lunedì 10 dicembre 2012

Rivelazioni - La pazienza con cui Dio sopporta i nostri difetti - La custodia del cuore. L’utilità della compassione. Riconoscenza per la grazia.



12 – La pazienza con cui Dio sopporta i nostri difetti


Ti rendo anche grazie, mio Dio, per un’altra visione non meno gradita che utile con la quale mi facesti conoscere con quanta pazienza Tu sopporti i nostri difetti, pur di vederci emendati e farci un giorno partecipi della tua beatitudine.
Una sera mi ero adirata, e la mattina seguente prima che facesse giorno, avendo avuto agio di darmi all’orazione, Tu mi apparisti sotto un aspetto insolito, come una persona estenuata di forze e priva di ogni soccorso.
Poiché mi rimordeva la coscienza per la caduta del giorno prima, cominciai a riflettere con dolore che indegna cosa fosse l’offendere Colui che è la santità e la pace seguendo l’impulso di una passione viziosa. E pensai che sarebbe stato meglio, anzi giunsi persino a desiderare, che Tu non fossi venuto in quell’ora (in quell’ora soltanto però!) in cui avevo il rimorso di non aver resistito al nemico che mi spingeva a sentimenti così contrari alla tua santità.
Ma ecco la risposta che Tu mi desti: «Come un malato che è riuscito a farsi portare ai raggi del sole si consola al sopraggiungere improvviso di un temporale, con la speranza del pronto ritorno del bel tempo, così Io, vinto dal tuo amore, voglio rimanere con te anche durante le tempeste delle tue passioni, in attesa che il pentimento riporti il sereno e ti diriga verso il porto dell’umiltà».
La mia lingua non vale ad esprimere quale abbondanza di grazia la prolungata tua presenza mi abbia elargito in quest’occasione! Possa supplirla, te ne prego, l’affetto del cuore, e da quell’abisso di umiltà in cui mi ha attirato la degnazione dell’amor tuo, m’insegni a far risalire verso la tua immensa misericordia la mia azione di grazie.

13 – La custodia del cuore


Confesso ancora al tuo amore, o Signore benignissimo, che anche in altro modo ti adoperasti per scuotere il mio torpore. Ti servisti bensì dapprima dell’intermediario di un’ altra persona, ma poi compisti da solo l’opera tua con non minor degnazione che misericordia.
Questa persona mi fece osservare che i primi a trovarti appena nato, secondo la narrazione del Vangelo, furono i pastori; e poi, da parte tua, mi disse che se desideravo veramente trovarti anch’io dovevo vegliare sui miei sensi come i pastori vegliavano sui loro greggi.
Non fui molto soddisfatta del consiglio. Lo trovavo inopportuno per me, perché sapevo che Tu mi inclinavi a servirti per amore e non già come un pastore mercenario serve il suo padrone.
Continuai a ripensarci tutto il giorno fino a Vespro con un senso di abbattimento spirituale, ed ecco che dopo Compieta, essendomi raccolta in preghiera al mio solito posto, Tu addolcisti con questo pensiero la mia tristezza: Una sposa può ben occuparsi di dar da mangiare ai falconi del suo sposo senza per questo venir privata delle tue carezze. Allo stesso modo anch’io se mi applicassi a custodir i miei sensi e i miei affetti, certo non per questo verrei privata della dolcezza della tua grazia.
Tu mi desti allora, sotto forma di una verga di fresco recisa, lo spirito del timore, affinché non allontanandomi mai neppure per un momento dalle tue braccia potessi, senza danno, attraversare le impervie contrade in cui sogliono smarrirsi gli affetti umani. Ed aggiungesti che se qualche cosa cercasse di far deviare i miei affetti, sia destra per mezzo della gioia e della speranza, sia a sinistra col dolore, il timore e la collera, subito mi servissi della verga del tuo timore e, richiamato al mio cuore per mezzo del raccoglimento dei sensi quell’affetto, lo penetrassi col calore della carità e te l’offrissi in saporoso sacrificio così come ti si offrirebbe il sacrificio di un agnellino appena nato.
Ahimè,ogni qualvolta da allora, spinta dalla mia malizia, dalla mia leggerezza e dalla mia vivacità nel parlare e nella’gire, ridavo la libertà a ciò che prima ti avevo offerto, sempre ho avuto l’impressione di strappartelo per così dire di bocca per darlo al tuo nemico. Eppure Tu, nel frattempo, continuavi a guardarmi con tanta serena bontà come se, non sospettando neppure il mio tradimento, Tu pensassi che io lo facessi per gioco.
Per tal via richiamasti sovente il mio cuore a tanta dolcezza di commozione e di pietà, da farmi persuasa che con nessuna minaccia avresti mai potuto indurmi a un desiderio di correzione e a un proposito di emendazione altrettanto grande e fermo.

14 – L’utilità della compassione


Una volta, nella Domenica precedente la Quaresima (1) mentre si intonava la Messa «Esto mihi…Sii per me un luogo di rifugio», credetti di intendere che, perseguitato e tormentato da molti tuoi nemici Tu mi chiedessi con le parole di questo Introito di accoglierTi e di lasciarTi riposare nel mio cuore. E per i tre giorni successivi, ogni qualvolta mi raccoglievo internamente, mi pareva di vederti riposare sul mio petto come un povero infermo. Non trovai in questi tre giorni nulla che potesse offriti un più alto sollievo che il darmi per amor tuo alla preghiera, al silenzio e alla mortificazione per la conversione di coloro che vivono secondo lo spirito del mondo.
(1) E cioè la Domenica di Quinquagesima.

15 – Riconoscenza per la grazia


Nella tua bontà ti degnasti rivelarmi con la luce della tua grazia che l’anima, finché rimane nel fragile involucro del corpo, si trova avvolta come in una nube, così come una persona racchiusa in un’angusta stanza sarebbe da ogni parte circondata dal vapore che in essa si producesse. Quando però il corpo viene colpito da qualche male, attraverso al membro paziente si infiltra nell’anima come un raggio di sole che mirabilmente la rischiara. Quanto più il male è esteso e grave, tanto più chiaro è il raggio di luce che inonda l’anima. Le ferite che il cuore incontra nell’esercizio dell’umiltà, della pazienza e simili, sono quelle che, toccando l’anima più profondamente e più da vicino, le apportano maggior copia di luce. Sovra ogni altra cosa però la rasserena e la rischiara la pratica delle opere di carità.
Grazie ti siano rese, o Amico degli uomini, di avermi in tal modo spesso attirata alla pratica della pazienza. Ma, ahimè, mille volte ahimè, ben raramente e ben poco ho corrisposto alla tua grazia e certo mai nel modo in cui avrei dovuto corrispondervi! Tu conosci, o Signore, il mio dolore, la mia confusione e il mio abbattimento al riguardo, e sai quanto il mio cuore desideri che altri supplisca alle mie deficienze.
Un’altra volta durante la Messa, mentre stavo per comunicarmi, avendomi Tu concesso di godere del solito della tua presenza, io mi sforzavo di capire che cosa potessi fare per ricambiare almeno in parte tanta tua degnazione. O Maestro sapientissimo: «Desideravo essere io stessa anatema per i miei fratelli» (Rm 9,3).
Io avevo ritenuto fino allora che, secondo quanto mi avevi lasciato credere, l’anima risiedesse soltanto nel cuore. Tu mi insegnasti in quel momento che essa risiede anche nel cervello cosa che poi ho trovata anche scritta, ma che prima non sapevo. Mi dicesti dunque esser cosa di grande merito se l’anima, abbandonata per amor tuo la dolcezza della fruizione affettiva, vigilasse alla custodia dei sensi esterni e si affaticasse nelle opere di carità a salvezza del prossimo.




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Cor Mariæ Immaculatum, intercede pro nobis

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