mercoledì 5 dicembre 2012

‘I Vangeli della Fede’: Un rabbino, un teppista, un diacono


‘I Vangeli della Fede’

7 agosto.
Ieri sera ho avuto una singolarissima visione 
(La visione, che qui viene narrata con qualche incertezza e discontinuità, si ritroverà trascritta con maggior sicurezza e più ordine narrativo sul quaderno n. 100, e formerà l’episodio del “Martirio di Stefano” del ciclo della “Glorificazione” della grande opera sul Vangelo) 
che sul principio mi ha lasciata proprio sbalordita.
Poi ho capito che si riferiva alle prime persecuzioni verso
i cristiani, avvenute proprio in Gerusalemme. Ma questo l’ho capito poi, quando la visione si è animata, perché sul principio non vedevo che l’interno del Tempio, e precisamente quel portico in quel cortile presso al quale è la bocca del Tesoro, quel punto, insomma, presso il quale, appoggiato a una colonna, Gesù osservava la folla nella visione della vedova che dà i due piccioli.
Alla stessa colonna, proprio alla stessa - la riconosco per la sua posizione
presso le bocche del Tesoro e la scala che immette all’altro cortile - è un
autorevole personaggio. Un fariseo certo, tale me lo denunciano la veste e il mio interno ammonitore.


È un uomo sui sessant’anni, a giudicare dall’aspetto. Dai 55 ai 60. Alto, di nobile portamento e anche bello nei tratti fortemente semitici. La fronte deve essere alta, ma non è scoperta per un bizzarro copricapo che la copre sino a quasi le sopracciglia molto folte e dritte, che ombreggiano due occhi intelligentissimi, penetranti, neri, molto lunghi di taglio e incassati ai lati di un naso che scende diritto dalla fronte, lungo, sottile, dalle narici palpitanti, lievemente curvo in basso, alla punta. Guance di un avorio carico piuttosto incavate, non per emaciazione ma per conformazione del viso. Bocca piuttosto larga, dalle labbra sottili, ma bella, ombreggiata da baffi che non ne superano gli angoli e che si mescono ad una barba tagliata quadrata, che scende
non più di tre dita dal mento; i baffi e la barba, molto ben curati, sono di una brizzolatura tanto accentuata da esser più bianca che nera, come doveva essere inizialmente e come denunciano dei rari fili di un nero fin quasi azzurrognolo tanto è morato.
Ma quello che mi colpisce è l’abito. Sulla testa ha un copricapo fatto di un telo di lino piuttosto rigido, che cinge la fronte e si chiude sulla nuca come la cuffia delle infermiere di Croce Rossa. Il lembo libero ricade, al disopra della fermatura, sul collo e giunge alle spalle. È una specie di cappuccio, insomma, ma da adattarsi di volta in volta. L’abito invece è fatto così. Sotto, una lunga (fino a terra, a coprire i piedi, che infatti non vedo) veste di lino candidissimo, molto ampia, con maniche lunghe e larghe, tenuta a posto alla vita da una ricca cintura che è tutto un gallone di ricamo e di cordoni. La veste ha degli orli ricamati come a bordura, molto ampi.
Sopra questa vi è una specie di sopraveste curiosissima. Dietro pare una pianeta da Messa: un pezzo di stoffa tutta ricamata che pende dalle spalle sin verso il ginocchio, aperta ai lati, e che sul davanti scende a V fino all’altezza di dove finisce lo sterno facendo pieghe: 3 per parte, e sullo sterno è tenuta raccolta da una targa lavorata di metallo prezioso, che pare la borchia o chiusura di una cintura preziosa, che va ad allacciarsi ai lati posteriori della pianeta (la chiamerò così) ma non strettamente: appena quel tanto da tenere tutto a posto.
Oltre questa fibbia, la pianeta scende senza più pieghe fino al ginocchio.
Questo scarabocchio [grafico] vorrebbe essere la parte davanti di questa parte dell’abito del fariseo. Non rida di me. Tutto intorno ai suoi bordi, questa singolare casacca ha dei nastrini messi così [grafico] azzurri, fitti fitti.
Questi nastri messi a frangia si ritrovano anche sui bordi di un amplissimo
mantello di stoffa morbidissima, pare quasi una seta tanto è pieghevole e lieve, deve essere lino o lana del filato più fino, ma per la candidezza direi lino. Il mantello è tanto ampio che potrebbe bastare a coprire tre persone. Ora è aperto e pende dalle spalle sino a terra, dove si ammucchia con pieghe fastose.
Il fariseo ha le mani conserte sul petto, le braccia conserte, e guarda con
severità e direi con disgusto qualche cosa. Non è sprezzante però. Direi
addolorato.

Fin qui la prima parte della visione che ho descritto al presente per maggior vivezza, anche perché è tuttora presente alla mia vista come ieri sera. Se sapesse quanto ho studiato la veste del fariseo! Potrei dire e disegnare, se fossi capace, i ghirigori della fibbia preziosa e le greche dei bordi ricamati.

In un secondo tempo ho visto venire davanti al fariseo un giovinotto, un ebreo certo, dalle caratteristiche nette, e anzi un brutto ebreo. Bassotto, tarchiato, direi quasi un poco rachitico, con gambe molto corte e grosse, un poco divaricate ai ginocchi: le vedo bene perché ha veste corta come chi si appresta a viaggiare, me lo dice il mio ammonitore... Una veste grigiognola. Braccia pure corte e nerborute, collo corto e grosso che sostiene una testa piuttosto grossa, bruna, con capelli corti e ruvidi, dalle orecchie piuttosto sporgenti, labbra tumide, naso fortemente camuso, zigomi alti e grossi, fronte convessa e alta, occhi... tutt’altro che dolci. Piuttosto bovini ma dallo sguardo duro, iracondo.
Eppure questi occhi, nerissimi sotto i cespugli di sopracciglia arruffate, sono occhi bellissimi. Fanno pensare. Non ha barba lunga, ma le guance paiono affumicate dall’ombra di una barba foltissima e che deve esser ispida come i capelli. È un uomo decisamente brutto nel corpo e nel volto. Pare persino un poco gobbo nella spalla destra. Ma pure colpisce e attira nonostante abbia aspetto brutto e cattivo.

Va di fronte al fariseo e gli dice qualcosa, con le sue grosse labbra, che io
non capisco.
Il fariseo risponde: “Non approvo la violenza. Per nessun motivo. Da me non avrai mai adesione a un disegno violento. L’ho detto anche pubblicamente”.

“Sei forse protettore di questi bestemmiatori, seguaci del Nazareno?”

“Sono protettore della giustizia. E questa insegna ad esser cauti nel giudicare. L’ho detto: ‘Se è cosa che viene da Dio resisterà, se no cadrà da sé’. Ma io non voglio macchiarmi le mani di un sangue che non so se meriti morte”.

“Tu, fariseo e dottore, parli così? Non temi l’Altissimo?”

“Più di te. Ma penso e ricordo... Tu non eri che un piccolo, non ancora figlio della Legge, ed io insegnavo in questo Tempio con il rabbino più saggio di questo tempo... E la nostra saggezza ebbe una lezione che ci fece pensare per tutto il resto della vita. Gli occhi del saggio si chiusero sul ricordo di quell’ora e la sua mente sullo studio di quella verità che si rivelava agli onesti. I miei hanno continuato a vigilare, e la mente a pensare, coordinando le cose... Io ho udito l’Altissìmo parlare dalla bocca di un fanciullo

(Gesù dodicenne fra i dottori nel Tempio: Luca 2, 41-50. Nell’analogo episodio
scritto da Maria Valtorta per l’opera sul Vangelo, si incontrano i personaggi di
Gamaliele  - il fariseo che qui parla - e di Hillel  -  il saggio rabbino
qui ricordato-).

che poi fu uomo e giusto e che fu messo a morte per esser giusto. E quelle parole hanno avuto conferma nei fatti... Misero me che non compresi avanti! Misero popolo d’Israele!”.

“Maledizione! Tu bestemmi! Non vi è più salvezza se i maestri d’Israele
bestemmiano il Dio vero”.

“Non io l’ho bestemmiato. Tutti! E lo continuavamo a bestemmiare. Giusto hai detto: non vi è più salvezza!”.

“Mi fai orrore”.

“Denunciami al Sinedrio come colui che fu lapidato. Sarà l’inizio felice della tua missione e io sarò perdonato, per il mio sacrificio, di non aver compreso il Dio che passava”.
Il brutto giovane va via sgarbatamente e la visione cessa lì. Stamane si
ripresenta nettissima alla memoria, ma con un anticipo (o antefatto)
che me la fa capire.


Vedo l’aula del Sinedrio, la stessa e messa nello stesso modo di quando accolse il mio Gesù nella notte fra il Giovedì e Venerdì. Il Sommo Sacerdote e gli altri sono sui loro scanni; al centro dell’aula, nello spazio vuoto dove era Gesù, è ora un giovane, direi sui 25 anni, alto e bello. Intorno a lui, sgherri e allievi del Sinedrio, non so se si chiamino così, ma mi paiono studenti alle dipendenze dei rabbini, perciò allievi.
Stefano deve avere già parlato (Atti d. Apostoli 7), perché il tumulto è al colmo e ha riscontro solo nella gazzarra assassina che accompagnò 1’uscita di Gesù dall’aula. Pugni, maledizioni e bestemmie sono tesi e lanciati contro il diacono Stefano e anche percosse brutali, per cui egli traballa, stiracchiato qua e là con ferocia.

Ma egli conserva calma e dignità. Più che calma, gioia. Con viso ispirato e luminoso, senza curarsi degli sputi che vengono a rigargli il viso né di un filo di sangue che scende dal naso violentemente colpito, egli alza gli occhi e sorride ad una vista nota a lui solo. Apre le braccia in croce e le tende come per un abbraccio e cade in ginocchio così, adorando ed esclamando: “Ecco, io vedo i Cieli aperti ed il Figlio dell’Uomo, Gesù Nazareno, il Cristo di Dio che voi avete ucciso, è alla destra di Dio!”

Allora la canea cessa di avere l’ultima parvenza di umanità e di legalità e, con la furia di una muta di mastini idrofobi, si scaglia sul diacono, lo morde, lo afferra, lo mette in piedi a suon di calci, lo spinge fuori a suon di pugni, tirandolo per i capelli, facendolo cadere e trascinandolo ancora, facendo ostacolo alla sua furia con la sua stessa furia, perché nella rissa chi cerca tirare il martire è ostacolato da chi lo calpesta.

Fra i più veementi e crudeli è il giovane brutto che ho visto parlare al rabbino e fariseo e che chiamano Saulo. Mi spiace per l’apostolo... ma pareva un teppista prima di esser di Cristo...

Vedo anche il fariseo e dottore il quale, uno dei pochi che non è partecipante alla zuffa, come è stato sempre silenzioso durante l’accusa e mentre è data condanna (e con lui mi pare vedere anche Nicodemo, in un angolo semi-scuro), il quale fariseo e dottore, disgustato della scena illegale e feroce, si ammanta nel suo amplissimo mantello e si dirige verso un’uscita opposta a quella verso la quale è diretta la turba dei carnefici.

La mossa non sfugge a Saulo che grida: “Rabbi, te ne vai?” e dato che l’altro mostra di non prendere per sé la domanda, Saulo specifica: “Rabbi Gamaliel, ti astrai da questo giudizio?”.
Gamaliele si volge tutto d’un pezzo e con sguardo altero e freddo risponde semplicemente: “Sì”. Ma è un “sì” che vale un intero discorso.
Saulo comprende e, lasciando la muta, corre a lui. “Non vorrai dirmi, maestro, che disapprovi la nostra condanna”.

Silenzio.

“Quell’uomo è doppiamente colpevole per aver rinnegato la Legge seguendo un samaritano posseduto da Belzebù e per averlo fatto dopo essere stato tuo allievo”.

Silenzio.

“Sei tu forse seguace del malfattore detto Gesù?”.

“Non lo sono. Ma se egli era colui che si diceva, io prego l’Altissimo che io lo divenga”.

“Orrore!”.

“Nessun orrore. Ognuno ha una intelligenza per adoperarla e una libertà per applicarla. Ognuno l’usi secondo quella libertà che Dio ha dato e quella luce che ci ha messo in cuore. I giusti l’useranno nel bene, i malvagi nel male. Addio”. E se ne va senza curarsi d’altro.

Saulo raggiunge gli aguzzini nel cortile ed esce con loro dal Tempio e dalle porte della città, sempre fra percosse e dileggi.
Fuori le mura, in uno spazio incolto e sassoso, i carnefici si allargano a
cerchio. Al centro è il condannato con le vesti lacere e già pieno di ferite
sanguinose. Tutti si levano le sopravvesti rimanendo in corte tuniche come quella di Saulo nella visione di ieri sera. Le vesti vengono date a Saulo che non prende parte alla lapidazione. Non so se perché troppo piccolo o conscio della sua incapacità di tiratore o se perché scosso dalle parole di Gamaliele.
Fatto è che Saulo resta con la veste lunga e il mantello a custodire le vesti
degli altri, i quali, a colpi di pietra (le pietre abbondano nel luogo, ciottoli
tondi e selci aguzze), finiscono il martire.

Stefano prende i primi colpi in piedi con un sorriso di perdono sulla bocca ferita. Prima, con quella bocca, ha salutato Saulo. Gli ha detto, mentre la muta si apriva a cerchio e Saulo era intento a ritirare le vesti: “Amico, io ti attendo sulla via di Cristo”. Al che Saulo aveva risposto, accompagnando gli epiteti con un calcio vigoroso: “Porco! Ossesso!”.




Poi Stefano vacilla, e sotto la grandine dei colpi cade in ginocchio dicendo: “Signore Gesù, ricevi lo spirito mio!”. Altri colpi sul capo ferito lo fanno stramazzare, e mentre cade e si adagia col capo nel suo sangue, fra i sassi, mormora spirando: “Signore, Padre,... perdonali... non tener loro rancore per il loro peccato. Non sanno quello che...”. La morte ferma la frase qui.
I carnefici lanciano un’ultima valanga di sassi sul morto, lo seppelliscono
quasi sotto questa grandinata di pietre. Si rivestono e vanno. Tornano al Tempio e i più accesi si presentano, ebbri di zelo satanico, al Sommo Sacerdote per aver carta libera a perseguitare.
Fra questi, il più acceso è Saulo. Avuta la lettera di autorizzazione - una
pergamena col sigillo del Tempio in rosso - esce. Non perde tempo. Si appresta subito al viaggio e alla persecuzione. Il sangue di Stefano gli ha fatto l’effetto del rosso a un toro e di un vino ad un demente per alcoolismo. Lo ha portato alla furia. È più brutto che mai. Mi scusi l’apostolo. Ma devo dire ciò che vedo.

Mentre attende non so chi, vede Gamaliele appoggiato alla colonna e va a lui. Ho l’impressione che Saulo fosse di quelli che non lasciavano cadere una disputa, ma con una insistenza da mosca tornasse sempre all’assalto. Nel male prima, nel bene poi.

Rivedo esattamente la scena di ieri sera, che perciò non ripeto. E null’altro.
Io non avevo riconosciuto Gamaliele, molto più vecchio del momento della disputa di Gesù fanciullo, e ora con quel copricapo che allora non aveva. Ma dico il vero. Fin da allora mi era piaciuto. Ora mi piace più ancora. Mi impone rispetto. Non so se sia morto cristiano (Nel 1951 Maria Valtorta scriverà l’episodio della conversione di Gamaliele al cristianesimo, che sarà uno degli ultimi capitoli della grande opera sul Vangelo). Ma vorrei lo fosse perché mi pare lo
meritasse. Era giusto.

Come lei vede, una visione proprio impensabile ad aversi, specie per quello che riguarda Gamaliele. Ma è così netta! Una delle più nette e insistenti. Potrei numerare persone, pietre e colpi, tanto sono esatti i particolari.
Per ora nessun commento da parte di Gesù.


Da ‘I QUADERNI’ ( 1944, 1945-50) di Maria Valtorta.


DOMINE JESU,
ACCIPE SPIRITUM MEUM,
ET NE STATUAS ILLIS HOC PECCATUM