16
settembre.
In alto
il più puro cielo di settembre, ridente in un’aurora soavissima. In
basso un
breve pianoro fra scoscendere di coste montane molto alte, molto selvose,
molto rocciose. Un breve pianoro dall’erbetta corta e smeraldina, ancor tutta
lucida per il pianto della rugiada, ma già prossima a scintillare di gemmeo
riso per il bacio del sole.
In alto,
sul puro cielo così azzurro e soave, fisso un fiammeggiante personaggio che non
pare fatto che di incandescente fuoco. Un fuoco il cui folgoreggiare è più vivo
di quello del sole che sbuca da dietro una giogaia selvosa con un fasto di raggi
e di splendori per cui tutto si accende di letizia. Questo
essere di fuoco è vestito di penne. Mi spiego. Pare un angelo perché due immense
ali lo tengono sospeso a fisso sul cobalto immateriale del cielo settembrino,
due immense ali aperte che stagliano una traversa di croce a cui fa sostegno
il corpo splendente. Due immense ali che sono candore di incandescenza aperte
sul rutilare dell’incandescenza del corpo vestito di altre ali che tutto lo
fasciano, raccolte come sono con le loro soprannaturali penne di perla,
diamante
e argento puro, intorno alla persona. Pare che anche il capo sia
fasciato
in questa singolare veste piumosa. Perché io non lo vedo. Vedo solo, là dove
dovrebbe essere quel volto serafico, un trapelare di così vivo splendore che ne
resto come abbacinata. Devo pensare ai fulgori più vivi che ho visto nelle
paradisiache visioni per trovare un qualcosa di simile. Ma questo è ancor più
vivo. La croce di piume accese sta fissa sul cielo col suo mistero.
In
basso, un macilento fraticello, che riconosco per il Padre mio serafico [San Francesco d’Assisi, verso il quale la scrittrice si era sentita
trasportata fin da ragazza, entrando poi nel suo Terz’Ordine], prega a
ginocchi sull’erba, poco lungi da una grotta nuda, scabra, paurosa come
balza
d’inferno. Il corpo distrutto pare non abiti nella tonaca grave e tanto
larga
rispetto alle membra. Il collo esce, di un pallido bruno, dalla cocolla
bigiognola,
un colore fra quello della cenere e quello di certe sabbie
lievemente
giallognole. Le mani escono coi loro polsi sottili dalle ampie
maniche
e si tendono in preghiera, a palme volte all’esterno e alzate come nel “Dominus
vobiscum”. Due mani brunette un tempo, ora giallognole, di persona sofferente,
e macilente. Il viso è un sottile volto che pare scolpito
nell’avorio
vecchio, non bello né regolare, ma che ha una sua particolare
bellezza
fatta di spiritualità.
Gli
occhi castani sono bellissimi. Ma non guardano in alto. Guardano, ben aperti e fissi,
le cose della terra. Ma non credo che vedano. Stanno aperti, posati sull’erba
rugiadosa; pare studino il ricamo bigiognolo di un cardo selvatico e quello
piumoso di un finocchio selvatico, che la rugiada ha tramutato in una verde “aigrette”
diamantata. Ma sono certa che non vede niente. Neppure il pettirosso che scende
con un cinguettio a cercare sull’erba qualche piccolo seme. Prega.
Gli
occhi sono aperti. Ma il suo sguardo non va al di fuori, ma al di dentro di sé.
Come e
perché e quando si accorga della croce viva che è fissa nel cielo, non so.
L’abbia sentita per attrazione o l’abbia vista per chiamata interna, non so. So che
alza il volto e cerca con l’occhio che ora si anima di interesse, cosa che
conferma la mia persuasione della sua precedente assenza di vista per l’esterno.
Lo
sguardo del mio Padre serafico incontra la grande, viva, fiammeggiante croce.
Un
attimo di stupore. Poi un grido: “Signore mio!”, e Francesco ricade un poco sui
calcagni rimanendo estatico, col volto levato, sorridente, piangente le due prime
lacrime della beatitudine, con le braccia più aperte...
Ed ecco
che il Serafino muove la sua splendente, misteriosa figura. Scende. Si avvicina.
Non viene sulla terra. No. È ancora molto in alto. Ma non più come era prima. A
mezza via fra cielo e terra. E la terra si fa ancor più luminosa per questo
vivo sole che in questa beata aurora si unisce e soverchia l’altro d’ogni giorno.
Nello scendere, ad ali tese sempre a croce, fendendo l’aria non per moto di penne
ma per proprio peso, dà un suono di paradiso. Qualcosa che nessuno strumento
umano può dare. Penso e ricordo il suono del globo di Fuoco della Pentecoste...
Ed ora
ecco che, mentre Francesco più ride, e piange, e splende, nella gioia estatica,
il Serafino apre le due ali - ora capisco bene che sono ali - che stanno
verso il mezzo della croce. E appaiono inchiodate sul legno le santissime piante
del mio Signore, e le sue lunghe gambe, di uno splendore, in questa visione,
così vivo come lo hanno le sue membra glorificate in Paradiso (Nella visione del 10 gennaio, pg. 29). E poi
si
aprono due altre ali, proprio al sommo della croce. E la vista mia, e credo anche
quella di Francesco, per quanto egli sia sovvenuto da grazia divina, ne hanno
sofferenza di gioia per il vivo abbaglio.
Ecco il
tronco del Salvatore che palpita nel respiro... ed ecco, oh! ecco il
Fuoco
che solo una grazia permette fissare, ecco il Fuoco del suo viso che appare
quando il sudario delle scintillanti penne è tutto aperto. Fuoco di tutti i
vulcani e astri e fiamme, circondato da sei sublimi ali di perle, argento e diamante,
sarebbe ancor poca luce rispetto a questo indescrivibile, inconcepibile
splendere dell’Umanità Ss. del Redentore confitto sul suo patibolo.
Il
volto, poi, e i cinque fori delle piaghe, non trovano riscontro in nessun
paragone
per esser descritti. Penso... penso alle cose più splendenti... penso persino
alla luce misteriosa che emana il radio. Ma, se quanto ho letto è vero, questa
luce è viva ma di un argento-blu di stella, mentre questa è condensazione di sole
moltiplicata per un numero incalcolabile di volte.
La vetta
della Verna deve apparire come se mille vulcani si fossero aperti
intorno
ad essa a farle corona. L’aria, per la luce e il calore, che arde e non brucia,
che emana dal mio Signore crocifisso, trema con onde percepibili all’occhio,
e steli e fronde sembrano irreali tanto la luce penetra anche l’opacità
dei corpi e li fa luce...
Io non
mi vedo. Ma penso che al riflesso di quella luce la mia povera persona deve apparire
come fosforescente. Francesco, poi, su cui la luce si riversa e lo investe
e penetra, non pare più corpo umano. Ma un minore serafino, fratello di quello
che ha dato le sue ali a servizio del Redentore.
Ora è
quasi riverso, Francesco, tanto è piegato indietro, a braccia
completamente
aperte, sotto il suo Sole Iddio Crocifisso! È immateriale
all’aspetto
tanto la luce e la gioia lo penetrano. Non parla, non respira,
materialmente.
Parrebbe 7 un morto glorificato se non fosse in quella posa che richiede
almeno un minimo di vita per sussistere. Le lacrime che scendono, e forse
servono a temperare l’umana arsura di questa mistica fiamma, splendono come
rivi di diamante sulle guance magre.
Io non
odo nessuna parola né di Francesco né di Gesù. Un silenzio assoluto, profondo,
attonito. Una pausa nel mondo che è intorno al mistero. Per non turbare.
Per non profanare questo sacro silenzio dove un Dio si comunica al suo benedetto.
Contrariamente a quanto sarebbe da supporsi, gli uccelli non si esaltano
a più acuti trilli e lieti voli per questa festa di luce, non danzano farfalle
o libellule, non guizzano lucertole e ramarri. Tutto è fermo in un’attesa
in cui sento l’adorazione degli esseri verso Colui per cui furono fatti.
Non c’è più neppure quella brezza lieve che faceva rumor di sospiro fra le
fronde. Più neppure quel suono arpeggiato e lento di un’acqua nascosta in qualche
cavo di pietra, e che prima gettava, come perle rare, dentro per dentro [=ogni tanto], le
sue note su scala tonata. Niente. Vi è l’Amore. E basta. Gesù guarda e
ride al
suo Francesco. Francesco guarda e ride al suo Gesù... Basta.
Ma ora
ecco che il Volto glorificato, tanto luminoso da parere quasi a linee di luce
come è quello del Padre Eterno, si materializza un poco. Gli occhi prendono quel
fulgore di zaffiro acceso di quando opera miracolo. Le linee divengono severe,
imponenti, come sempre in quelle ore, imperiose, direi. Un comando del Verbo
deve andare alla sua Carne; e la Carne obbedisce. E dalle cinque piaghe saetta
cinque strali, cinque piccoli fulmini, dovrei dire, che scendono senza zigzagare
nell’aria ma a perpendicolo, velocissimi, cinque aghi di luce insostenibile
e che trapassano Francesco...
Non
vedo, è naturale, le piante [=i piedi del Santo], coperte dalla veste e dalle membra, e il costato
coperto dalla tonaca. Ma le mani le vedo. E vedo che, dopo che le punte infuocate
sono entrate e trapassate - io sono come dietro Francesco - la luce, che è
dall’altra parte, verso il palmo, passa dal foro sul dorso. Paiono due occhielli
aperti nel metacarpo e dai quali scendono due fili di sangue che scorrono
lenti giù per i polsi, sugli avambracci, sotto le maniche.
Francesco
non ha che un sospiro così profondo che mi ricorda quello estremo dei morenti.
Ma non cade. Resta come era ancor per qualche tempo. Sinché il Serafino,
di cui mai ho visto il volto - ho visto di lui solo le sei ali - ridistende
queste sublimi ali come velo sul Corpo santissimo e lo nasconde, e con le
due ali iniziali risale, sempre più oltre, nel cielo, e la luce diminuisce,
rimanendo infine solo quella di un sereno mattino solare. E il serafino
scompare oltre il cobalto del cielo che lo inghiotte e si chiude sul mistero
che è sceso a far beato un figlio di Dio e che ora è risalito al suo regno.
Allora
Francesco sente il dolore delle ferite e con un gemito, senza alzarsi in piedi,
passa dalla posizione di prima a sedersi in terra. E si guarda le mani... e si
scopre i piedi. E socchiude la veste sul petto. Cinque rivoli di sangue e cinque
tagli sono il ricordo del bacio di Dio. E Francesco si bacia le mani e si carezza
costato e piante, piangendo e mormorando:
“Oh, mio Gesù! Mio Gesù!
Che amore!
Che amore, Gesù!... Gesù!... Gesù!...”.
E tenta
porsi in piedi, puntando i pugni al suolo, e vi riesce con dolore delle palme e
delle piante, e si avvia, un poco barcollante come chi è ferito e non può
appoggiarsi al suolo e vacilla per dolore e debolezza di svenamento, verso il suo
speco, e cade a ginocchi su un sasso, con la fronte contro una croce di solo
legno, due rami legati insieme, e là riguarda le sue mani sulle quali pare formarsi
una testa di chiodo che penetra a trapassa, e piange. Piange d’amore, battendosi
il petto e dicendo: “Gesù, mio Re soave! Che m’hai Tu fatto? Non per
il
dolore, ma per l’altrui lode mi è troppo questo tuo dono! Perché a me,
Signore,
a me indegno e povero? Le tue piaghe! Oh! Gesù!...”.
Non odo
altro né vedo altro.
Mi pare
di avere, quando ero fra i vivi, udito descrivere in altro modo la
visione.
Mi pare dicessero che era un Serafino col volto di Cristo. Io non so che
farci. Io l’ho vista così e così la descrivo.
Io non
sono mai stata alla Verna, né in nessun luogo francescano, per quanto sempre
l’abbia desiderato. Ignoro perciò la topografia dei luoghi nella maniera più
assoluta.
1945
10
gennaio.
Una
singolare visione mi si presenta appena mi sveglio.
Vedo un
lungo, stretto e basso stanzone, scuro. Una sola finestrella in uno dei
lati
stretti. In fondo, presso il lato opposto, una porticina a muro che,
semiaperta
come è, mostra un poverissimo corridoio appena appena rischiarato da
un poco
di luce che entra da qualche finestrino, che io però non vedo. Nello
stanzone,
che pare più un corridoio che una stanza, vi è una lunga tavola
rustica:
un’asse alta e piallata, senza altra tinta che quella naturale del
legno
divenuto scuro per lungo uso, sostenuta da quattro paia di gambe, pioli
tondi
messi così / \ ai due estremi e ad un quarto della tavola. Un grande
Crocifisso
alla parete.
Seduti
alla tavola sono sette francescani: S. Francesco, sempre macilento e
pallido;
frate Elia, bello, giovane, dagli occhi imperiosi e neri, capelli neri,
ricci...
ahi! una somiglianza molto brutta, nei tratti e nei modi soprattutto,
con
Giuda. È anche alto. Poi frate Leone: giovane, non molto alto, dal viso
buono e
giocondo. Sono ai lati di Francesco. Dopo Leone, frate Masseo, un poco
corpulento,
anzianotto, pacato. Poi tre fraticelli che credo novizi o conversi:
tacciono
sempre, umili e impacciati, vestiti anche più poveramente dei quattro
frati
perché non hanno mantello. Mangiano, in piatti di stagno, verdure lessate
e pane
bigio. Mi paiono broccoli o cavoli neri.
Frate
Elia dice: “Buono questo pane! Ha un sapore speciale. Sembra un dolce. Non so...”.
Frate
Masseo: “Un dolce, e anche è succoso come carne. Nutre. Ristora. È
completo
come un pasto intero”.
Frate
Leone: “E la santa Ostia?! Mai ho sentito quel sapore in essa. Una levità
incorporea
che si è sciolta in dolcezza... Oh! una dolcezza di Paradiso!”.
“Vi farò
conoscere colei che fa questo pane e queste ostie. Non la guardate
all’aspetto:
florida e allegra, cela sotto il sorriso semplice la sua austerità.
Lei,
conversa, fa il pane e cura la mensa delle suore. Ma io so, per sicura
conoscenza,
che in lei non scende che ben poco cibo, il più ripugnante e
spregiato
dalle altre. E se è scarso il cibo, ella lo lascia per le più deboli
di corpo
e di spirito, e alla sua fame e alla sua fatica non concede che ciò che
è schifo
per l’uomo... Giovanna Battista la dovremmo chiamare! In questo suo
deserto
di vera claustrata - deserto in sé, perché clausura è deserto sol se si
vuole,
ossia se in essa si sa viver col Solo - ella si ciba di cavallette e
chiocciole
strappate alle verdure dell’orto e arrostite alla fiamma del fuoco. E
ride e
canta, allegra come allodola libera. Eccola”.
I frati
si volgono, tutti curiosi, verso la porticina socchiusa. Entra una
bella,
giovane (30 anni circa), robusta suora. Sorridente, posa sul tavolo una
brocca
d’acqua e una ciotola di legno. È vestita di un marrone ruggine, maniche
ampie,
veste dritta, sul davanti e sul dietro la pazienza scende sino a terra.
Non vedo
cordone che scenda. E non cintura, perché ha un mantelletto corto sino
ai
fianchi, tondo, serrato alla gola da un cavicchio di legno. In testa, le
bende
che le serrano la fronte coprendola sino alle ciglia e le fasciano le gote
scendendo
sotto alla pazienza. Sopra, il velo messo a cappa, così [grafico]
nero.
Bel viso roseo, rotondo, occhi neri, ridenti e vivaci, bei denti sani e
robusti.
Statura media, complessione robusta.
“Ecco
Suor Amata Diletta di Gesù” dice Francesco. E poi: “I miei compagni
vorrebbero
sapere che usi mettere nel tuo pane che è tanto buono e come fai le
ostie
per la santa Mensa. Diverse son da tutte”.
La suora
ride e risponde pronta: “Me ne dà l’aroma il mio speziere”.
“Che
aroma è?”
“La
Carità di Lui: Gesù, Signore, lo Sposo mio”.
Non vedo
altro. Tutto cessa sul viso di Suor Amata Diletta di Gesù, che splende
nel dir
queste parole.
Mentre
ancora parla P. Migliorini, avanti la Comunione, ecco il Maestro che
parla
anche Lui. È così imperioso che lascio in asso il Padre e mi occupo di
Gesù.
Detta:
Il tuo
Superiore sono Io. Ti senti la mia Grazia in te? Ti senti Me nel tuo
cuore, e
che ti approvo? E allora? Non sono Io il Superiore dei superiori? La
tua
Clausura non sono Io? Sbarre e cancelli l’amore tuo per Me e il mio per te?
Vi è chi
si impunta sulla durezza delle necessità? Perché questo? Per superbia
ed egoismo.
Oh! santa Umiltà che fu mia! Oh! santa Povertà che fu mia! Oh! santa
Carità
che sono Io!
Per te
che soffri ho dato una luce. Suor Amata Diletta di Gesù, che è tua più
che dei
francescani.»
Da "Vangeli della Fede"
<<AMORE AMORIS TUI MORIAR
QUI AMORE AMORIS MEI
DIGNATUS ES MORI>>