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domenica 28 ottobre 2012

«Ubi est frater tuus Abel?: dov’è tuo fratello Abele?» (Gen 4,9)


[S. GERTRUDE] Recitando una volta in Avvento il responsorio «Ecce veniet Dominus protector noster, sanctus Israel: ecco verrà il Signore, il nostro protettore, il santo d’Israele» [Ia Domenica di Avvento], capì che se un’anima, abbandonandosi completamente a Dio, desidera con tutto il cuore di essere sempre diretta così nella prospera come nell’avversa fortuna dalla sua santissima volontà, rende a Dio in tal modo tanto onore e gloria quanta ne procura all’Imperatore colui che gli impone sul capo la corona a riconoscimento della sua autorità.
Un’altra volta, alle parole del Profeta Isaia: «Elevare, elevare, consurge Jerusalem: sorgi, sorgi, Gerusalemme!» (Is 51,17) comprese quali benefici provengono alla Chiesa militante dalla santità dei suoi eletti. Quando infatti anche una sola anima piena d’amore si volge al Signore con ardente preghiera e con vivo e sincero desiderio di riparare, potendo, tutte le offese recate al suo onore, Dio ne resta tanto placato che qualche volta, riconciliandosi coi peccati, perdona al mondo intero. Ed è ciò che viene espresso nella parole che seguono: «Usque ad fundum calicis bibisti: hai bevuto il calice fino in fondo», poiché allora la severità della giustizia si cambia nella dolcezza della misericordia. Ma ciò che ancora segue: Potasti usque ad fæces: hai bevuto fino alla feccia, lascia comprendere che per i dannati cui non spetta che la feccia della giustizia, non è possibile alcuna redenzione.
U’altra parola di Isaia: «Glorificaberis, dum non facis vias tuas: sarai glorificato se non segui le tue inclinazioni» (Is 58,13), le fece intendere che chi fa dei progetti e poi, riconoscendone la vanità, rinuncia al piacere di attuarli, consegue un triplice beneficio. Il primo è quello di poter trovare in Dio una gioia più profonda, come è detto: «Delectaberis in Domino: ti rallegrerai nel Signore!» (Sal 97,12). Il secondo è quello di sottrarsi più profondamente all’influsso sei pensieri cattivi, come sta scritto: «Sustollam te super altitudinem terræ: ti innalzerò al disopra di ogni più alta cima della terra». Il terzo è quello di ricevere poi dal Figlio di Dio nell’eterna vita una più piena partecipazione al frutto dei suoi meriti per la nobile e gloriosa vittoria che avrà riportato sulla tentazione. È detto infatti: «Cibabo te hæriditate Jacob patris tui: ti ciberò del retaggio di Giacobbe tuo padre».
In quest’altro testo di Isaia: «Ecce merces ejus cum eo: egli porta in sé la sua ricompensa» (Is 62,2), comprese che Dio nel suo amore è Egli stesso il premio dei suoi eletti. Egli si unisce a loro in un’unione così soave che ciascuno di essi potrà affermare in tutta verità di essere stato ricompensato immensamente al disopra di ogni suo merito, come è detto: «Et opus illius coram illo: e il premio dell’opera sua gli sta dinnanzi».
Comprese ancora che quando un’anima si affida tutta alla divina Provvidenza e desidera che la divina Volontà si compia in lei in ogni cosa, essa, per grazia di Dio, appare già perfetta al di Lui sguardo.
Il testo «Sanctificamini filii Israel: santificatevi o figli di Israele» [Responsorio della Vigilia di Natale] le fece comprendere che se un’anima prontamente si pente dei suoi peccati, deplora di non aver fatto tutto il bene che poteva fare, e propone con sincerità di cuore di obbedire d’ora innanzi ai precetti di Dio, subito essa appare santa al suo sguardo come quel lebbroso del Vangelo che il Signore degnò di purificare dalle sue colpe dicendogli: «Volo, mundare: lo voglio, sii mondato»(Mt 8,3).
Quest’altra parola della S. Scrittura: «Cantate Domino canticum novum: cantate al Signore un cantico nuovo» (Is 42,10), le fece comprendere che canta al Signore un nuovo cantico colui che conta con grande devozione. Infatti, per la grazia che Dio gli ha concessa di dirigere verso di Lui la sua attenzione, egli è interamente rinnovato e reso accetto al Signore.
Ancora: attraverso il testo di Isaia: «Spiritus Domini super me: lo Spirito del Signore è sopra di me» (41,1), con quel che segue: «Ut mederer contritos corde: per consolare i cuori spezzati», essa capì che il Figlio di Dio, mandato dal Padre per confortare coloro che son nell’afflizione, suole talvolta provare i suoi eletti con qualche sofferenza, anche lieve ed esteriore, per avere occasione di aiutarli. E lo fa, non togliendo loro la prova che è stata occasione della sua venuta e che è in sé un male (anche se il cuore ne soffre), ma piuttosto portando rimedio a ciò che veramente possa esserci di male in quell’anima.
Il versetto: «In splendoribus Sanctorum: nello splendore dei Santi», le diede l’intuizione dell’immensità e dell’incomprensibilità della luce di Dio. Capì che se ciascuno dei Santi, da Adamo fino all’ultimo uomo, ne avesse una conoscenza personale, chiara, profonda e vasta quanto è possibile ad umana creatura, distinta da quella di ciascuno degli altri Santi – e se per giunta il numero dei Santi fosse mille e mille volte più grande, la profondità della luce di Dio rimarrebbe inesausta e infinitamente al disopra di ogni intelligenza creata. Per questa ragione non sta scritto in splendore: nello splendore, ma «in splendoribus Sanctorum, ex utero ante luciferum genui te: negli splendori dei Santi, prima dell’aurora, prima dell’aurora io ti ho generato».
Una volta, nella festa di un Martire, mentre si cantava l’antifona: «Qui vult venire post me: chi vuol venire dietro a me», vide il Signore avanzarsi per una strada bella e fiorita, ma angusta e irta di spine. Lo precedeva una croce che, dividendo le spine, apriva un comodo passaggio. Il Signore si voltava indietro e con volto sereno invitava i suoi a seguirlo dicendo: «Qui vult venire post me, abneget semetipsum et tollat crucem suam et sequatur me: chi vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua». Essa comprese che per ciascuno la sua tentazione è la sua croce. Per qualcuno sarà una croce l’obbedienza che gli impone qualcosa di contrario alla sua inclinazione; per un altro sarà l’infermità che gli impedisce di occuparsi in cose di suo gradimento, ecc. Ciascuno pertanto deve prendere la propria croce, sopportando volentieri ciò che gli riesce contrario e non trascurando nulla, per quanto gli è possibile, di ciò che può tornare a gloria di Dio.
Il versetto: «Verba iniquorum, ecc: le parole degli empi», le fece comprendere che se qualcuno per umana fragilità commette qualche colpa se vien corretto duramente e non soltanto a parole, l’eccesso di severità provoca la misericordia di Dio ed è occasione di accrescimento di meriti per chi ha commesso la colpa.
Mentre un giorno si cantava la Salve Regina, alle parole: «Illos tuos misericordes oculos ad nos converte: volgi a noi i tuoi occhi misericordiosi», essa desiderò di ottenere la salute del corpo, e il Signore sorridendo dolcemente le disse: «Non sai che il mio sguardo si posa su di te pieno di misericordia quando sei oppressa dalla sofferenza fisica o spirituale?».
Nella festa di alcuni Martiri, mentre si cantava il responsorio «Viri sancti gloriosum sanguinem fuderunt: I Santi sparsero il loro sangue glorioso» [dal Comune dei Martiri], osservò fra sé che, se il sangue ispira ripugnanza, tuttavia, quando è versato per Cristo, viene esaltato nella Sacra Scrittura. Allo stesso modo certe trasgressioni materiali della regola che son dovute o all’obbedienza o a qualche motivo di fraterna carità, piacciono tanto al Signore che ben a ragione possono anch’esse esser considerate gloriose.
Un’altra volta comprese che per un occulto giudizio, Iddio permette talvolta che quando un malvagio con male arti cerca di estorcere un segreto a un suo eletto, riceva una risposta atta a confermarlo nella sua ostinazione e nella sua malvagità. È ciò che dice il Profeta Ezechiele: «Chi dà ricetto nel cuore alle sue infamie e fa buon viso alle occasioni della sua iniquità, e poi venga dal Profeta, volendo per suo mezzo interrogare me, gli risponderò ben io, il Signore, rinfacciandogli la moltitudine delle sue infamie affinché senta una stretta al cuore» (Ez 14,4-5).
Le parole che si cantano in nome di S. Giovanni: «Haurit virus hic lethale: Egli beve il veleno mortale» [Dall’antica vita di S. Giovanni e dal responsorio della sua festa], le fecero capire che, come la virtù della fede preservò Giovanni dagli effetti del veleno, così il mancato consenso della volontà fa sì che l’anima resti pura da colpa, per quanto velenosa sia la suggestione che si insinua, suo malgrado, nel cuore.
Il versetto: «Dignare Domine die isto: Degnati, o Signore, in questo giorno», fu l’occasione di un’altra illuminazione. Chi si raccomanda con questa preghiera al Signore per essere preservato dal peccato, per un occulto giudizio di Dio può anche darsi che poi si accorga di esser ugualmente caduto in qualche mancanza grave. Però non accadrà mai che non trovi pronto il sostegno della grazia per aiutarlo a tornare a Dio e rendergli più facile la penitenza.
Un giorno, mentre si cantava il responsorio: «Benedicens ergo Deus Noe: Dio benedicendo Noè» [Responsorio dell’antico breviario monastico per la Domenica di Sessagesima], essa, quasi in persona di Noè, si presentò davanti al Signore per chiedere la sua benedizione. Quando l’ebbe ricevuta, le parve che il Signore a sua volta aspettasse di essere da lei benedetto, e cioè magnificato. Gertrude comprese allora che l’uomo benedice e cioè santifica Iddio quando si pente di averlo offeso e implora il suo soccorso per non ricadere nel peccato. Il Signore dei cieli si china allora verso la sua creatura per mostrare che questa preghiera gli è gradita come se da essa dipendesse la salvezza del mondo intero.
Le parole: «Ubi est frater tuus Abel?: dov’è tuo fratello Abele?» (Gen 4,9), le fecero capire che il Signore chiederà conto a ciascun religioso di ogni mancanza contro la regola commessa da un suo confratello, qualora egli avesse potuto impedirla ammonendo il fratello stesso o avvertendo i Superiori. La scusa che si suol portare: Io non ho avuto l’incarico di correggere gli altri, oppure: Io son peggio di lui, non vale davanti a Dio più della risposta di Caino: «Nunquid custos fratis mei sum ego?: sono io forse il custode di mio fratello?». Davanti a Dio infatti ciascuno è tenuto a ritrarre dal male il fratello suo e ad esortarlo al bene; ogni volta pertanto che trascura questo suo dovere di coscienza pecca contro Dio. E poco gli giova affermare di non avere avuto l’incarico, perché questo incarico gli è stato dato da Dio in tutta verità come attesta la sua propria coscienza. Se lo trascura, il Signore ne chiederà conto a lui ancor più che al Superiore, il quale o non è stato presente al fatto o non l’ha rilevato. Perciò la Scrittura dice: «Vae facienti , vae, vae, consentienti: guai a chi fa il male, ma due volte guai a chi vi dà il consenso». Dà il suo consenso al male chi lo dissimula tacendo, mentre avrebbe potuto, manifestandolo, evitare un’offesa alla gloria di Dio.
Il responsorio: «Induit me Dominus: il Signore mi ha rivestita» [Dal Comune delle Vergini secondo il breviario monastico], le fece capire che chi cerca di promuovere con le parole e con le azioni la giustizia e l’osservanza religiosa, è come se rivestisse il Signore di una veste ricchissima. E il Signore lo ricompenserà nella vita eterna con la liberalità della sua regale munificenza, rivestendolo a sua volta di una veste di letizia e ponendogli sul capo una corona di gloria. Comprese ancora che chi nel combattere per il bene e per la religione avrà sopportato delle avversità, riuscirà particolarmente accetto a Dio, così com’è particolarmente gradito al povero un indumento che insieme lo veste e lo riscalda. Anche se, per l’opposizione del malvagio, il suo buon volere e il suo sforzo non fossero riusciti a nulla, la ricompensa che Dio gli riserva non soffriva alcun detrimento.
Si cantava una volta il responsorio: «Vocavit Angelus Domini: l’Angelo del Signore chiamò, ecc.» [Responsorio della Domenica di Quinquagesima], e comprese un’altra verità. L’assistenza degli Angeli sarebbe più che sufficiente a proteggere contro ogni male gli eletti, ma il Signore, nella sua paterna provvidenza, sospende talvolta la loro protezione e permette che gli eletti siano tentati, onde poterli poi ricompensare tanto più liberalmente quanto più, per la sottrazione dell’aiuto angelico, essi han trionfato del male con maggior loro sforzo.
Il responsorio che segue: «Vocavit Angelus Domini Abraham: l’Angelo del Signore chiamò Abramo», l’aiutò a capire che come il Padre dei credenti meritò per la sua fede di esser trattenuto da un Angelo nel momento in cui stendeva il braccio per compiere gli ordini del cielo, così il giusto che, per amore di Dio, si sottomette e si accinge con perfetta buona volontà a compiere un’opera difficile, merita al momento opportuno di essere sostenuto dalle dolcezze della grazia e consolato dalla testimonianza della sua coscienza. E questo è il dono col quale la munifica liberalità di Dio anticipa l’eterna ricompensa che verrà concessa a ciascuno in proporzione del merito.
Una volta, ripensando ad alcune avversità incontrate nella vita passata, domandò al Signore perché avesse permesso a certe persone di molestarla. Il Signore rispose: «Quando la mano del padre vuol correggere il figlio, la verga non potrebbe opporsi alla mano. Perciò i miei eletti non dovrebbero mai riferire i mali che soffrono agli uomini che ne sono lo strumento, ma dovrebbero sempre solo considerare il mio paterno affetto. Io non permetterei che il minimo soffio d’aria li molestasse se non avessi di mira la salvezza eterna con cui ricompenserò la loro sofferenza. Piuttosto dovrebbero compatire coloro che, perseguitandoli, macchiano la loro propria coscienza. Questo è il loro castigo».
Un giorno, alle prese con un lavoro difficile, disse all’eterno Padre: «Signore, ti offro questo lavoro per il tramite del Figlio tuo unigenito, nella virtù del tuo Santo Spirito, a eterna tua gloria». Capì in quel momento tutta la forza di questa preghiera. Si rese conto infatti che tale intenzione dà alla cosa offerta un valore più che umano e la rende gradita a Dio Padre. Come un oggetto guardato attraverso ad un vetro colorato assume per l’occhio lo stesso colore del vetro, così un’offerta fatta attraverso l’Unigenito figlio di Dio appare a Dio Padre sommamente accetta e gradita.
Stando in orazione, chiese un giorno al Signore che vantaggio ricavavano i suoi amici da tante preghiere che per essi faceva, dato che non ne vedeva alcun effetto. Il Signore l’illuminò con questa similitudine: «Quando il figlio, ancora bambino, di un nobile ritorna dalla corte dell’Imperatore che l’ha investito di un grandissimo feudo, coloro che lo vedono passare non scorgono in lui che il bambino, e non si accorgono affatto dell’investitura   che farà di lui più tardi un grande e potente signore. Non ti stupire dunque se non puoi constatare con gli occhi l’effetto delle tue preghiere, perché Io ne dispongo secondo la mia eterna sapienza per il tuo maggior bene. Quanto più spesso si prega per qualcuno, tanto più grande è la felicità che gli si procura. Nessuna preghiera rimane senza frutto, anche se gli uomini non possono rendersi conto del modo con cui essa opera».
Desiderò una volta di capire qual frutto di santità provenga all’anima dallo sforzo di dirigere ogni suo pensiero a Dio. Ricevette questo insegnamento. Quando l’uomo meditando e pregando tiene il suo pensiero fisso in Dio, è come se presentasse davanti al trono della divinità uno specchio tersissimo, nel quale il Signore contempla con gioia la propria immagine. Infatti è Lui che ispira e dirige tutto ciò che è bene. L’uomo, per la sua debolezza, incontra talvolta nell’esercizio della preghiera delle difficoltà, ma quanto più grave è lo sforzo che egli deve fare, tanto più terso sarà lo specchio che eglipresenta all’adorabile Trinità e a tutti i Santi. E questo specchio rimarrà in eterno, a gloria di Dio e a perenne gioia dell’anima.
In una certa festa non poté prender parte al canto per il suo solito mal di capo. Domandò allora al Signore perché mai permettesse che questo mal di capo le venisse di preferenza nei giorni festivi. E il Signore: «Per impedire che, tutta presa dal piacere del canto, tu diventi meno atta a ricevere le mie grazie». «Ma, Signore – ella disse – la tua grazia potrebbe preservarmi da questo pericolo». E il Signore: «Sì, ma riesce di maggior vantaggio all’uomo che l’occasione di una caduta gli sia tolta dalla prova delle sofferenza, perché in tal caso ha doppio merito: quello della pazienza e quello dell’umiltà».
Nell’impeto del suo affetto, un giorno diceva al Signore: «O Signore, se un fuoco ardente potesse liquefare la sostanza della mia anima, sì da permetterle di potersi più facilmente trasfondere in Te!». «Sia la tua volontà questo fuoco» le rispose il Signore. Essa comprese da questa parola che con la sola volontà l’uomo può conseguire il pieno effetto di tutti i desideri che hanno Dio per oggetto [sempre supponendo che nulla possiamo di buono senza la grazia di Dio]
Cercava spesso di ottenere da Dio con la preghiera l’estirpazione di qualche vizio in sé o negli altri; e le pareva che il miglior modo in cui Dio poteva concederle questa grazia fosse quello di indebolire la forza degli abiti cattivi, perché allora, tenuta a freno da una specie di necessità che risulta dalla consuetudine e che è chiamata una seconda natura, l’anima può facilmente resistere al male. Ma riconobbe poi anche in ciò un’ammirabile disposizione della divina bontà a salvezza del genere umano. Per accrescere l’eterno peso di gloria delle anime, Dio permette che esse siano talvolta violentemente attaccate dalla tentazione affinché possano esultare di un più felice trionfo.
Durante una predica, intese dire una volta che nessuno si salva senza l’amore di Dio, almeno senza quel minimo grado di amore verso Dio che induce a pentirsi dei peccati per amor suo e ad emendarsene. Essa pensò fra sé che molti se ne vanno da questo mondo pentiti dei loro peccati più per il timore dell’inferno che per amore di Dio. ma il Signore le disse: «Quando vedo in agonia un’anima che qualche volta ha pensato con dolcezza a Me durante la sua vita, o che ha compiuto qualche opera buona almeno nei suoi ultimi giorni, Io mi mostro a lei con tanta bontà e misericordia che essa si pente dal profondo del cuore di avermi in passato offeso, e questo pentimento la salva. Vorrei che i miei eletti mi rendessero particolari azioni di grazie per tale beneficio».
Una volta, meditando su stessa, fu così colpita dalla propria interiore deformità e ne provò tanto disgusto, che con ansia cominciò a chiedersi se potesse mai riuscire accetta a Dio che vedeva la sua anima macchiata di tante colpe. Essa ne vedeva infatti qualcuna, ma per lo sguardo penetrante di Dio esse erano innumerevoli. Il Signore le diede questa consolante risposta: «È l’amore che mi rende accette le anime». Capì allora che se, sulla terra, l’amore ha tanta forza da rendere amabili anche esseri deformi, tanto da far persino desiderare di essere simili a loro, come potremmo diffidare di Dio, e pensare che Egli che è Carità, non possa in forza del suo amore compiacersi in coloro che ama?
Desiderava ardentemente, come l’Apostolo, di venir liberata dal corpo per essere col Cristo, e dal profondo del cuore faceva salire a Dio il suo gemito di implorazione. Il Signore degnò un giorno di consolarla con questa risposta: Ogni qual volta essa, con sincerità di cuore, avesse espresso il desiderio di venir liberata da questo carcere di morte, aderendo però alla volontà di Dio e accettando di rimanere nel corpo finché a Lui piacesse, altrettante volte  il Figlio di Dio le avrebbe applicato i meriti della sua  santissima vita, onde prepararla in questo mirabile modo a comparire al cospetto del Padre suo.
Ripensava un giorno alle numerose e svariate grazie che la liberale misericordia di Dio le aveva elargito, e si riconosceva misera ed indegna di ogni bene per aver sciupato con la sua negligenza innumerevoli doni. Non ne aveva ricavato alcun frutto per sé, non aveva saputo renderne grazie, e d’altra parte il prossimo, che le ignorava, non aveva potuto trarne alcuna edificazione né aiuto per elevarsi ad una più profonda conoscenza di Dio. Fu confortata dal Signore con questa illuminazione. Il Signore non spande i suoi doni sugli eletti perché attenda da ciascun dono un frutto speciale – Egli sa che la fragilità dell’uomo non può esser da tanto – ma perché non può contenere la ricchezza della sua misericordia e della sua liberalità, e vuole in tal modo preparare la creatura alla sovrabbondanza della celeste beatitudine. Suole accadere così anche per i beni terreni di cui qualche volta viene arricchito un bambino: egli non sa trarne per il momento alcuna utilità, ma quando sarà adulto entrerà in possesso di grandi ricchezze. Così il Signore conferendo in questa vita la sua grazia agli eletti, li arricchisce di un bene di cui potranno godere soltanto quando entreranno nel giardino eterno del cielo.
Una volta si doleva in cuor suo di non sentire un desiderio abbastanza grande di lodare il Signore. Una illuminazione soprannaturale le apprese che Dio si accontenta che l’anima, quando non può far di meglio, si applichi a voler avere un grande desiderio del bene: quanto più intensa è questa volontà, tanto più grande è in realtà il suo desiderio agli occhi di Dio. Quando il cuore contiene questo desiderio – Dio si compiace di abitare in esso come l’uomo si compiace di abitare in primavera in un luogo ameno e fiorito.
Una volta, a causa delle sue infermità, aveva per alcuni giorni atteso a Dio con minor diligenza, e, ritornata poi in sé; piena di  rimorso cercava con umile devozione di confessare la sua colpa al Signore. Era presa dal timore di dover sospirare chissà quanto tempo prima di poter di nuovo sperimentare la soavità della grazia di Dio. Ma ecco che in quello stesso momento, si sentì circondata con grande dolcezza dalla misericordia divina che si chinava su di lei e le diceva: «Figliuolina, tu sei sempre con me, e tutto ciò che è mio è tuo». Queste parole le fecero capire che se, per fragilità, l’uomo talvolta trascura di dirigere a Dio la sua intenzione, tuttavia la pia misericordia del Signore non cessa dal giudicare degna di eterna ricompensa ogni sua opera, purché la sua volontà non si allontani da Lui ed egli sia sempre pronto a pentirsi di ogni colpa di cui abbia coscienza.
All’approssimarsi di una certa festa, ebbe il presentimento di una prossima malattia, e pregò il Signore di conservarla in salute fin dopo la solennità, o almeno di far in modo che il male non le impedisse di prender parte alla festa, sottomettendosi però in tutto alla sua volontà divina. «La disposizione d’animo che t’induce a farmi questa preghiera – rispose il Signore – e a rimetterti insieme alla mia volontà, è per me come un giardino di delizie tutto pieno di aiuole fiorite. Ma se ti esaudisco e ti lasci prender parte alla festa, sarò io che ti seguirò verso l’aiuola che preferisci; se invece non ti esaudisco e tu conservi la pazienza, sei tu che segui me verso l’aiuola che più mi piace. Se questo buon desiderio sarà unito in te a un po’ di sofferenza, Io potrò infatti compiacermi in te assai di più che se tu mi esprimessi la tua devozione con la gioia di veder soddisfatto il tuo desiderio».
Si domandava un giorno per qual segreto giudizio alcuni godessero di tanta ricchezza di consolazioni nel servizio di Dio e altri rimanessero invece tanto aridi. Fu così illuminata dal Signore: «Dio ha creato il cuore dell’uomo per la gioia, come la brocca è stata fatta per contenere l’acqua. Se però la brocca perdesse il liquido attraverso impercettibili incrinature, finirebbe per vuotarsi e rimanere asciutta. Allo stesso modo se l’uomo quando ha il cuore pieno di gaudio spirituale lo lascia sfuggire attraverso i sensi esterni, guardando ed ascoltando tutto ciò che gli piace e soddisfacendo tutte le sue inclinazioni, può darsiche lasci svaporare tutto il suo contenuto spirituale, tanto da ridursi a non saper più trovare la sua gioia in Dio».
«Ciascuno può farne l’esperienza in se stesso quando gli viene il desiderio di guardar qualcosa o di dire una parola da cui possa ricavare poco o nessun profitto. Chi segue subito l’impulso naturale dà prova di poco amore per i beni spirituali, e il cuore allora ne  resta privo come resta priva d’acqua la brocca incrinata. Se invece per amor di Dio resiste all’impulso, la gioia spirituale cresce di tanto che il cuore non vale più a contenerla. Chi impara a vincersi in queste cose si avvezza a poco a poco a cercar in Dio le sue delizie, ed esse sono tanto più grandi quanto maggiore sarà stato lo sforzo con cui ha dovuto conquistarle».
Un giorno in cui si sentiva profondamente depressa per una piccola cosa, offrì durante l’elevazione dell’Ostia la sua desolazione al Signore ad eterna sua gloria. Il Signore parve allora attirarla a sé con l’Ostia sacrosanta attraverso ad una misteriosa porta, e la fece dolcemente riposare sul suo petto dicendo: «Ecco, qui troverai sollievo ad ogni tua pena; ma ogni volta chete ne allontanerai, l’amarezza del cuore ti riprenderà e ti servirà da antidoto salutare per richiamarti a Me».
Un giorno, sentendosi spossata di forze, diceva al Signore: «Signore, che cosa succederà? Che disegno hai su di me?». Il Signore rispose: «Come una madre consola i suoi figli, così Io sempre ti consolerò». E aggiunse: «Hai visto qualche volta una madre nell’atto di consolare il suo figliuolino?». Essa tacque, non avendo presente lì per lì alcun ricordo del genere. Il Signore allora le ricordò che, circa sei mesi prima, aveva appunto visto una mamma che consolava il suo bambino, e le fece rilevare tre cose che allora aveva avvertito. Anzitutto la mamma chiedeva spesso al suo bambino di abbracciarla, e il piccino, le cui membra erano ancora tenere e delicate, cercava tuttavia di fare uno sforzo per alzarsi. Allo stesso modo, le disse il Signore, essa doveva fare tutto quanto stava in lei per giungere, attraverso la contemplazione, a godere la dolcezza del suo amore.
In secondo luogo la madre metteva a prova la volontà del suo bambino dicendogli: «Vuoi che faccia così? vuoi che faccia in quest’altro modo?», ma poi non faceva né l’una né l’altra cosa. Così Dio alle volte prova l’uomo mettendogli davanti la possibilità di qualche pena che poi non sopraggiunge, e tuttavia, poiché l’uomo ha fatto un atto di adesione alla sua volontà, il Signore è contento e lo giudica degno di un’eterna ricompensa. Infine le fece osservare che nessuno dei presenti, all’infuori della madre, capiva il linguaggio del bambino che no nera ancora capace di articolare le parole. Così solo Dio comprende l’intenzione dell’uomo e secondo questo lo giudica, ben diversamente da quanto fanno gli uomini che giudicano soltanto dalle apparenze esterne.
Una volta, il ricordo dei suoi peccati passati la coprì di tanta confusione che nella sua umiltà avrebbe voluto nascondersi anche agli occhi di Dio. Ma il Signore si chinò su di lei con  tanta degnazione che tutta la corte celeste, quasi presa da stupore, avrebbe voluto trattenerlo. «Non posso fare a meno, dichiarò il Signore, di chinarmi verso quest’anima che con tanta forza di umiltà attira a sé il mio Cuore divino».
Chiese un giorno al Signore a che cosa desiderava che si applicasse in quel momento: «Voglio che ti applichi alla pazienza». Essa, che era tutta agitata per una certa contrarietà, rispose: «E in che modo e con quale mezzo posso impararla?». Il Signore allora attirandola a sé come un buon maestro fa col suo piccolo discepolo, le propose tre esempi che dovevano animarla a praticar questa virtù: «Osserva con quanta familiarità il Re tratta coloro che, più degli altri, son sempre pronti a seguirlo in ogni impresa; e pensa quanto s’accresca, per conseguenza, il mio affetto per te quando per mio amore sopporti come ho fatto le ingiurie». Poi passò al secondo esempio: «Osserva ancora con quanto rispetto tutti i membri della corte trattino colui che il Re onora della sua particolare amicizia e associa a tutte le sue imprese; e pensa perciò quanta gloria avrai in cielo per la tua pazienza». In terzo luogo le disse: «Considera quanto conforto si trova nell’affettuosa compassione di un amico fedelissimo; e pensa con quanta soave bontà Io ti consolerò in cielo per ogni pena che avrai provata anche solo per un pensiero che ti sia causa di contrarietà».