... Era comunque chiaro che “se Acaz stava per concludere questo trattato con il grande re di Assiria, significava che da politico si fidava di più del potere del re che del potere di Dio”. E allora – scrive Ratzinger – “era in gioco non un problema politico, ma un problema di fede”. Isaia gli dice di affidarsi alla fede, di non preoccuparsi di Assiria e Israele. E dice ad Acaz di chiedere un segno da Dio. Acaz replica di non avere intenzione di metterealla prova Dio. Ma la realtà è che il rifiuto del re “non è, come appare, un espressione di fede, ma al contrario il segnale che lui non vuole essere disturbato nella sua Realpolitik”. E qui il profeta fa la sua profezia. Che non riguarda la situazione contingente – Ratzinger scarta tutte le ipotesi che cercavano di individuare l’Emmanuele in qualche personaggio del tempo – ma che è una parola sospesa.
Una parola che resta sospesa fino alla nascita di Gesù. Ed è in quel periodo che è in corso un’altra realpolitik, quella di Augusto. Il quale porta la pace nel mondo ormai globalizzato, e fa di questa pace un qualcosa che lo rende simile a un dio. D’altronde – scrive Ratzinger – “la nostra distinzione tra politica e religione, tra politica e teologia, semplicemente non esisteva nel mondo antico”.
Augusto “non vuole essere meramente un sovrano come tanti altri, come ne erano esistiti prima di lui e ne sarebbero esistiti dopo”. Prova ne è - scrive Ratzinger - l’iscrizione di Priene dell’anno 9 dopo Cristo, in cui si legge, tra le altre cose, che “la provvidenza che divinamente dispone la nostra vita… a noi e ai nostri discendenti ha fatto dono di un salvatore che mettesse fine alla guerra e apprestasse la pace”. Augusto è dunque il salvatore. Un appellativo, riflette Benedetto XVI, che nella letteratura greca è ascritto a Zeus, ma anche ad Epicuro e Asclepio, e nell’Antico Testamento al solo Dio.
Ma evidentemente quell’iscrizione deve aver destato particolare interesse in Benedetto XVI, se già nel suo primo lavoro su Gesù di Nazaret la commentava, soffermandosi invece sulla parola “Vangelo” che veniva riferita alle decisioni, cariche di effetto, dell’imperatore.
In quella circostanza, Ratzinger scriveva che “di recente la parola «vangelo» è stata tradotta con l’espressione «buona novella». Suona bene, ma resta molto al di sotto dell’ordine di grandezza inteso dalla parola «vangelo». Questa parola appartiene al linguaggio degli imperatori romani che si consideravano signori del mondo, suoi salvatori e redentori. I proclami provenienti dall’imperatore si chiamavano «vangeli», indipendentemente dalla questione se il loro contenuto fosse particolarmente lieto e piacevole. Ciò che viene dall’imperatore – era l’idea soggiacente – è messaggio salvifico, non è semplicemente notizia, ma trasformazione del mondo verso il bene".
"Se gli evangelisti - proseguiva Ratzinger - riprendono questa parola, tanto che a partire da quel momento diventa il termine per definire il genere dei loro scritti, è perché vogliono dire: quello che gli imperatori, che si fanno passare per dèi, pretendono a torto, qui accade veramente: un messaggio autorevole, che non è solo parola, ma realtà.
Nell’odierno vocabolario proprio della teoria del linguaggio si direbbe: il Vangelo è discorso non solo informativo, ma operativo, non è solo comunicazione, ma azione, forza efficace, che entra nel mondo salvandolo e trasformandolo. Marco parla del «Vangelo di Dio»: non sono gli imperatori che possono salvare il mondo, bensì Dio. E qui si manifesta la parola di Dio che è parola efficace; qui accade davvero ciò che gli imperatori solo pretendono, senza poterlo adempiere. Perché qui entra in azione il vero Signore del mondo: il Dio vivente”.
da:
La realpolitik, la pace secolare e un po' di Benedetto XVI. A partire dai Vangeli dell'Infanzia |
Scritto da Andrea Gagliarducci |
Martedì 20 Novembre 2012 00:12 |
OMNI DIE DIC MARIAE MEA, LAUDES, ANIMA:
EIUS FESTA, EIUS GESTA COLE SPLENDIDISSIMA.