[S. GERTRUDE] Recitando una volta
in Avvento il responsorio «Ecce veniet Dominus protector noster, sanctus
Israel: ecco verrà il Signore, il nostro protettore, il santo d’Israele» [Ia Domenica
di Avvento], capì che se un’anima, abbandonandosi completamente a Dio, desidera
con tutto il cuore di essere sempre diretta così nella prospera come
nell’avversa fortuna dalla sua santissima volontà, rende a Dio in tal modo
tanto onore e gloria quanta ne procura all’Imperatore colui che gli impone sul
capo la corona a riconoscimento della sua autorità.
Un’altra volta, alle
parole del Profeta Isaia: «Elevare, elevare, consurge Jerusalem: sorgi,
sorgi, Gerusalemme!» (Is 51,17) comprese quali benefici provengono alla Chiesa
militante dalla santità dei suoi eletti. Quando infatti anche una sola anima
piena d’amore si volge al Signore con ardente preghiera e con vivo e sincero
desiderio di riparare, potendo, tutte le offese recate al suo onore, Dio ne
resta tanto placato che qualche volta, riconciliandosi coi peccati, perdona al
mondo intero. Ed è ciò che viene espresso nella parole che seguono: «Usque
ad fundum calicis bibisti: hai bevuto il calice fino in fondo», poiché
allora la severità della giustizia si cambia nella dolcezza della misericordia.
Ma ciò che ancora segue: Potasti usque ad fæces: hai bevuto fino
alla feccia, lascia comprendere che per i dannati cui non spetta che la feccia
della giustizia, non è possibile alcuna redenzione.
U’altra parola di
Isaia: «Glorificaberis, dum non facis vias tuas: sarai glorificato se
non segui le tue inclinazioni» (Is 58,13), le fece intendere che chi fa dei
progetti e poi, riconoscendone la vanità, rinuncia al piacere di attuarli,
consegue un triplice beneficio. Il primo è quello di poter trovare in Dio una
gioia più profonda, come è detto: «Delectaberis in Domino: ti
rallegrerai nel Signore!» (Sal 97,12). Il secondo è quello di sottrarsi più
profondamente all’influsso sei pensieri cattivi, come sta scritto: «Sustollam
te super altitudinem terræ: ti innalzerò al disopra di ogni più alta cima
della terra». Il terzo è quello di ricevere poi dal Figlio di Dio nell’eterna
vita una più piena partecipazione al frutto dei suoi meriti per la nobile e
gloriosa vittoria che avrà riportato sulla tentazione. È detto infatti: «Cibabo
te hæriditate Jacob patris tui: ti ciberò del retaggio di Giacobbe tuo
padre».
In quest’altro testo
di Isaia: «Ecce merces ejus cum eo: egli porta in sé la sua ricompensa»
(Is 62,2), comprese che Dio nel suo amore è Egli stesso il premio dei suoi
eletti. Egli si unisce a loro in un’unione così soave che ciascuno di essi
potrà affermare in tutta verità di essere stato ricompensato immensamente al
disopra di ogni suo merito, come è detto: «Et opus illius coram illo: e
il premio dell’opera sua gli sta dinnanzi».
Comprese ancora che
quando un’anima si affida tutta alla divina Provvidenza e desidera che la
divina Volontà si compia in lei in ogni cosa, essa, per grazia di Dio, appare
già perfetta al di Lui sguardo.
Il testo «Sanctificamini
filii Israel: santificatevi o figli di Israele» [Responsorio della Vigilia
di Natale] le fece comprendere che se un’anima prontamente si pente dei suoi peccati,
deplora di non aver fatto tutto il bene che poteva fare, e propone con
sincerità di cuore di obbedire d’ora innanzi ai precetti di Dio, subito essa
appare santa al suo sguardo come quel lebbroso del Vangelo che il Signore degnò
di purificare dalle sue colpe dicendogli: «Volo, mundare: lo voglio, sii
mondato»(Mt 8,3).
Quest’altra parola
della S. Scrittura: «Cantate Domino canticum novum: cantate al Signore
un cantico nuovo» (Is 42,10), le fece comprendere che canta al Signore un nuovo
cantico colui che conta con grande devozione. Infatti, per la grazia che Dio
gli ha concessa di dirigere verso di Lui la sua attenzione, egli è interamente
rinnovato e reso accetto al Signore.
Ancora: attraverso il
testo di Isaia: «Spiritus Domini super me: lo Spirito del Signore è
sopra di me» (41,1), con quel che segue: «Ut mederer contritos corde:
per consolare i cuori spezzati», essa capì che il Figlio di Dio, mandato dal
Padre per confortare coloro che son nell’afflizione, suole talvolta provare i
suoi eletti con qualche sofferenza, anche lieve ed esteriore, per avere
occasione di aiutarli. E lo fa, non togliendo loro la prova che è stata
occasione della sua venuta e che è in sé un male (anche se il cuore ne soffre),
ma piuttosto portando rimedio a ciò che veramente possa esserci di male in
quell’anima.
Il versetto: «In
splendoribus Sanctorum: nello splendore dei Santi», le diede l’intuizione
dell’immensità e dell’incomprensibilità della luce di Dio. Capì che se ciascuno
dei Santi, da Adamo fino all’ultimo uomo, ne avesse una conoscenza personale,
chiara, profonda e vasta quanto è possibile ad umana creatura, distinta da
quella di ciascuno degli altri Santi – e se per giunta il numero dei Santi
fosse mille e mille volte più grande, la profondità della luce di Dio rimarrebbe
inesausta e infinitamente al disopra di ogni intelligenza creata. Per questa
ragione non sta scritto in splendore: nello splendore, ma «in
splendoribus Sanctorum, ex utero ante luciferum genui te: negli splendori
dei Santi, prima dell’aurora, prima dell’aurora io ti ho generato».
Una volta, nella
festa di un Martire, mentre si cantava l’antifona: «Qui vult venire post me:
chi vuol venire dietro a me», vide il Signore avanzarsi per una strada bella e
fiorita, ma angusta e irta di spine. Lo precedeva una croce che, dividendo le
spine, apriva un comodo passaggio. Il Signore si voltava indietro e con volto
sereno invitava i suoi a seguirlo dicendo: «Qui vult venire post me, abneget
semetipsum et tollat crucem suam et sequatur me: chi vuol venire dietro a
me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua». Essa comprese che per ciascuno la sua
tentazione è la sua croce. Per qualcuno sarà una croce l’obbedienza che gli
impone qualcosa di contrario alla sua inclinazione; per un altro sarà
l’infermità che gli impedisce di occuparsi in cose di suo gradimento, ecc.
Ciascuno pertanto deve prendere la propria croce, sopportando volentieri ciò
che gli riesce contrario e non trascurando nulla, per quanto gli è possibile,
di ciò che può tornare a gloria di Dio.
Il versetto: «Verba
iniquorum, ecc: le parole degli empi», le fece comprendere che se qualcuno
per umana fragilità commette qualche colpa se vien corretto duramente e non
soltanto a parole, l’eccesso di severità provoca la misericordia di Dio ed è
occasione di accrescimento di meriti per chi ha commesso la colpa.
Mentre un giorno si
cantava la Salve Regina, alle parole: «Illos tuos misericordes
oculos ad nos converte: volgi a noi i tuoi occhi misericordiosi», essa
desiderò di ottenere la salute del corpo, e il Signore sorridendo dolcemente le
disse: «Non sai che il mio sguardo si posa su di te pieno di misericordia
quando sei oppressa dalla sofferenza fisica o spirituale?».
Nella festa di alcuni
Martiri, mentre si cantava il responsorio «Viri sancti gloriosum sanguinem
fuderunt: I Santi sparsero il loro sangue glorioso» [dal Comune dei
Martiri], osservò fra sé che, se il sangue ispira ripugnanza, tuttavia, quando
è versato per Cristo, viene esaltato nella Sacra Scrittura. Allo stesso modo
certe trasgressioni materiali della regola che son dovute o all’obbedienza o a
qualche motivo di fraterna carità, piacciono tanto al Signore che ben a ragione
possono anch’esse esser considerate gloriose.
Un’altra volta
comprese che per un occulto giudizio, Iddio permette talvolta che quando un malvagio
con male arti cerca di estorcere un segreto a un suo eletto, riceva una
risposta atta a confermarlo nella sua ostinazione e nella sua malvagità. È ciò
che dice il Profeta Ezechiele: «Chi dà ricetto nel cuore alle sue infamie e fa
buon viso alle occasioni della sua iniquità, e poi venga dal Profeta, volendo
per suo mezzo interrogare me, gli risponderò ben io, il Signore,
rinfacciandogli la moltitudine delle sue infamie affinché senta una stretta al
cuore» (Ez 14,4-5).
Le parole che si
cantano in nome di S. Giovanni: «Haurit virus hic lethale: Egli beve il
veleno mortale» [Dall’antica vita di S. Giovanni e dal responsorio della sua
festa], le fecero capire che, come la virtù della fede preservò Giovanni dagli
effetti del veleno, così il mancato consenso della volontà fa sì che l’anima
resti pura da colpa, per quanto velenosa sia la suggestione che si insinua, suo
malgrado, nel cuore.
Il versetto: «Dignare
Domine die isto: Degnati, o Signore, in questo giorno», fu l’occasione di
un’altra illuminazione. Chi si raccomanda con questa preghiera al Signore per
essere preservato dal peccato, per un occulto giudizio di Dio può anche darsi
che poi si accorga di esser ugualmente caduto in qualche mancanza grave. Però
non accadrà mai che non trovi pronto il sostegno della grazia per aiutarlo a
tornare a Dio e rendergli più facile la penitenza.
Un giorno, mentre si
cantava il responsorio: «Benedicens ergo Deus Noe: Dio benedicendo Noè»
[Responsorio dell’antico breviario monastico per la Domenica di Sessagesima],
essa, quasi in persona di Noè, si presentò davanti al Signore per chiedere la
sua benedizione. Quando l’ebbe ricevuta, le parve che il Signore a sua volta
aspettasse di essere da lei benedetto, e cioè magnificato. Gertrude comprese
allora che l’uomo benedice e cioè santifica Iddio quando si pente di averlo
offeso e implora il suo soccorso per non ricadere nel peccato. Il Signore dei
cieli si china allora verso la sua creatura per mostrare che questa preghiera
gli è gradita come se da essa dipendesse la salvezza del mondo intero.
Le parole: «Ubi
est frater tuus Abel?: dov’è tuo fratello Abele?» (Gen 4,9), le fecero
capire che il Signore chiederà conto a ciascun religioso di ogni mancanza
contro la regola commessa da un suo confratello, qualora egli avesse potuto impedirla
ammonendo il fratello stesso o avvertendo i Superiori. La scusa che si suol
portare: Io non ho avuto l’incarico di correggere gli altri,
oppure: Io son peggio di lui, non vale davanti a Dio più della
risposta di Caino: «Nunquid custos fratis mei sum ego?: sono io forse il
custode di mio fratello?». Davanti a Dio infatti ciascuno è tenuto a ritrarre
dal male il fratello suo e ad esortarlo al bene; ogni volta pertanto che
trascura questo suo dovere di coscienza pecca contro Dio. E poco gli giova
affermare di non avere avuto l’incarico, perché questo incarico gli è stato
dato da Dio in tutta verità come attesta la sua propria coscienza. Se lo
trascura, il Signore ne chiederà conto a lui ancor più che al Superiore, il
quale o non è stato presente al fatto o non l’ha rilevato. Perciò la Scrittura
dice: «Vae facienti , vae, vae, consentienti: guai a chi fa il male, ma
due volte guai a chi vi dà il consenso». Dà il suo consenso al male chi lo
dissimula tacendo, mentre avrebbe potuto, manifestandolo, evitare un’offesa
alla gloria di Dio.
Il responsorio: «Induit
me Dominus: il Signore mi ha rivestita» [Dal Comune delle Vergini secondo
il breviario monastico], le fece capire che chi cerca di promuovere con le
parole e con le azioni la giustizia e l’osservanza religiosa, è come se
rivestisse il Signore di una veste ricchissima. E il Signore lo ricompenserà
nella vita eterna con la liberalità della sua regale munificenza, rivestendolo
a sua volta di una veste di letizia e ponendogli sul capo una corona di gloria.
Comprese ancora che chi nel combattere per il bene e per la religione avrà
sopportato delle avversità, riuscirà particolarmente accetto a Dio, così com’è particolarmente
gradito al povero un indumento che insieme lo veste e lo riscalda. Anche se,
per l’opposizione del malvagio, il suo buon volere e il suo sforzo non fossero
riusciti a nulla, la ricompensa che Dio gli riserva non soffriva alcun
detrimento.
Si cantava una volta
il responsorio: «Vocavit Angelus Domini: l’Angelo del Signore chiamò,
ecc.» [Responsorio della Domenica di Quinquagesima], e comprese un’altra
verità. L’assistenza degli Angeli sarebbe più che sufficiente a proteggere
contro ogni male gli eletti, ma il Signore, nella sua paterna provvidenza,
sospende talvolta la loro protezione e permette che gli eletti siano tentati,
onde poterli poi ricompensare tanto più liberalmente quanto più, per la
sottrazione dell’aiuto angelico, essi han trionfato del male con maggior loro
sforzo.
Il responsorio che
segue: «Vocavit Angelus Domini Abraham: l’Angelo del Signore chiamò
Abramo», l’aiutò a capire che come il Padre dei credenti meritò per la sua fede
di esser trattenuto da un Angelo nel momento in cui stendeva il braccio per
compiere gli ordini del cielo, così il giusto che, per amore di Dio, si sottomette
e si accinge con perfetta buona volontà a compiere un’opera difficile, merita
al momento opportuno di essere sostenuto dalle dolcezze della grazia e
consolato dalla testimonianza della sua coscienza. E questo è il dono col quale
la munifica liberalità di Dio anticipa l’eterna ricompensa che verrà concessa a
ciascuno in proporzione del merito.
Una volta, ripensando
ad alcune avversità incontrate nella vita passata, domandò al Signore perché
avesse permesso a certe persone di molestarla. Il Signore rispose: «Quando la
mano del padre vuol correggere il figlio, la verga non potrebbe opporsi alla
mano. Perciò i miei eletti non dovrebbero mai riferire i mali che soffrono agli
uomini che ne sono lo strumento, ma dovrebbero sempre solo considerare il mio
paterno affetto. Io non permetterei che il minimo soffio d’aria li molestasse
se non avessi di mira la salvezza eterna con cui ricompenserò la loro
sofferenza. Piuttosto dovrebbero compatire coloro che, perseguitandoli,
macchiano la loro propria coscienza. Questo è il loro castigo».
Un giorno, alle prese
con un lavoro difficile, disse all’eterno Padre: «Signore, ti offro questo
lavoro per il tramite del Figlio tuo unigenito, nella virtù del tuo Santo
Spirito, a eterna tua gloria». Capì in quel momento tutta la forza di questa
preghiera. Si rese conto infatti che tale intenzione dà alla cosa offerta un
valore più che umano e la rende gradita a Dio Padre. Come un oggetto guardato
attraverso ad un vetro colorato assume per l’occhio lo stesso colore del vetro,
così un’offerta fatta attraverso l’Unigenito figlio di Dio appare a Dio Padre
sommamente accetta e gradita.
Stando in orazione,
chiese un giorno al Signore che vantaggio ricavavano i suoi amici da tante
preghiere che per essi faceva, dato che non ne vedeva alcun effetto. Il Signore
l’illuminò con questa similitudine: «Quando il figlio, ancora bambino, di un
nobile ritorna dalla corte dell’Imperatore che l’ha investito di un grandissimo
feudo, coloro che lo vedono passare non scorgono in lui che il bambino, e non
si accorgono affatto dell’investitura che farà di lui più tardi un
grande e potente signore. Non ti stupire dunque se non puoi constatare con gli
occhi l’effetto delle tue preghiere, perché Io ne dispongo secondo la mia
eterna sapienza per il tuo maggior bene. Quanto più spesso si prega per
qualcuno, tanto più grande è la felicità che gli si procura. Nessuna preghiera
rimane senza frutto, anche se gli uomini non possono rendersi conto del modo
con cui essa opera».
Desiderò una volta di
capire qual frutto di santità provenga all’anima dallo sforzo di dirigere ogni
suo pensiero a Dio. Ricevette questo insegnamento. Quando l’uomo meditando e
pregando tiene il suo pensiero fisso in Dio, è come se presentasse davanti al
trono della divinità uno specchio tersissimo, nel quale il Signore contempla
con gioia la propria immagine. Infatti è Lui che ispira e dirige tutto ciò che
è bene. L’uomo, per la sua debolezza, incontra talvolta nell’esercizio della
preghiera delle difficoltà, ma quanto più grave è lo sforzo che egli deve fare,
tanto più terso sarà lo specchio che eglipresenta all’adorabile Trinità e a
tutti i Santi. E questo specchio rimarrà in eterno, a gloria di Dio e a perenne
gioia dell’anima.
In una certa festa
non poté prender parte al canto per il suo solito mal di capo. Domandò allora
al Signore perché mai permettesse che questo mal di capo le venisse di
preferenza nei giorni festivi. E il Signore: «Per impedire che, tutta presa dal
piacere del canto, tu diventi meno atta a ricevere le mie grazie». «Ma, Signore
– ella disse – la tua grazia potrebbe preservarmi da questo pericolo». E il
Signore: «Sì, ma riesce di maggior vantaggio all’uomo che l’occasione di una
caduta gli sia tolta dalla prova delle sofferenza, perché in tal caso ha doppio
merito: quello della pazienza e quello dell’umiltà».
Nell’impeto del suo
affetto, un giorno diceva al Signore: «O Signore, se un fuoco ardente potesse
liquefare la sostanza della mia anima, sì da permetterle di potersi più
facilmente trasfondere in Te!». «Sia la tua volontà questo fuoco» le rispose il
Signore. Essa comprese da questa parola che con la sola volontà l’uomo può
conseguire il pieno effetto di tutti i desideri che hanno Dio per oggetto
[sempre supponendo che nulla possiamo di buono senza la grazia di Dio]
Cercava spesso di
ottenere da Dio con la preghiera l’estirpazione di qualche vizio in sé o negli
altri; e le pareva che il miglior modo in cui Dio poteva concederle questa
grazia fosse quello di indebolire la forza degli abiti cattivi, perché allora,
tenuta a freno da una specie di necessità che risulta dalla consuetudine e che
è chiamata una seconda natura, l’anima può facilmente resistere al male. Ma
riconobbe poi anche in ciò un’ammirabile disposizione della divina bontà a
salvezza del genere umano. Per accrescere l’eterno peso di gloria delle anime,
Dio permette che esse siano talvolta violentemente attaccate dalla
tentazione affinché possano esultare di un più felice trionfo.
Durante una predica,
intese dire una volta che nessuno si salva senza l’amore di Dio, almeno senza
quel minimo grado di amore verso Dio che induce a pentirsi dei peccati per amor
suo e ad emendarsene. Essa pensò fra sé che molti se ne vanno da questo mondo
pentiti dei loro peccati più per il timore dell’inferno che per amore di Dio.
ma il Signore le disse: «Quando vedo in agonia un’anima che qualche volta ha
pensato con dolcezza a Me durante la sua vita, o che ha compiuto qualche opera
buona almeno nei suoi ultimi giorni, Io mi mostro a lei con tanta bontà e
misericordia che essa si pente dal profondo del cuore di avermi in passato
offeso, e questo pentimento la salva. Vorrei che i miei eletti mi rendessero
particolari azioni di grazie per tale beneficio».
Una volta, meditando
su stessa, fu così colpita dalla propria interiore deformità e ne provò tanto
disgusto, che con ansia cominciò a chiedersi se potesse mai riuscire accetta a
Dio che vedeva la sua anima macchiata di tante colpe. Essa ne vedeva infatti qualcuna,
ma per lo sguardo penetrante di Dio esse erano innumerevoli. Il Signore le
diede questa consolante risposta: «È l’amore che mi rende accette le anime».
Capì allora che se, sulla terra, l’amore ha tanta forza da rendere amabili
anche esseri deformi, tanto da far persino desiderare di essere simili a loro,
come potremmo diffidare di Dio, e pensare che Egli che è Carità, non possa in
forza del suo amore compiacersi in coloro che ama?
Desiderava
ardentemente, come l’Apostolo, di venir liberata dal corpo per essere col
Cristo, e dal profondo del cuore faceva salire a Dio il suo gemito di
implorazione. Il Signore degnò un giorno di consolarla con questa risposta:
Ogni qual volta essa, con sincerità di cuore, avesse espresso il desiderio di
venir liberata da questo carcere di morte, aderendo però alla volontà di Dio e
accettando di rimanere nel corpo finché a Lui piacesse, altrettante volte
il Figlio di Dio le avrebbe applicato i meriti della sua santissima vita,
onde prepararla in questo mirabile modo a comparire al cospetto del Padre suo.
Ripensava un giorno
alle numerose e svariate grazie che la liberale misericordia di Dio le aveva
elargito, e si riconosceva misera ed indegna di ogni bene per aver sciupato con
la sua negligenza innumerevoli doni. Non ne aveva ricavato alcun frutto per sé,
non aveva saputo renderne grazie, e d’altra parte il prossimo, che le ignorava,
non aveva potuto trarne alcuna edificazione né aiuto per elevarsi ad una più
profonda conoscenza di Dio. Fu confortata dal Signore con questa illuminazione.
Il Signore non spande i suoi doni sugli eletti perché attenda da ciascun dono
un frutto speciale – Egli sa che la fragilità dell’uomo non può esser da
tanto – ma perché non può contenere la ricchezza della sua misericordia e della
sua liberalità, e vuole in tal modo preparare la creatura alla sovrabbondanza
della celeste beatitudine. Suole accadere così anche per i beni terreni di cui
qualche volta viene arricchito un bambino: egli non sa trarne per il momento
alcuna utilità, ma quando sarà adulto entrerà in possesso di grandi ricchezze.
Così il Signore conferendo in questa vita la sua grazia agli eletti, li
arricchisce di un bene di cui potranno godere soltanto quando entreranno nel
giardino eterno del cielo.
Una volta si doleva
in cuor suo di non sentire un desiderio abbastanza grande di lodare il Signore.
Una illuminazione soprannaturale le apprese che Dio si accontenta che l’anima,
quando non può far di meglio, si applichi a voler avere un grande desiderio del
bene: quanto più intensa è questa volontà, tanto più grande è in realtà il suo
desiderio agli occhi di Dio. Quando il cuore contiene questo desiderio – Dio si
compiace di abitare in esso come l’uomo si compiace di abitare in primavera in
un luogo ameno e fiorito.
Una volta, a causa delle
sue infermità, aveva per alcuni giorni atteso a Dio con minor diligenza, e,
ritornata poi in sé; piena di rimorso cercava con umile devozione di
confessare la sua colpa al Signore. Era presa dal timore di dover sospirare
chissà quanto tempo prima di poter di nuovo sperimentare la soavità della
grazia di Dio. Ma ecco che in quello stesso momento, si sentì circondata con
grande dolcezza dalla misericordia divina che si chinava su di lei e le diceva:
«Figliuolina, tu sei sempre con me, e tutto ciò che è mio è tuo». Queste parole
le fecero capire che se, per fragilità, l’uomo talvolta trascura di
dirigere a Dio la sua intenzione, tuttavia la pia misericordia del Signore non
cessa dal giudicare degna di eterna ricompensa ogni sua opera, purché la sua
volontà non si allontani da Lui ed egli sia sempre pronto a pentirsi di ogni
colpa di cui abbia coscienza.
All’approssimarsi di
una certa festa, ebbe il presentimento di una prossima malattia, e pregò il
Signore di conservarla in salute fin dopo la solennità, o almeno di far in modo
che il male non le impedisse di prender parte alla festa, sottomettendosi però
in tutto alla sua volontà divina. «La disposizione d’animo che t’induce a farmi
questa preghiera – rispose il Signore – e a rimetterti insieme alla mia volontà,
è per me come un giardino di delizie tutto pieno di aiuole fiorite. Ma se ti
esaudisco e ti lasci prender parte alla festa, sarò io che ti seguirò verso l’aiuola
che preferisci; se invece non ti esaudisco e tu conservi la pazienza, sei tu
che segui me verso l’aiuola che più mi piace. Se questo buon desiderio sarà
unito in te a un po’ di sofferenza, Io potrò infatti compiacermi in te assai di
più che se tu mi esprimessi la tua devozione con la gioia di veder soddisfatto
il tuo desiderio».
Si domandava un
giorno per qual segreto giudizio alcuni godessero di tanta ricchezza di
consolazioni nel servizio di Dio e altri rimanessero invece tanto aridi. Fu
così illuminata dal Signore: «Dio ha creato il cuore dell’uomo per la gioia,
come la brocca è stata fatta per contenere l’acqua. Se però la brocca perdesse
il liquido attraverso impercettibili incrinature, finirebbe per vuotarsi e
rimanere asciutta. Allo stesso modo se l’uomo quando ha il cuore pieno di
gaudio spirituale lo lascia sfuggire attraverso i sensi esterni, guardando ed
ascoltando tutto ciò che gli piace e soddisfacendo tutte le sue inclinazioni,
può darsiche lasci svaporare tutto il suo contenuto spirituale, tanto da
ridursi a non saper più trovare la sua gioia in Dio».
«Ciascuno può farne
l’esperienza in se stesso quando gli viene il desiderio di guardar qualcosa o
di dire una parola da cui possa ricavare poco o nessun profitto. Chi segue
subito l’impulso naturale dà prova di poco amore per i beni spirituali, e il
cuore allora ne resta privo come resta priva d’acqua la brocca incrinata.
Se invece per amor di Dio resiste all’impulso, la gioia spirituale cresce di
tanto che il cuore non vale più a contenerla. Chi impara a vincersi in queste
cose si avvezza a poco a poco a cercar in Dio le sue delizie, ed esse sono
tanto più grandi quanto maggiore sarà stato lo sforzo con cui ha dovuto
conquistarle».
Un giorno in cui si
sentiva profondamente depressa per una piccola cosa, offrì durante l’elevazione
dell’Ostia la sua desolazione al Signore ad eterna sua gloria. Il Signore parve
allora attirarla a sé con l’Ostia sacrosanta attraverso ad una misteriosa
porta, e la fece dolcemente riposare sul suo petto dicendo: «Ecco, qui troverai
sollievo ad ogni tua pena; ma ogni volta chete ne allontanerai, l’amarezza del
cuore ti riprenderà e ti servirà da antidoto salutare per richiamarti a Me».
Un giorno, sentendosi
spossata di forze, diceva al Signore: «Signore, che cosa succederà? Che disegno
hai su di me?». Il Signore rispose: «Come una madre consola i suoi figli, così
Io sempre ti consolerò». E aggiunse: «Hai visto qualche volta una madre
nell’atto di consolare il suo figliuolino?». Essa tacque, non avendo presente
lì per lì alcun ricordo del genere. Il Signore allora le ricordò che, circa sei
mesi prima, aveva appunto visto una mamma che consolava il suo bambino, e le
fece rilevare tre cose che allora aveva avvertito. Anzitutto la mamma chiedeva
spesso al suo bambino di abbracciarla, e il piccino, le cui membra erano
ancora tenere e delicate, cercava tuttavia di fare uno sforzo per alzarsi. Allo
stesso modo, le disse il Signore, essa doveva fare tutto quanto stava in lei
per giungere, attraverso la contemplazione, a godere la dolcezza del suo amore.
In secondo luogo la
madre metteva a prova la volontà del suo bambino dicendogli: «Vuoi che faccia
così? vuoi che faccia in quest’altro modo?», ma poi non faceva né l’una né
l’altra cosa. Così Dio alle volte prova l’uomo mettendogli davanti la
possibilità di qualche pena che poi non sopraggiunge, e tuttavia, poiché l’uomo
ha fatto un atto di adesione alla sua volontà, il Signore è contento e lo
giudica degno di un’eterna ricompensa. Infine le fece osservare che nessuno dei
presenti, all’infuori della madre, capiva il linguaggio del bambino che no nera
ancora capace di articolare le parole. Così solo Dio comprende l’intenzione
dell’uomo e secondo questo lo giudica, ben diversamente da quanto fanno gli
uomini che giudicano soltanto dalle apparenze esterne.
Una volta, il ricordo
dei suoi peccati passati la coprì di tanta confusione che nella sua umiltà
avrebbe voluto nascondersi anche agli occhi di Dio. Ma il Signore si chinò su
di lei con tanta degnazione che tutta la corte celeste, quasi presa da
stupore, avrebbe voluto trattenerlo. «Non posso fare a meno, dichiarò il Signore,
di chinarmi verso quest’anima che con tanta forza di umiltà attira a sé il mio
Cuore divino».
Chiese un giorno al
Signore a che cosa desiderava che si applicasse in quel momento: «Voglio che ti
applichi alla pazienza». Essa, che era tutta agitata per una certa contrarietà,
rispose: «E in che modo e con quale mezzo posso impararla?». Il Signore allora
attirandola a sé come un buon maestro fa col suo piccolo discepolo, le propose
tre esempi che dovevano animarla a praticar questa virtù: «Osserva con quanta familiarità
il Re tratta coloro che, più degli altri, son sempre pronti a seguirlo in ogni
impresa; e pensa quanto s’accresca, per conseguenza, il mio affetto per te
quando per mio amore sopporti come ho fatto le ingiurie». Poi passò al
secondo esempio: «Osserva ancora con quanto rispetto tutti i membri della corte
trattino colui che il Re onora della sua particolare amicizia e associa a tutte
le sue imprese; e pensa perciò quanta gloria avrai in cielo per la tua
pazienza». In terzo luogo le disse: «Considera quanto conforto si trova
nell’affettuosa compassione di un amico fedelissimo; e pensa con quanta soave
bontà Io ti consolerò in cielo per ogni pena che avrai provata anche solo per
un pensiero che ti sia causa di contrarietà».