IL senso teologico della liturgia
venerdì 27 luglio 2012
Nell’anno della fede e per la nuova evangelizzazione è necessaria una forte ripresa del fondamento teologico della liturgia pastorale
«Alla vigilia del Concilio, infatti, appariva sempre più viva in campo liturgico l’urgenza di una riforma, postulata anche dalle richieste avanzate dai vari episcopati…Inoltre, si rivelava chiara fin dall’inizio la necessità di studiare in modo approfondito ilfondamento teologico della Liturgia, per evitare di cadere nel ritualismo o di favorire il soggettivismo, il protagonismo del celebrante e affinché la riforma fosse ben giustificata nell’ambito della Rivelazione divina e in continuità con la tradizione della Chiesa» [Benedetto XVI, Discorso al pontificio istituto liturgico, 7 maggio 2011].
Importante il connubio tra storia, teologia e pastorale della liturgia. Ma occorre rilevare che la storia della liturgia, indispensabile e preziosa, potrebbe però tendere anche verso l’archeologismo liturgico, per il quale si vorrebbe una dimensione rituale del tutto identica alle origini, con la mancanza di un dinamismo a scapito degli sviluppi successivi nella continuità o Tradizione viva. Il cammino della Chiesa cioè della persona viva del Risorto presente tra i suoi con una ontologia sacramentale soprattutto quando convengono nella preghiera liturgica con il dono del Suo Spirito, non solo memorizza nel presente ma spinge in avanti: non posso fare riferimento alla tradizione della Chiesa assolutizzando un momento. Ritornare alla forma classica romana antica è certo un buon criterio per comprendere i riti nelle loro linee essenziali e primarie e valutare il senso dello sviluppo e il valore degli elementi di sviluppo. Tuttavia una ‘mitizzazione’ dell’epoca antica potrebbe negare la legittimità a sviluppi nella continuità altrettanto necessari e oggi irrinunciabili nella crescita organica del complesso rituale. Fu un pericolo, comprensibile e reale, che portò a una spogliazione talvolta eccessiva. Anche la forte considerazione pastorale può aver spinto, insieme alle legittime esigenze consone con l’intento fondamentale della riforma di ridonare al popolo la liturgia, a non tener conto la tradizione contenuta in forme specifiche consacrate dall’uso dottrinale e liturgico e non facilmente sostituibili. La ricerca di moduli simbolici, gestuali e linguistici conformi alle culture odierne antimetafisiche e quindi incapaci di comprendere l’ontologia sacramentale e l’accentuazione di quei contenuti psicologici e sociali che toccano con maggior immediatezza la sensibilità dell’uomo d’oggi ha prodotto certamente una grande sforzo pastorale, ma a prezzo, talvolta, di un impoverimento o un oscuramento dell’immensa ricchezza liturgica fluente nei secoli. Potrebbe essersi verificato, insomma, in taluni momenti della riforma e certamente nella sua attuazione pratica, una specie di cortocircuito tra storia liturgica e pastorale liturgica, senza un passaggio altrettanto robusto attraverso la teologia liturgica. I Padri Conciliari nell’elaborare la Sacrosanctum Concilium avevano sottomano Il Senso teologico della liturgia di Vagaggini. La teologia liturgica in realtà è quella che consente di individuare la legittimità degli sviluppi secolari, distinguendo quelli dottrinalmente coerenti e conforma alla continuità dinamica della Tradizione apostolica, da quelli incoerenti e difformi dal dogma della fede, e dalla sua espressione organica, coerente e progressiva. Non tutto ciò che avvenne nella storia dei riti fu anche sempre nobile e mirabile. Vi furono epoche di decadenza, come oggi accade per il fondamento teologico di tutta la pastorale, e la liturgia ne subì l’influsso. Occorre oggi ridare fiato al fondamento teologico di tutta la pastorale, a cominciare dalla liturgia, ritornare allo spirito della liturgia, come direbbe Benedetto XVI. E questo per evitare gli scogli sia dell’archeologismo, che fa della liturgia un museo dell’antichità, della riforma tridentina, di san Pio X senza nessuna possibilità di sviluppo, sia del pastoralismo, che spinge la liturgia verso una tale attualizzazione in luoghi e ambienti che spinge la liturgia verso una tale attualizzazione da dissolversi nell’invenzione.
Importante il connubio tra storia, teologia e pastorale della liturgia. Ma occorre rilevare che la storia della liturgia, indispensabile e preziosa, potrebbe però tendere anche verso l’archeologismo liturgico, per il quale si vorrebbe una dimensione rituale del tutto identica alle origini, con la mancanza di un dinamismo a scapito degli sviluppi successivi nella continuità o Tradizione viva. Il cammino della Chiesa cioè della persona viva del Risorto presente tra i suoi con una ontologia sacramentale soprattutto quando convengono nella preghiera liturgica con il dono del Suo Spirito, non solo memorizza nel presente ma spinge in avanti: non posso fare riferimento alla tradizione della Chiesa assolutizzando un momento. Ritornare alla forma classica romana antica è certo un buon criterio per comprendere i riti nelle loro linee essenziali e primarie e valutare il senso dello sviluppo e il valore degli elementi di sviluppo. Tuttavia una ‘mitizzazione’ dell’epoca antica potrebbe negare la legittimità a sviluppi nella continuità altrettanto necessari e oggi irrinunciabili nella crescita organica del complesso rituale. Fu un pericolo, comprensibile e reale, che portò a una spogliazione talvolta eccessiva. Anche la forte considerazione pastorale può aver spinto, insieme alle legittime esigenze consone con l’intento fondamentale della riforma di ridonare al popolo la liturgia, a non tener conto la tradizione contenuta in forme specifiche consacrate dall’uso dottrinale e liturgico e non facilmente sostituibili. La ricerca di moduli simbolici, gestuali e linguistici conformi alle culture odierne antimetafisiche e quindi incapaci di comprendere l’ontologia sacramentale e l’accentuazione di quei contenuti psicologici e sociali che toccano con maggior immediatezza la sensibilità dell’uomo d’oggi ha prodotto certamente una grande sforzo pastorale, ma a prezzo, talvolta, di un impoverimento o un oscuramento dell’immensa ricchezza liturgica fluente nei secoli. Potrebbe essersi verificato, insomma, in taluni momenti della riforma e certamente nella sua attuazione pratica, una specie di cortocircuito tra storia liturgica e pastorale liturgica, senza un passaggio altrettanto robusto attraverso la teologia liturgica. I Padri Conciliari nell’elaborare la Sacrosanctum Concilium avevano sottomano Il Senso teologico della liturgia di Vagaggini. La teologia liturgica in realtà è quella che consente di individuare la legittimità degli sviluppi secolari, distinguendo quelli dottrinalmente coerenti e conforma alla continuità dinamica della Tradizione apostolica, da quelli incoerenti e difformi dal dogma della fede, e dalla sua espressione organica, coerente e progressiva. Non tutto ciò che avvenne nella storia dei riti fu anche sempre nobile e mirabile. Vi furono epoche di decadenza, come oggi accade per il fondamento teologico di tutta la pastorale, e la liturgia ne subì l’influsso. Occorre oggi ridare fiato al fondamento teologico di tutta la pastorale, a cominciare dalla liturgia, ritornare allo spirito della liturgia, come direbbe Benedetto XVI. E questo per evitare gli scogli sia dell’archeologismo, che fa della liturgia un museo dell’antichità, della riforma tridentina, di san Pio X senza nessuna possibilità di sviluppo, sia del pastoralismo, che spinge la liturgia verso una tale attualizzazione in luoghi e ambienti che spinge la liturgia verso una tale attualizzazione da dissolversi nell’invenzione.
E’ in questa completa prospettiva che la Chiesa oggi con serena e grata esultanza recupera alcune forme medioevali del culto eucaristico, del realismo ontologico tridentino della dimensione sacrificale e della presenza reale nell’eucaristia, che non furono esplicitate nel primo millennio, ma il mistero, l’ontologia sacramentale, a esse sotteso fu sempre creduto e vissuto fin dalle origini apostoliche.
Analogo discorso per il realismo ontologico tridentino della Messa come Sacrificio, dell’altare non riducibile a mensa, della prece eucaristica celebrata in silenzio da chi agisce in persona Christi, trovano la loro legittimazione nella teologia sacrificale, che è parte ineliminabile, anzi centrale, di una vera e completa teologia liturgica. E sarà sulla base della teologia liturgica che si potranno prospettare, con l’apporto sia oggi della forma extra ordina e ordinaria dell’unico rito romano nuovi sviluppi unitari del rito, come già avvenne mediante la dottrina espressa sia nella Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium e in modo ancora più esteso nell’ecclesiologia sacramentale della Lumen gentium. In questa superiore sintesi, nella quale la teologia ritorna ad essere il fondamento sia della pastorale in generale, sia della pastorale liturgica, potranno preparare quegli sviluppi ulteriori che l’itinerario vivo del popolo di Dio, per la presenza in esso del Risorto con il dono del suo Spirito, potranno maturare.
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«Sono ugualmente errati l’archeologismo e il pragmatismo pastorale. I due si potrebbero definire come una fatale coppia di gemelli. I liturgisti della prima generazione erano prevalentemente degli storici. Erano quindi inclini all’archeologismo: essi volevano dissotterrare la forma più antica nella sua purezza; consideravano gli attuali libri liturgici, con i riti ivi prescritti, come espressione di escrescenze storiche, prodotte da equivoci e da ignoranza del passato. Si cercava di ricostruire la più antica liturgia romana e di ripulirla da tutti gli aggiuntivi posteriori. In questo vi era qualcosa di giusto, ma la riforma liturgica è tuttavia qualcosa di diverso da una attività archeologica, e non ogni sviluppo di ciò che è vivo deve seguire logicamente un criterio razionalistico – storicistico. Questo è anche il motivo per cui l’ultima parola nella riforma liturgica non deve spettare agli esperti. Esperti e pastori hanno gli uni come gli altri una loro propria funzione (come nella politica specialisti e responsabili delle decisioni rappresentano due piani diversi)» [J. Ratzinger, Opera omnia, pp. 791 – 792].
“Si possono individuare – don Enrico Finotti Vaticano II 50 anni dopo, pp. 381 – 383 – molti sintomi che rivelano che i sacramenti non abbiano un’equilibrata integrazione e ancor meno il loro primato in settori importanti della pastorale ecclesiale e nel tessuto della vita del cristiano:
- il facile rimando nel tempo del battesimo dei bambini che si traduce in una esorbitante attesa, oppure, nel caso peggiore, in una negazione di tale sacramento in vista di una richiesta consapevole nell’età adulta:
«Fin da piccoli, i bambini hanno bisogno di Dio, perché ogni uomo dall’inizio ha bisogno di Dio, ed hanno la capacità di percepire la sua grandezza; sanno apprezzare il valore della preghiera – del parlare con questo Dio – e dei riti, così come intuire la differenza fra il bene e il male. Sappiate, allora, accompagnarli nella fede, in questa conoscenza di Dio, in questa amicizia con Dio, in questa differenza fra il bene e il male. Accompagnateli nella fede sin dalla più tenera età. E come coltivare il germe della vita eterna a mano a mano che il bambino cresce? San Cipriano ci ricorda: ‘Nessuno può avere Dio per Padre, se non ha la Chiesa per Madre’» [Benedetto XVI, Discorso a san Giovanni in Laterano, 15 giugno 2011].
- L’eccessiva considerazione del ruolo della catechesi (senza la preminenza fondamentale dell’avvenimento dell’incontro sacramentale con la persona viva del Risorto) e delle mutevoli ipotesi metodologiche tende a ritardare il più possibile sia la recezione della prima Confessione e della prima Comunione, sia della Confermazione: si nota una tendenza tipica dell’errore giansenista, già superato dal decreto Quam singulari (1910) di S. Pio X, secondo il quale l’efficacia dell’azione formativa umana è ritenuta di fatto superiore a quella dell’azione sacramentale della grazia, che non accompagna il cammino, ma lo corona soltanto;
- L’estensione sproporzionata del carattere didascalico della liturgia della Parola della Messa, rispetto alla celebrazione troppo breve, veloce e subito terminata della successiva liturgia sacrificale e sacramentale, ridotta talvolta ad una questione di orologio;
- L’acquiescenza verso la convivenza come esperienza previa al matrimonio: il sacramento è prospettato in un futuro che mai arriva ed è inteso come coronamento di un itinerario, piuttosto che come base iniziale di un edificio quale è la famiglia cristiana, che Cristo stesso edifica con la sua grazia;
- L’impostazione pastorale della parrocchia a prevalente carattere umanitario, nella quale i sacramenti e la liturgia tendono alla marginalità in favore di attività a forte impatto sociologico, culturale e folcloristico: si pensi a talune feste patronali in cui la predicazione, la preghiera, la degna recezione dei sacramenti e la centralità della liturgia sono sommerse da programmi solidaristici, sportivi, musicali e ricreativi;
- La riduzione della missione a promozione umana, sia promuovendo l’impegno caritativo senza la connessione ai sacramenti, sia rapportandosi col mondo sui soli valori condivisi, senza mai giungere a un annunzio esplicito di Cristo e all’incontro con la celebrazione sacramentale della sua opera di salvezza.
All’inizio degli anni settanta c’è stata una giusta valutazione critica verso unasacramentalizzazione formale, senza l’accompagnamento mirato alle concrete persone e alla loro coscienza e libera accoglienza attraverso l’ascolto della Parola di Dio. Ma oggi c’è il rischio dell’oblio della fondamentale centralità dell’ontologia sacramentale, fondamento della fede e quindi della moralità conseguente come della nuova evangelizzazione..
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