ACTIONES NOSTRAS, QUÆSUMUS, DOMINE, ASPIRANDO PRÆVENI
Paolo Veronese "Allegoria della battaglia di Lepanto" |
"Dignare me laudare Te Virgo sacrata. Da mihi virtutem contra hostes tuos". "Corda Iésu et Marìae Sacratìssima: Nos benedìcant et custòdiant".
Paolo Veronese "Allegoria della battaglia di Lepanto" |
Sì, vogliamo ringraziarti, Vergine Madre di Dio e Madre nostra amatissima, per la tua intercessione in favore della Chiesa. Tu, che abbracciando senza riserve la volontà divina, ti sei consacrata con ogni tua energia alla persona e all’opera del Figlio tuo, insegnaci a serbare nel cuore e a meditare in silenzio, come hai fatto Tu, i misteri della vita di Cristo. Tu, che avanzasti sino al Calvario, sempre profondamente unita al Figlio tuo, che sulla croce ti donò come madre al discepolo Giovanni, fa’ che ti sentiamo sempre anche noi vicina in ogni istante dell’esistenza, soprattutto nei momenti di oscurità e di prova. Tu, che nella Pentecoste, insieme con gli Apostoli in preghiera, implorasti il dono dello Spirito Santo per la Chiesa nascente, aiutaci a perseverare nella fedele sequela di Cristo. A Te volgiamo fiduciosi lo sguardo, come a "segno di sicura speranza e di consolazione, fino a quando non verrà il giorno del Signore" (n. 68). Te, Maria, invocano con preghiera insistente i fedeli di ogni parte del mondo perché, esaltata in cielo fra gli angeli e i santi, interceda per noi presso il Figlio tuo "fin tanto che tutte le famiglie dei popoli, sia quelle insignite del nome cristiano, sia quelle che ancora ignorano il loro Salvatore, in pace e concordia siano felicemente riunite in un solo popolo di Dio, a gloria della santissima e indivisibile Trinità" . AMDG et D.V.MARIAE |
OMELIA
DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
Basilica Vaticana
Sabato Santo, 7 aprile 2007
Cari fratelli e sorelle!
Dai tempi più antichi la liturgia del giorno di Pasqua comincia
con le parole: Resurrexi et adhuc tecum sum – sono risorto e
sono sempre con te; tu hai posto su di me la tua mano. La liturgia vi vede la
prima parola del Figlio rivolta al Padre dopo la risurrezione, dopo il ritorno
dalla notte della morte nel mondo dei viventi. La mano del Padre lo ha sorretto
anche in questa notte, e così Egli ha potuto rialzarsi, risorgere.
La parola è tratta dal Salmo 138 e lì ha inizialmente un
significato diverso. Questo Salmo è un canto di meraviglia per l’onnipotenza e
l’onnipresenza di Dio, un canto di fiducia in quel Dio che non ci lascia mai
cadere dalle sue mani. E le sue mani sono mani buone. L’orante immagina un
viaggio attraverso tutte le dimensioni dell’universo – che cosa gli accadrà?
“Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti. Se prendo le ali
dell’aurora per abitare all’estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e
mi afferra la tua destra. Se dico: «Almeno l’oscurità mi copra…», nemmeno le
tenebre per te sono oscure … per te le tenebre sono come luce” (Sal 138
[139],8-12).
Nel giorno di Pasqua la Chiesa ci dice: Gesù Cristo ha
compiuto per noi questo viaggio attraverso le dimensioni dell’universo.
Nella Lettera agli Efesini leggiamo che Egli è disceso nelle
regioni più basse della terra e che Colui che è disceso è il medesimo che è
anche asceso al di sopra di tutti i cieli per riempire l’universo (cfr 4,9s).
Così la visione del Salmo è diventata realtà. Nell’oscurità impenetrabile della
morte Egli è entrato come luce – la notte divenne luminosa come il giorno, e le
tenebre divennero luce. Perciò la Chiesa giustamente può considerare la
parola di ringraziamento e di fiducia come parola del Risorto rivolta al Padre:
“Sì, ho fatto il viaggio fin nelle profondità estreme della terra, nell’abisso
della morte e ho portato la luce; e ora sono risorto e sono per sempre
afferrato dalle tue mani”. Ma questa parola del Risorto al Padre è diventata
anche una parola che il Signore rivolge a noi: “Sono risorto e ora sono sempre
con te”, dice a ciascuno di noi. La mia mano ti sorregge. Ovunque tu possa cadere,
cadrai nelle mie mani. Sono presente perfino alla porta della morte. Dove
nessuno può più accompagnarti e dove tu non puoi portare niente, là ti aspetto
io e trasformo per te le tenebre in luce.
Questa parola del Salmo, letta come colloquio del Risorto con noi,
è allo stesso tempo una spiegazione di ciò che succede nel Battesimo. Il
Battesimo, infatti, è più di un lavacro, di una purificazione. È più
dell’assunzione in una comunità. È una nuova nascita. Un nuovo inizio della
vita. Il passo della Lettera ai Romani, che abbiamo appena
ascoltato, dice con parole misteriose che nel Battesimo siamo stati “innestati”
nella somiglianza con la morte di Cristo. Nel Battesimo ci doniamo a Cristo –
Egli ci assume in sé, affinché poi non viviamo più per noi stessi, ma grazie a
Lui, con Lui e in Lui; affinché viviamo con Lui e così per gli altri. Nel
Battesimo abbandoniamo noi stessi, deponiamo la nostra vita nelle sue mani,
così da poter dire con san Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in
me”. Se in questo modo ci doniamo, accettando una specie di morte del nostro
io, allora ciò significa anche che il confine tra morte e vita diventa
permeabile. Al di qua come al di là della morte siamo con Cristo e per questo,
da quel momento in avanti, la morte non è più un vero confine. Paolo ce lo dice
in modo molto chiaro nella sua Lettera ai Filippesi: “Per me il
vivere è Cristo. Se posso essere presso di Lui (cioè se muoio) è un guadagno.
Ma se rimango in questa vita, posso ancora portare frutto. Così sono messo alle
strette tra queste due cose: essere sciolto – cioè essere giustiziato – ed
essere con Cristo, sarebbe assai meglio; ma rimanere in questa vita è più
necessario per voi” (cfr 1,21ss). Di qua e di là del confine della morte egli è
con Cristo – non esiste più una vera differenza. Sì, è vero: “Alle spalle e di
fronte tu mi circondi. Sempre sono nelle tue mani”. Ai Romani Paolo ha scritto:
“Nessuno … vive per se stesso e nessuno muore per se stesso … sia che viviamo,
sia che moriamo, siamo … del Signore” (Rm 14,7s).
Cari battezzandi, è questa la novità del Battesimo: la nostra vita
appartiene a Cristo, non più a noi stessi. Ma proprio per questo non siamo soli
neppure nella morte, ma siamo con Lui che vive sempre. Nel Battesimo, insieme
con Cristo, abbiamo già fatto il viaggio cosmico fin nelle profondità della
morte. Accompagnati da Lui, anzi, accolti da Lui nel suo amore, siamo liberi
dalla paura. Egli ci avvolge e ci porta, ovunque andiamo – Egli che è la Vita
stessa.
Ritorniamo ancora alla notte del Sabato Santo. Nel Credo professiamo
circa il cammino di Cristo: “Discese agli inferi”. Che cosa accadde allora?
Poiché non conosciamo il mondo della morte, possiamo figurarci questo processo
del superamento della morte solo mediante immagini che rimangono sempre poco
adatte. Con tutta la loro insufficienza, tuttavia, esse ci aiutano a capire
qualcosa del mistero. La liturgia applica alla discesa di Gesù nella notte
della morte la parola del Salmo 23 [24]: “Sollevate, porte, i
vostri frontali, alzatevi, porte antiche!” La porta della morte è chiusa,
nessuno può tornare indietro da lì. Non c’è una chiave per questa porta ferrea.
Cristo, però, ne possiede la chiave. La sua Croce spalanca le porte della
morte, le porte irrevocabili. Esse ora non sono più invalicabili. La sua Croce,
la radicalità del suo amore è la chiave che apre questa porta. L’amore di Colui
che, essendo Dio, si è fatto uomo per poter morire – questo amore ha la forza
per aprire la porta. Questo amore è più forte della morte. Le icone pasquali
della Chiesa orientale mostrano come Cristo entra nel mondo dei morti. Il suo
vestito è luce, perché Dio è luce. “La notte è chiara come il giorno, le
tenebre sono come luce” (cfr Sal 138 [139],12). Gesù che entra
nel mondo dei morti porta le stimmate: le sue ferite, i suoi patimenti sono
diventati potenza, sono amore che vince la morte. Egli incontra Adamo e tutti
gli uomini che aspettano nella notte della morte. Alla loro vista si crede
addirittura di udire la preghiera di Giona: “Dal profondo degli inferi ho gridato,
e tu hai ascoltato la mia voce” (Gio 2,3). Il Figlio di Dio
nell’incarnazione si è fatto una cosa sola con l’essere umano – con Adamo. Ma
solo in quel momento, in cui compie l’atto estremo dell’amore discendendo nella
notte della morte, Egli porta a compimento il cammino dell’incarnazione.
Mediante il suo morire Egli prende per mano Adamo, tutti gli uomini in attesa e
li porta alla luce.
Ora, tuttavia, si può domandare: Ma che cosa significa questa
immagine? Quale novità è lì realmente accaduta per mezzo di Cristo? L’anima
dell’uomo, appunto, è di per sé immortale fin dalla creazione – che cosa di
nuovo ha portato Cristo? Sì, l’anima è immortale, perché l’uomo in modo
singolare sta nella memoria e nell’amore di Dio, anche dopo la sua caduta. Ma
la sua forza non basta per elevarsi verso Dio. Non abbiamo ali che potrebbero
portarci fino a tale altezza. E tuttavia, nient’altro può appagare l’uomo
eternamente, se non l’essere con Dio. Un’eternità senza questa unione con Dio
sarebbe una condanna. L’uomo non riesce a giungere in alto, ma anela verso
l’alto: “Dal profondo grido a te…” Solo il Cristo risorto può portarci su fino
all’unione con Dio, fin dove le nostre forze non possono arrivare. Egli prende
davvero la pecora smarrita sulle sue spalle e la porta a casa. Aggrappati al
suo Corpo noi viviamo, e in comunione con il suo Corpo giungiamo fino al cuore
di Dio. E solo così è vinta la morte, siamo liberi e la nostra vita è speranza.
È questo il giubilo della Veglia Pasquale: noi siamo liberi. Mediante la risurrezione di Gesù l’amore si è rivelato più forte della morte, più forte del male. L’amore Lo ha fatto discendere ed è al contempo la forza nella quale Egli ascende. La forza per mezzo della quale ci porta con sé. Uniti col suo amore, portati sulle ali dell’amore, come persone che amano scendiamo insieme con Lui nelle tenebre del mondo, sapendo che proprio così saliamo anche con Lui. Preghiamo quindi in questa notte: Signore, dimostra anche oggi che l’amore è più forte dell’odio. Che è più forte della morte. Discendi anche nelle notti e negli inferi di questo nostro tempo moderno e prendi per mano coloro che aspettano. Portali alla luce! Sii anche nelle mie notti oscure con me e conducimi fuori! Aiutami, aiutaci a scendere con te nel buio di coloro che sono in attesa, che gridano dal profondo verso di te! Aiutaci a portarvi la tua luce! Aiutaci ad arrivare al “sì” dell’amore, che ci fa discendere e proprio così salire insieme con te! Amen.
©
Copyright 2007 - Libreria Editrice Vaticana
VEGLIA PASQUALE NELLA NOTTE
SANTA
OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
Basilica Vaticana
Sabato Santo, 15 aprile 2006
"Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è
qui" (Mc 16, 6). Così il messaggero di
Dio, vestito di luce, parla alle donne che cercano il corpo di Gesù nella
tomba. Ma la stessa cosa dice l'evangelista in questa notte santa anche a noi:
Gesù non è un personaggio del passato. Egli vive, e come vivente cammina innanzi
a noi; ci chiama a seguire Lui, il vivente, e a trovare così anche noi la via
della vita.
"È risorto… Non è qui". Quando Gesù per la prima volta aveva parlato ai discepoli della croce e della risurrezione, essi, scendendo dal monte della Trasfigurazione, si domandavano che cosa volesse dire "risuscitare dai morti" (Mc 9, 10).
A Pasqua ci rallegriamo perché Cristo non è rimasto nel sepolcro, il suo corpo non ha visto la corruzione; appartiene al mondo dei viventi, non a quello dei morti; ci rallegriamo perché Egli è – come proclamiamo nel rito del Cero pasquale – l'Alfa e al contempo l'Omega, esiste quindi non soltanto ieri, ma oggi e per l'eternità (cfr Ebr 13, 8). Ma in qualche modo la risurrezione è collocata talmente al di fuori del nostro orizzonte, così al di fuori di tutte le nostre esperienze che, ritornando in noi stessi, ci troviamo a proseguire la disputa dei discepoli:
In che cosa consiste propriamente il "risuscitare"?
Che cosa significa per noi?
Per il mondo e la storia nel loro insieme?
Un teologo tedesco disse una volta con ironia che il miracolo di un cadavere rianimato – se questo era davvero avvenuto, cosa che lui però non credeva – sarebbe in fin dei conti irrilevante perché, appunto, non riguarderebbe noi. In effetti, se soltanto un qualcuno una volta fosse stato rianimato, e null'altro, in che modo questo dovrebbe riguardare noi?
Ma la risurrezione di Cristo, appunto, è di più, è una cosa diversa. Essa è – se possiamo una volta usare il linguaggio della teoria dell'evoluzione – la più grande "mutazione", il salto assolutamente più decisivo verso una dimensione totalmente nuova, che nella lunga storia della vita e dei suoi sviluppi mai si sia avuta: un salto in un ordine completamente nuovo, che riguarda noi e concerne tutta la storia.
La disputa, avviata con i discepoli, comprenderebbe quindi le seguenti domande:
Che cosa lì è successo?
Che cosa significa questo per noi, per il mondo nel suo insieme e per me personalmente?
Innanzitutto: che cosa è successo? Gesù non è più nel sepolcro. È in una vita tutta nuova.
Ma come è potuto avvenire questo?
Quali forze vi hanno operato?
È decisivo che quest’uomo Gesù non fosse solo, non fosse un Io chiuso in se stesso. Egli era una cosa sola con il Dio vivente, unito a Lui talmente da formare con Lui un'unica persona. Egli si trovava, per così dire, in un abbraccio con Colui che è la vita stessa, un abbraccio non solo emotivo, ma che comprendeva e penetrava il suo essere. La sua propria vita non era sua propria soltanto, era una comunione esistenziale con Dio e un essere inserito in Dio, e per questo non poteva essergli tolta realmente. Per amore, Egli poté lasciarsi uccidere, ma proprio così ruppe la definitività della morte, perché in Lui era presente la definitività della vita. Egli era una cosa sola con la vita indistruttibile, in modo che questa attraverso la morte sbocciò nuovamente.
Esprimiamo la stessa cosa ancora una volta partendo da un altro lato. La sua morte fu un atto di amore. Nell'Ultima Cena Egli anticipò la morte e la trasformò nel dono di sé. La sua comunione esistenziale con Dio era concretamente una comunione esistenziale con l'amore di Dio, e questo amore è la vera potenza contro la morte, è più forte della morte.
La risurrezione fu come un'esplosione di luce,
un'esplosione dell'amore che sciolse l'intreccio fino ad allora indissolubile
del "muori e divieni". Essa inaugurò una nuova dimensione
dell'essere, della vita, nella quale, in modo trasformato, è stata integrata
anche la materia e attraverso la quale emerge un mondo nuovo.
È chiaro che questo avvenimento non è un qualche miracolo del passato il cui accadimento potrebbe essere per noi in fondo indifferente. È un salto di qualità nella storia dell'"evoluzione" e della vita in genere verso una nuova vita futura, verso un mondo nuovo che, partendo da Cristo, già penetra continuamente in questo nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé.
Ma come avviene questo? Come può questo avvenimento arrivare
effettivamente a me e attrarre la mia vita verso di sé e verso l'alto? La
risposta, in un primo momento forse sorprendente ma del tutto reale, è: tale
avvenimento viene a me mediante la fede e il Battesimo. Per questo il Battesimo
fa parte della Veglia pasquale, come sottolinea anche in questa celebrazione il
conferimento dei Sacramenti dell’Iniziazione cristiana ad alcuni adulti
provenienti da diversi Paesi. Il Battesimo significa proprio questo, che non è
in questione un evento passato, ma che un salto di qualità della storia
universale viene a me afferrandomi per attrarmi. Il Battesimo è una cosa ben
diversa da un atto di socializzazione ecclesiale, da un rito un po' fuori moda
e complicato per accogliere le persone nella Chiesa. È anche più di una
semplice lavanda, di una specie di purificazione e abbellimento dell'anima. È
realmente morte e risurrezione, rinascita, trasformazione in una nuova vita.
Come possiamo comprenderlo? Penso che ciò che avviene nel Battesimo si chiarisca per noi più facilmente, se guardiamo alla parte finale della piccola autobiografia spirituale, che san Paolo ci ha donato nella sua Lettera ai Galati. Essa si conclude con le parole che contengono anche il nucleo di questa biografia: "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal 2, 20). Vivo, ma non sono più io. L'io stesso, la essenziale identità dell'uomo – di quest'uomo, Paolo – è stata cambiata. Egli esiste ancora e non esiste più. Ha attraversato un "non" e si trova continuamente in questo "non": Io, ma "non" più io. Paolo con queste parole non descrive una qualche esperienza mistica, che forse poteva essergli stata donata e che, semmai, potrebbe interessare noi dal punto di vista storico. No, questa frase è l'espressione di ciò che è avvenuto nel Battesimo. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande. Allora il mio io c'è di nuovo, ma appunto trasformato, dissodato, aperto mediante l'inserimento nell'altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza.
Paolo ci spiega la stessa cosa ancora una volta sotto un altro aspetto quando, nel terzo capitolo della Lettera ai Galati, parla della "promessa" dicendo che essa è stata data al singolare – a uno solo: a Cristo. Egli solo porta in sé tutta la "promessa". Ma che cosa succede allora con noi? Voi siete diventati uno in Cristo, risponde Paolo (Gal 3, 28). Non una cosa sola, ma uno, un unico, un unico soggetto nuovo. Questa liberazione del nostro io dal suo isolamento, questo trovarsi in un nuovo soggetto è un trovarsi nella vastità di Dio e un essere trascinati in una vita che è uscita già ora dal contesto del "muori e divieni".
La grande esplosione
della risurrezione ci ha afferrati nel Battesimo per attrarci. Così siamo
associati ad una nuova dimensione della vita nella quale, in mezzo alle
tribolazioni del nostro tempo, siamo già in qualche modo introdotti. Vivere la
propria vita come un continuo entrare in questo spazio aperto: è questo il
significato dell'essere battezzato, dell'essere cristiano. È questa la gioia
della Veglia pasquale. La risurrezione non è passata, la risurrezione ci ha
raggiunti ed afferrati. Ad essa, cioè al Signore risorto, ci aggrappiamo e
sappiamo che Lui ci tiene saldamente anche quando le nostre mani si
indeboliscono. Ci aggrappiamo alla sua mano, e così teniamo le mani anche gli
uni degli altri, diventiamo un unico soggetto, non soltanto una cosa
sola. Io, ma non più io: è questa la formula dell'esistenza
cristiana fondata nel Battesimo, la formula della risurrezione dentro al
tempo. Io, ma non più io: se viviamo in questo modo, trasformiamo
il mondo. È la formula di contrasto con tutte le ideologie della violenza e il
programma che s'oppone alla corruzione ed all'aspirazione al potere e al
possesso.
"Io vivo e voi vivrete", dice Gesù nel Vangelo di Giovanni (14, 19) ai suoi discepoli, cioè a noi. Noi vivremo mediante la comunione esistenziale con Lui, mediante l'essere inseriti in Lui che è la vita stessa.
La vita eterna, l'immortalità beata non l'abbiamo da noi stessi e non l'abbiamo in noi stessi, ma invece mediante una relazione – mediante la comunione esistenziale con Colui che è la Verità e l'Amore e quindi è eterno, è Dio stesso.
La semplice indistruttibilità dell'anima da sola non potrebbe dare un senso a una vita eterna, non potrebbe renderla una vita vera.
La vita ci viene dall'essere amati da Colui che è la Vita; ci viene dal
vivere-con e dall'amare-con Lui. Io, ma non più io: è questa la via
della croce, la via che "incrocia" un'esistenza rinchiusa solamente
nell'io, aprendo proprio così la strada alla gioia vera e duratura.
Così possiamo, pieni di gioia, insieme con la Chiesa cantare nell'Exsultet: "Esulti il coro degli angeli… Gioisca la terra". La risurrezione è un avvenimento cosmico, che comprende cielo e terra e li associa l'uno all'altra. E ancora con l'Exsultet possiamo proclamare: "Cristo, tuo figlio… risuscitato dai morti, fa risplendere negli uomini la sua luce serena e regna nei secoli dei secoli". Amen!
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AMDG et DVM
L’articolo della discesa agli inferi del Signore ci ricorda che della rivelazione cristiana fa parte non solo il parlare di Dio, bensì anche il suo tacere.
Dio non è solo la parola comprensibile, che si avvicina a noi, egli è anche la causa taciuta e inaccessibile, incompresa e incomprensibile che ci sfugge.
Certamente, nel cristianesimo c’è un primato del logos, della parola rispetto al silenzio: Dio ha parlato, Dio è la parola. Ma oltre a ciò noi non dovremmo dimenticare la verità del duraturo nascondimento di Dio. Solo quando lo abbiamo conosciuto come silenzio, possiamo sperare di sentire anche il suo parlare, che emana dal suo silenzio.
La cristologia oltrepassa la croce, il momento della tangibilità dell’ amore divino, sin nella morte, nel silenzio e nell’ oscuramento. Se si tiene conto di ciò, si risolve da solo il problema della «prova scritta»; perlomeno nel grido di morte di Gesù «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34) il segreto della discesa agli inferi di Gesù diventa visibile come un lampo accecante in una notte buia. A questo riguardo non dimentichiamo che questa frase del Crocifisso è il versetto iniziale di una preghiera di Israele, nella quale si riassume in modo sconvolgente il bisogno e la speranza di questo popolo eletto da Dio, e in apparenza profondamente abbandonato da lui. Questa preghiera che sale come richiesta nel momento dell’ oscurità di Dio finisce con una esaltazione della grandezza di Dio. Anche questa è assente nel grido in punto di morte di Gesù, che Ernst Käsemann ha di recente definito una preghiera dagli inferi, come l’ istituzione della prima preghiera nel deserto dell’ apparente assenza di Dio: «Il Figlio mantiene ancora la fede, quando la fede sembra essere diventata insensata e la realtà terrena rivela il Dio assente, di cui parlano non a caso il primo ladrone e la folla che schernisce. Il suo grido non è indirizzato al vivere e sopravvivere, non a se stesso, bensì al Padre. Il suo grido è contro la realtà del mondo intero».
Tentiamo un’ ulteriore riflessione per penetrare in questo complesso mistero, che non può essere chiarito a partire da un solo lato.
Innanzitutto prendiamo atto ancora una volta di un’ osservazione esegetica. Ci viene detto che nel nostro articolo di fede il termine «inferno» sarebbe solo una traduzione errata di scheol (in greco: hádes), con il quale l’ ebreo definiva quella condizione al di là della morte, che si immaginava in modo molto vago come una specie di esistenza nell’ ombra, più un non esserci che un esserci. Perciò la frase avrebbe originariamente significato solo che Gesù è entrato nello scheol, ovvero che è morto.
Ora, questo può senz’ altro essere vero. Ma rimane la questione se la cosa con ciò sia diventata più facile e chiara.
Penso che la domanda si ponga ora più che mai: cos’è veramente la morte e cosa accade dopo, quando qualcuno muore ed entra quindi nel destino della morte? Tutti noi dovremo ammettere il nostro imbarazzo di fronte a questa domanda.
Ma forse possiamo tentare un avvicinamento partendo ancora una volta dal grido di Gesù sulla croce, trovando espresso il nucleo di ciò che significa discesa di Gesù, partecipazione al destino di morte dell’ uomo. In quest’ ultima preghiera di Gesù, come nella scena del monte degli ulivi, sembra che il nucleo più profondo della sua passione non sia un qualsivoglia dolore fisico, bensì la radicale solitudine, il completo abbandono. In questo punto, però, appare infine veramente l’ abisso della solitudine dell’uomo come tale, dell’ uomo che nell’ intimo è solo. Questa solitudine, che certo è perlopiù coperta in vario modo, ma è comunque la vera condizione dell’ uomo, significa nel contempo la più profonda contraddizione all’ essenza dell’ uomo, che non può stare da solo, ma ha bisogno di essere in comunione.
Perciò la solitudine è la sfera della paura, che si basa sul venire a mancare dell’ essenza: essenza che deve essere e che tuttavia è stata esiliata in uno spazio che le è impossibile. Cerchiamo di chiarircelo con un esempio. Se un bambino deve camminare da solo attraverso la foresta nella notte buia, ha paura, anche se gli si è dimostrato in maniera convincente che non vi è nulla da temere.
Nel momento in cui è solo nell’ oscurità e sente la solitudine in maniera così radicale, sorge la paura, la vera paura dell’ uomo, che non è paura di qualcosa, bensì paura in sé. La paura di qualcosa di determinato è in fin dei conti innocua, può essere esorcizzata allontanando l’ oggetto in questione. Se qualcuno per esempio ha paura di un cane che morde, la faccenda si può sistemare velocemente legando il cane alla catena. Qui ci imbattiamo in qualcosa di molto più profondo: nel fatto che l’ uomo, quando finisce nella solitudine definitiva, non ha paura di qualcosa di determinato, che si potrebbe mostrare lontano; egli prova piuttosto la paura della solitudine, dell’ inquietudine e della sospensione della propria essenza, che non può essere superata razionalmente.
Aggiungiamo ancora un esempio: quando qualcuno deve stare sveglio di notte da solo con un morto in una camera, troverà sempre la sua situazione in qualche modo inquietante, anche se non vuole confessarselo ed è in grado di rendere comprensibile razionalmente l’ infondatezza della sua sensazione. Egli sa bene che il morto non gli può fare nulla e che la sua situazione sarebbe forse molto più pericolosa se la persona in questione fosse ancora viva. Quello che nasce qui è una paura di tutt’ altro tipo, non paura di qualcosa, bensì nell’ essere soli con la morte, la sinistra sensazione della solitudine in sé, la sospensione dell’ esistenza.
Ma, dobbiamo chiederci ora, come può essere superata una tale paura, se la prova dell’ infondatezza cade nel vuoto? Ora, il bambino perderà la sua paura nel momento in cui vi sarà lì una mano che lo prende e lo conduce. E anche colui che è solo con il morto sentirà sparire l’ impulso della paura se qualcuno è con lui. In questo superamento della paura si svela nel contempo ancora una volta la sua essenza: che essa è la paura della solitudine, la paura di un essere che può vivere soltanto nell’ essere in comunione.
Dobbiamo spingere ancora oltre la nostra domanda. Se esistesse una solitudine nella quale nessuna parola di un altro potesse più arrivare e avere effetto trasformante; se sopraggiungesse una sospensione dell’ esistenza tanto grave che in quel luogo non potrebbe più giungere alcun tu, allora sarebbe data quella vera e totale solitudine e terribilità che il teologo chiama «inferno».
Cosa significhi questa parola possiamo definirlo precisamente in base a ciò: essa indica una solitudine nella quale non penetra più la parola dell’ amore e significa quindi la vera sospensione dell’ esistenza.
In questo contesto, è immediato ricordare che i poeti e i filosofi della nostra epoca sono convinti che tutti gli incontri tra gli uomini rimangano in sostanza alla superficie; nessun uomo avrebbe accesso alla vera profondità dell’ altro. Nessuno perciò può giungere alla vera profondità dell’altro; ogni incontro, per quanto possa sembrare bello, in fin dei conti non fa altro che narcotizzare l’ insanabile ferita della solitudine. Nell’ intimo più profondo dell’esistenza di noi tutti abiterebbe quindi l’ inferno, la disperazione – la solitudine, che è tanto indefinibile quanto terribile. Sartre ha notoriamente costruito la sua antropologia su quest’idea. Infatti, una cosa è certa: c’ è una notte nel cui abbandono non arriva alcuna voce; vi è una porta attraverso la quale noi possiamo passare solamente in solitudine: la porta della morte. Tutta la paura del mondo è in ultima analisi paura di questa solitudine. Da questo si può capire perché l’ Antico Testamento abbia solo una parola per l’ inferno e la morte, il termine scheol: in fin dei conti le due cose sono identiche. La morte è la solitudine per antonomasia. Ma quella solitudine nella quale l’ amore non può più penetrare è l’ inferno. Con questo siamo giunti di nuovo al nostro punto di partenza.
In base a ciò, questa frase significa che Cristo ha attraversato la porta della nostra ultima solitudine, che egli nella sua passione è entrato in questo abisso del nostro essere abbandonati. Dove nessuna voce può raggiungerci, egli è lì. In questo modo l’ inferno è superato, o meglio: la morte, che prima era l’ inferno, non lo è più. Entrambe le cose non sono più le stesse, poiché nel cuore della morte c’ è la vita, poiché l’ amore abita nel cuore di essa. L’ inferno è ora solo una chiusura volontaria di sé o, come afferma la Bibbia, la seconda morte.
Tratto dal libro : Perché siamo ancora nella Chiesa . Di JR-Benedetto XVI
* CREDERE vuol dire
seguire la traccia indicataci dalla Parola di Dio.
CREDERE non é solo un tipo di pensiero, un'idea,
è un agire, è una forma di vivere.
P.P.Benedetto XVI
AMDG et DVM
Il fondamento della nostra libertà