. Come prima ti dilettavi degli affetti del mondo contro la mia volontà, così ora permetto ti vengano codesti pensieri contro il tuo volere. Temi però con misura e confida assai in me, tuo Dio, sapendo sicurissimamente che quando la mente non si compiace nei pensieri peccaminosi, ma vi resiste, detestandoli, essi sono purificazione e corona dell'anima. Se poi t'accorgi di compiacerti in qualche piccolo peccato, che sai essere peccato, e lo fai, trascurando d'astenerti e presumendo della grazia e non ne fai penitenza né altra emenda, sappi ch'esso può diventare mortale. Perciò se ti viene in mente qualche dilettazione di peccato, qualunque sia, rifletti subito dove va a finire e pentiti.

Dopo che, infatti, la natura umana s'è indebolita, da tale debolezza proviene spesso il peccato. Non c'è infatti uomo, che non pecchi venialmente. Ma Dio misericordioso ha dato all'uomo il rimedio, e cioè il pentimento d'ogni peccato anche di quelli già emendati, se per caso non se ne sia fatta adeguata emenda. Nulla infatti Dio odia di più che il sapere d'aver peccato e non curarsene o il presumere dei propri meriti, quasi Dio tollerasse qualche tuo peccato, perché non può essere onorato se non da te, o ti permettesse di compierne anche uno solo, dato che hai già fatto tanto altro bene. Anche se avessi pur fatto milioni di atti buoni, non basterebbero per redimere un solo peccato, data la bontà e la carità di Dio. Temi perciò in modo ragionevole e, se non riesci a scacciare questi pensieri, abbi almeno pazienza e sforzati con la volontà contraria. Infatti non ti dannerai perché essi ti vengono, ma se ne prendi diletto.



Anche se non acconsenti ai pensieri, temi di cadere in superbia. Chi sta in piedi, infatti, sta solo per forza di Dio. Perciò il timore è come un'introduzione al cielo; molti infatti caddero nel baratro della propria morte, perché avevano allontanato da sé il timore di Dio e si vergognarono di confessare davanti a Dio. Perciò mi rifiuterò di sollevare dal peccato chi trascura di chiedere perdono. Aumentando i peccati con la pratica, quello che era perdonabile per il pentimento essendo veniale, diventa, per negligenza e disprezzo, assai grave, come potrai comprendere in quest'anima già giudicata. Dopo che commise infatti il peccato veniale e perdonabile, l'aumentò per l'abitudine, confidando in alcuni suoi meriti e in alcune opere da poco, non pensando al mio giudizio. E così, l'anima adescata dall'abitudine alla disordinata affezione, non si emendò né frenò la volontà di peccato, fino a che non venne l'ultimo momento e fu pronto il giudizio. Mentre si avvicinava la fine, ancor più s'avviluppava miserabilmente la sua coscienza, si addolorava di dover presto morire costretta a separarsi da quel piccolo bene terreno che amava.

Dio infatti sopporta l'uomo fino all'ultimo e aspetta, semmai il peccatore voglia rimuovere totalmente la sua libera volontà, dall'affetto al peccato. Ma quando la volontà non si corregge, l'anima è avvinta quasi invincibilmente, perché il Diavolo sa che ognuno sarà giudicato secondo la coscienza e la volontà e fa ogni sforzo in quel punto, affinché l'anima prenda la cosa alla leggera e s'allontani dalla retta intenzione. E Dio lo permette, perché l'anima, quando doveva, non volle vigilare.

Non voler poi considerare e presumere troppo, se chiamo qualcuno amico e servo, come prima ho chiamato costui, perché anche Giuda fu chiamato amico e Nabuccodonosor servo. Ma come dissi direttamente: « Voi siete miei amici, se farete quel che vi comando », così dico ora: sono amici quando mi imitano, nemici quando, disprezzando i miei comandamenti, mi perseguitano. Forse che David non peccò di omicidio dopo che l'ebbi detto uomo secondo il mio cuore? E Salomone non decadde dalla sua bontà, pur avendo ricevuto tanti doni ammirabili e tante promesse? La promessa non s'adempì in lui, a causa della sua ingratitudine, ma in me, Figlio di Dio. Perciò come nei tuoi contratti si mette la clausola con la finale, così io nel mio parlare appongo questa clausola con la finale: se qualcuno farà la mia volontà e lascerà la sua eredità, avrà la vita eterna. Chi invece ascolterà, ma non persevererà nelle opere, sarà come il servo inutile e ingrato. Ma neppure devi diffidare, se chiamo qualcun altro nemico, perché appena il nemico volge la volontà verso il bene, subito è amico di Dio. Non era Giuda uno dei Dodici, quando dissi: Voi siete miei amici, perché mi avete seguito e sederete sopra i dodici seggi? Allora Giuda mi seguiva, ma non sederà con i Dodici. Come s'adempiono allora le parole di Dio?

Ti rispondo: Dio, che vede i cuori e le volontà degli uomini, secondo questa li giudica e li rimunera per quel che vede. L'uomo, invece, giudica per quel che vede in faccia. Perciò, affinché non insuperbisse il buono, né diffidasse il cattivo, Dio chiama all'apostolato sia i buoni che i cattivi e ogni giorno chiama agli onori i buoni e i cattivi, affinché chiunque in vita esercita un ufficio si glori nella vita eterna. Chi poi ha dignità senza il peso (dei doveri) se ne glori nel tempo, essendo destinato alla morte eterna. Poiché dunque Giuda non mi seguiva con cuore perfetto, non valeva per lui quel « mi avete seguito », perché non perseverò sino al premio; bensì valeva per quelli che avrebbero perseverato, sia allora che poi. Giacché il Signore, alla cui presenza io sto, parla a volte al presente di cose che riguardano il futuro e di quelle da fare come se fossero già fatte; talvolta unisce anche passato e futuro e usa il passato per il futuro, perché nessuno ardisca porre in discussione gli imperscrutabili consigli della Trinità.

Ascolta ancora una parola: Molti sono i chiamati, pochi invece gli eletti. Così costui è stato chiamato all'episcopato, ma non è eletto, perché è ingrato alla grazia di Dio. Perciò, vescovo di nome ma decaduto dal merito, sarà trattato come quelli che scendono e non salgono.




Aggiunta.

Il Figlio di Dio parla e dice: Ti meravigli, o figlia, che un vescovo fece una bellissima fine e un altro una fine orrenda, perché gli cadde una parete addosso e poco sopravvisse, e quel poco in gran dolore. Ti dico quel che dice la Scrittura, anzi io stesso, che il giusto di qualunque morte muoia è giusto presso Dio, mentre gli uomini del mondo reputano giusto quello che fa una bella fine senza dolori e vergogna. Dio invece ritiene giusto colui che è provato da lunga astinenza o che ha sofferto per la giustizia, perché gli amici di Dio sono tribolati in questo mondo e avranno minor pena in futuro o maggior gloria in cielo. Pietro e Paolo infatti son morti per la giustizia, ma Pietro morì più amaramente di Paolo, perché amò la carne più di Paolo e perché, avendo ricevuto il primato nella mia Chiesa, dovette a me assomigliare con una morte più crudele. Paolo invece, che amò di più la castità e faticò di più, ebbe la spada come egregio soldato, perché io dispongo le cose secondo i meriti e secondo misura. Perciò nel giudizio di Dio, non sono corona o condanna la fine o la morte spregevole, ma l'intenzione e la volontà degli uomini e la loro causa.

Così e di questi due Vescovi: Uno infatti soffrì di buona volontà più amarezze ed ebbe una morte più spregevole; l'altro morì con minori pene, ma non per la gloria, perché non soffriva di buona volontà; e perciò l'altro conseguì una fine gloriosa. Questo avvenne secondo la mia segreta giustizia, ma non per il premio eterno, perché non corresse la sua volontà durante la vita.



Parole della Madre alla figlia, riguardanti, con alcuni esempi, la magnificenza e la perfezione della vita di S. Benedetto. Com'è indicata in un legno sterile l'anima non fruttuosa, nella pietra la superbia della mente, e nel cristallo l'anima fredda; tre scintille da osservare nel cristallo, nato da pietra e legno.  Libro III, 19