martedì 18 dicembre 2012

**Due immense ali ... e il Padre mio serafico ... con l'indescrivibile, inconcepibile splèndere dell’Umanità Ss. del Redentore . Da "I Vangeli della Fede"



16 settembre.

In alto il più puro cielo di settembre, ridente in un’aurora soavissima. In
basso un breve pianoro fra scoscendere di coste montane molto alte, molto selvose, molto rocciose. Un breve pianoro dall’erbetta corta e smeraldina, ancor tutta lucida per il pianto della rugiada, ma già prossima a scintillare di gemmeo riso per il bacio del sole.

In alto, sul puro cielo così azzurro e soave, fisso un fiammeggiante personaggio che non pare fatto che di incandescente fuoco. Un fuoco il cui folgoreggiare è più vivo di quello del sole che sbuca da dietro una giogaia selvosa con un fasto di raggi e di splendori per cui tutto si accende di letizia. Questo essere di fuoco è vestito di penne. Mi spiego. Pare un angelo perché due immense ali lo tengono sospeso a fisso sul cobalto immateriale del cielo settembrino, due immense ali aperte che stagliano una traversa di croce a cui fa sostegno il corpo splendente. Due immense ali che sono candore di incandescenza aperte sul rutilare dell’incandescenza del corpo vestito di altre ali che tutto lo fasciano, raccolte come sono con le loro soprannaturali penne di perla,
diamante e argento puro, intorno alla persona. Pare che anche il capo sia
fasciato in questa singolare veste piumosa. Perché io non lo vedo. Vedo solo, là dove dovrebbe essere quel volto serafico, un trapelare di così vivo splendore che ne resto come abbacinata. Devo pensare ai fulgori più vivi che ho visto nelle paradisiache visioni per trovare un qualcosa di simile. Ma questo è ancor più vivo. La croce di piume accese sta fissa sul cielo col suo mistero.

In basso, un macilento fraticello, che riconosco per il Padre mio serafico [San Francesco d’Assisi, verso il quale la scrittrice si era sentita
trasportata fin da ragazza, entrando poi nel suo Terz’Ordine]prega a ginocchi sull’erba, poco lungi da una grotta nuda, scabra, paurosa come
balza d’inferno. Il corpo distrutto pare non abiti nella tonaca grave e tanto
larga rispetto alle membra. Il collo esce, di un pallido bruno, dalla cocolla 
bigiognola, un colore fra quello della cenere e quello di certe sabbie
lievemente giallognole. Le mani escono coi loro polsi sottili dalle ampie
maniche e si tendono in preghiera, a palme volte all’esterno e alzate come nel “Dominus vobiscum”. Due mani brunette un tempo, ora giallognole, di persona sofferente, e macilente. Il viso è un sottile volto che pare scolpito
nell’avorio vecchio, non bello né regolare, ma che ha una sua particolare
bellezza fatta di spiritualità.

Gli occhi castani sono bellissimi. Ma non guardano in alto. Guardano, ben aperti e fissi, le cose della terra. Ma non credo che vedano. Stanno aperti, posati sull’erba rugiadosa; pare studino il ricamo bigiognolo di un cardo selvatico e quello piumoso di un finocchio selvatico, che la rugiada ha tramutato in una verde “aigrette” diamantata. Ma sono certa che non vede niente. Neppure il pettirosso che scende con un cinguettio a cercare sull’erba qualche piccolo seme. Prega.

Gli occhi sono aperti. Ma il suo sguardo non va al di fuori, ma al di dentro di sé.
Come e perché e quando si accorga della croce viva che è fissa nel cielo, non so. L’abbia sentita per attrazione o l’abbia vista per chiamata interna, non so. So che alza il volto e cerca con l’occhio che ora si anima di interesse, cosa che conferma la mia persuasione della sua precedente assenza di vista per l’esterno.
Lo sguardo del mio Padre serafico incontra la grande, viva, fiammeggiante croce.
Un attimo di stupore. Poi un grido: “Signore mio!”, e Francesco ricade un poco sui calcagni rimanendo estatico, col volto levato, sorridente, piangente le due prime lacrime della beatitudine, con le braccia più aperte...
Ed ecco che il Serafino muove la sua splendente, misteriosa figura. Scende. Si avvicina. Non viene sulla terra. No. È ancora molto in alto. Ma non più come era prima. A mezza via fra cielo e terra. E la terra si fa ancor più luminosa per questo vivo sole che in questa beata aurora si unisce e soverchia l’altro d’ogni giorno. Nello scendere, ad ali tese sempre a croce, fendendo l’aria non per moto di penne ma per proprio peso, dà un suono di paradiso. Qualcosa che nessuno strumento umano può dare. Penso e ricordo il suono del globo di Fuoco della Pentecoste...

Ed ora ecco che, mentre Francesco più ride, e piange, e splende, nella gioia estatica, il Serafino apre le due ali - ora capisco bene che sono ali - che stanno verso il mezzo della croce. E appaiono inchiodate sul legno le santissime piante del mio Signore, e le sue lunghe gambe, di uno splendore, in questa visione, così vivo come lo hanno le sue membra glorificate in Paradiso (Nella visione del 10 gennaio, pg. 29).  E poi
si aprono due altre ali, proprio al sommo della croce. E la vista mia, e credo  anche quella di Francesco, per quanto egli sia sovvenuto da grazia divina, ne hanno sofferenza di gioia per il vivo abbaglio.

Ecco il tronco del Salvatore che palpita nel respiro... ed ecco, oh! ecco il
Fuoco che solo una grazia permette fissare, ecco il Fuoco del suo viso che appare quando il sudario delle scintillanti penne è tutto aperto. Fuoco di tutti i vulcani e astri e fiamme, circondato da sei sublimi ali di perle, argento e diamante, sarebbe ancor poca luce rispetto a questo indescrivibile, inconcepibile splendere dell’Umanità Ss. del Redentore confitto sul suo patibolo.

Il volto, poi, e i cinque fori delle piaghe, non trovano riscontro in nessun
paragone per esser descritti. Penso... penso alle cose più splendenti... penso persino alla luce misteriosa che emana il radio. Ma, se quanto ho letto è vero, questa luce è viva ma di un argento-blu di stella, mentre questa è condensazione di sole moltiplicata per un numero incalcolabile di volte.


La vetta della Verna deve apparire come se mille vulcani si fossero aperti
intorno ad essa a farle corona. L’aria, per la luce e il calore, che arde e non brucia, che emana dal mio Signore crocifisso, trema con onde percepibili all’occhio, e steli e fronde sembrano irreali tanto la luce penetra anche l’opacità dei corpi e li fa luce...

Io non mi vedo. Ma penso che al riflesso di quella luce la mia povera persona deve apparire come fosforescente. Francesco, poi, su cui la luce si riversa e lo investe e penetra, non pare più corpo umano. Ma un minore serafino, fratello di quello che ha dato le sue ali a servizio del Redentore.
Ora è quasi riverso, Francesco, tanto è piegato indietro, a braccia
completamente aperte, sotto il suo Sole Iddio Crocifisso! È immateriale
all’aspetto tanto la luce e la gioia lo penetrano. Non parla, non respira,
materialmente. Parrebbe 7 un morto glorificato se non fosse in quella posa che richiede almeno un minimo di vita per sussistere. Le lacrime che scendono, e forse servono a temperare l’umana arsura di questa mistica fiamma, splendono come rivi di diamante sulle guance magre.

Io non odo nessuna parola né di Francesco né di Gesù. Un silenzio assoluto, profondo, attonito. Una pausa nel mondo che è intorno al mistero. Per non turbare. Per non profanare questo sacro silenzio dove un Dio si comunica al suo benedetto. Contrariamente a quanto sarebbe da supporsi, gli uccelli non si esaltano a più acuti trilli e lieti voli per questa festa di luce, non danzano farfalle o libellule, non guizzano lucertole e ramarri. Tutto è fermo in un’attesa in cui sento l’adorazione degli esseri verso Colui per cui furono fatti. Non c’è più neppure quella brezza lieve che faceva rumor di sospiro fra le fronde. Più neppure quel suono arpeggiato e lento di un’acqua nascosta in qualche cavo di pietra, e che prima gettava, come perle rare, dentro per dentro [=ogni tanto], le sue note su scala tonata. Niente. Vi è l’Amore. E basta. Gesù guarda e
ride al suo Francesco. Francesco guarda e ride al suo Gesù... Basta.

Ma ora ecco che il Volto glorificato, tanto luminoso da parere quasi a linee di luce come è quello del Padre Eterno, si materializza un poco. Gli occhi prendono quel fulgore di zaffiro acceso di quando opera miracolo. Le linee divengono severe, imponenti, come sempre in quelle ore, imperiose, direi. Un comando del Verbo deve andare alla sua Carne; e la Carne obbedisce. E dalle cinque piaghe saetta cinque strali, cinque piccoli fulmini, dovrei dire, che scendono senza zigzagare nell’aria ma a perpendicolo, velocissimi, cinque aghi di luce insostenibile e che trapassano Francesco...

Non vedo, è naturale, le piante [=i piedi del Santo], coperte dalla veste e dalle membra, e il costato coperto dalla tonaca. Ma le mani le vedo. E vedo che, dopo che le punte infuocate sono entrate e trapassate - io sono come dietro Francesco - la luce, che è dall’altra parte, verso il palmo, passa dal foro sul dorso. Paiono due occhielli aperti nel metacarpo e dai quali scendono due fili di sangue che scorrono lenti giù per i polsi, sugli avambracci, sotto le maniche.

Francesco non ha che un sospiro così profondo che mi ricorda quello estremo dei morenti. Ma non cade. Resta come era ancor per qualche tempo. Sinché il Serafino, di cui mai ho visto il volto - ho visto di lui solo le sei ali - ridistende queste sublimi ali come velo sul Corpo santissimo e lo nasconde, e con le due ali iniziali risale, sempre più oltre, nel cielo, e la luce diminuisce, rimanendo infine solo quella di un sereno mattino solare. E il serafino scompare oltre il cobalto del cielo che lo inghiotte e si chiude sul mistero che è sceso a far beato un figlio di Dio e che ora è risalito al suo regno.

Allora Francesco sente il dolore delle ferite e con un gemito, senza alzarsi in piedi, passa dalla posizione di prima a sedersi in terra. E si guarda le mani... e si scopre i piedi. E socchiude la veste sul petto. Cinque rivoli di sangue e cinque tagli sono il ricordo del bacio di Dio. E Francesco si bacia le mani e si carezza costato e piante, piangendo e mormorando: 

“Oh, mio Gesù! Mio Gesù! 
Che amore! Che amore, Gesù!... Gesù!... Gesù!...”.
E tenta porsi in piedi, puntando i pugni al suolo, e vi riesce con dolore delle palme e delle piante, e si avvia, un poco barcollante come chi è ferito e non può appoggiarsi al suolo e vacilla per dolore e debolezza di svenamento, verso il suo speco, e cade a ginocchi su un sasso, con la fronte contro una croce di solo legno, due rami legati insieme, e là riguarda le sue mani sulle quali pare formarsi una testa di chiodo che penetra a trapassa, e piange. Piange d’amore, battendosi il petto e dicendo: “Gesù, mio Re soave! Che m’hai Tu fatto? Non per
il dolore, ma per l’altrui lode mi è troppo questo tuo dono! Perché a me,
Signore, a me indegno e povero? Le tue piaghe! Oh! Gesù!...”.

Non odo altro né vedo altro.
Mi pare di avere, quando ero fra i vivi, udito descrivere in altro modo la
visione. Mi pare dicessero che era un Serafino col volto di Cristo. Io non so che farci. Io l’ho vista così e così la descrivo.
Io non sono mai stata alla Verna, né in nessun luogo francescano, per quanto sempre l’abbia desiderato. Ignoro perciò la topografia dei luoghi nella maniera più assoluta.

***

1945
10 gennaio.

Una singolare visione mi si presenta appena mi sveglio.

Vedo un lungo, stretto e basso stanzone, scuro. Una sola finestrella in uno dei
lati stretti. In fondo, presso il lato opposto, una porticina a muro che,
semiaperta come è, mostra un poverissimo corridoio appena appena rischiarato da
un poco di luce che entra da qualche finestrino, che io però non vedo. Nello
stanzone, che pare più un corridoio che una stanza, vi è una lunga tavola
rustica: un’asse alta e piallata, senza altra tinta che quella naturale del
legno divenuto scuro per lungo uso, sostenuta da quattro paia di gambe, pioli
tondi messi così / \ ai due estremi e ad un quarto della tavola. Un grande
Crocifisso alla parete.

Seduti alla tavola sono sette francescani: S. Francesco, sempre macilento e
pallido; frate Elia, bello, giovane, dagli occhi imperiosi e neri, capelli neri,
ricci... ahi! una somiglianza molto brutta, nei tratti e nei modi soprattutto,
con Giuda. È anche alto. Poi frate Leone: giovane, non molto alto, dal viso
buono e giocondo. Sono ai lati di Francesco. Dopo Leone, frate Masseo, un poco
corpulento, anzianotto, pacato. Poi tre fraticelli che credo novizi o conversi:
tacciono sempre, umili e impacciati, vestiti anche più poveramente dei quattro
frati perché non hanno mantello. Mangiano, in piatti di stagno, verdure lessate
e pane bigio. Mi paiono broccoli o cavoli neri.
Frate Elia dice: “Buono questo pane! Ha un sapore speciale. Sembra un dolce. Non so...”.
Frate Masseo: “Un dolce, e anche è succoso come carne. Nutre. Ristora. È
completo come un pasto intero”.
Frate Leone: “E la santa Ostia?! Mai ho sentito quel sapore in essa. Una levità
incorporea che si è sciolta in dolcezza... Oh! una dolcezza di Paradiso!”.
“Vi farò conoscere colei che fa questo pane e queste ostie. Non la guardate
all’aspetto: florida e allegra, cela sotto il sorriso semplice la sua austerità.
Lei, conversa, fa il pane e cura la mensa delle suore. Ma io so, per sicura
conoscenza, che in lei non scende che ben poco cibo, il più ripugnante e
spregiato dalle altre. E se è scarso il cibo, ella lo lascia per le più deboli
di corpo e di spirito, e alla sua fame e alla sua fatica non concede che ciò che
è schifo per l’uomo... Giovanna Battista la dovremmo chiamare! In questo suo
deserto di vera claustrata - deserto in sé, perché clausura è deserto sol se si
vuole, ossia se in essa si sa viver col Solo - ella si ciba di cavallette e
chiocciole strappate alle verdure dell’orto e arrostite alla fiamma del fuoco. E
ride e canta, allegra come allodola libera. Eccola”.

I frati si volgono, tutti curiosi, verso la porticina socchiusa. Entra una
bella, giovane (30 anni circa), robusta suora. Sorridente, posa sul tavolo una
brocca d’acqua e una ciotola di legno. È vestita di un marrone ruggine, maniche
ampie, veste dritta, sul davanti e sul dietro la pazienza scende sino a terra.
Non vedo cordone che scenda. E non cintura, perché ha un mantelletto corto sino
ai fianchi, tondo, serrato alla gola da un cavicchio di legno. In testa, le
bende che le serrano la fronte coprendola sino alle ciglia e le fasciano le gote
scendendo sotto alla pazienza. Sopra, il velo messo a cappa, così [grafico]
nero. Bel viso roseo, rotondo, occhi neri, ridenti e vivaci, bei denti sani e
robusti. Statura media, complessione robusta.
“Ecco Suor Amata Diletta di Gesù” dice Francesco. E poi: “I miei compagni
vorrebbero sapere che usi mettere nel tuo pane che è tanto buono e come fai le
ostie per la santa Mensa. Diverse son da tutte”.
La suora ride e risponde pronta: “Me ne dà l’aroma il mio speziere”.
“Che aroma è?”
“La Carità di Lui: Gesù, Signore, lo Sposo mio”.

Non vedo altro. Tutto cessa sul viso di Suor Amata Diletta di Gesù, che splende
nel dir queste parole.

Mentre ancora parla P. Migliorini, avanti la Comunione, ecco il Maestro che
parla anche Lui. È così imperioso che lascio in asso il Padre e mi occupo di
Gesù. Detta:
Il tuo Superiore sono Io. Ti senti la mia Grazia in te? Ti senti Me nel tuo
cuore, e che ti approvo? E allora? Non sono Io il Superiore dei superiori? La
tua Clausura non sono Io? Sbarre e cancelli l’amore tuo per Me e il mio per te?
Vi è chi si impunta sulla durezza delle necessità? Perché questo? Per superbia
ed egoismo. Oh! santa Umiltà che fu mia! Oh! santa Povertà che fu mia! Oh! santa
Carità che sono Io!
Per te che soffri ho dato una luce. Suor Amata Diletta di Gesù, che è tua più
che dei francescani.»
Da "Vangeli della Fede"


<<AMORE AMORIS TUI MORIAR
QUI AMORE AMORIS MEI
DIGNATUS ES MORI>>


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