SANTA MESSA
OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Piazza della Madonna di Loreto
Giovedì, 4 ottobre 2012 Venerati Fratelli nell’episcopato, cari fratelli e sorelle!
Il 4 ottobre del 1962, il Beato Giovanni XXIII venne in pellegrinaggio a questo Santuario per affidare alla Vergine Maria il Concilio Ecumenico Vaticano II, che si sarebbe inaugurato una settimana dopo. In quella occasione, egli, che nutriva una filiale e profonda devozione alla Madonna, si rivolse a lei con queste parole:
«Oggi, ancora una volta, ed in nome di tutto l’episcopato, a Voi, dolcissima Madre, che siete salutata Auxilium Episcoporum, chiediamo per Noi, Vescovo di Roma e per tutti i Vescovi dell’universo di ottenerci la grazia di entrare nell’aula conciliare della Basilica di San Pietro come entrarono nel Cenacolo gli Apostoli e i primi discepoli di Gesù: un cuor solo, un palpito solo di amore a Cristo e alle anime, un proposito solo di vivere e di immolarci per la salvezza dei singoli e dei popoli. Così, per la vostra materna intercessione, negli anni e nei secoli futuri, si possa dire che la grazia di Dio ha prevenuto, accompagnato e coronato il ventunesimo Concilio Ecumenico, infondendo nei figli tutti della Santa Chiesa nuovo fervore, slancio di generosità, fermezza di propositi» (AAS 54 [1962], 727).
A distanza di cinquant’anni, dopo essere stato chiamato dalla divina Provvidenza a succedere sulla cattedra di Pietro a quel Papa indimenticabile, anch’io sono venuto qui pellegrino per affidare alla Madre di Dio due importanti iniziative ecclesiali: l’Anno della fede, che avrà inizio tra una settimana, l’11 ottobre, nel cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, e l’Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, da me convocata nel mese di ottobre sul tema «La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana».
Cari amici! A voi tutti porgo il mio più cordiale saluto. Ringrazio l’Arcivescovo di Loreto, Mons. Giovanni Tonucci, per le calorose espressioni di benvenuto. Saluto gli altri Vescovi presenti, i Sacerdoti, i Padri Cappuccini, ai quali è affidata la cura pastorale del santuario, e le Religiose. Rivolgo un deferente pensiero al Sindaco, Dott. Paolo Niccoletti, che pure ringrazio per le sue cortesi parole, al Rappresentante del Governo ed alle Autorità civili e militari presenti. E la mia riconoscenza va a tutti coloro che hanno generosamente offerto la loro collaborazione per la realizzazione di questo mio Pellegrinaggio.
Come ricordavo nella Lettera Apostolica di indizione, attraverso l’Anno della fede «intendo invitare i Confratelli Vescovi di tutto l’orbe perché si uniscano al Successore di Pietro, nel tempo di grazia spirituale che il Signore ci offre, per fare memoria del dono prezioso della fede» (Porta fidei, 8). E proprio qui a Loreto abbiamo l’opportunità di metterci alla scuola di Maria, di lei che è stata proclamata «beata» perché «ha creduto» (Lc 1,45).
Questo Santuario, costruito attorno alla sua casa terrena, custodisce la memoria del momento in cui l’Angelo del Signore venne da Maria con il grande annuncio dell’Incarnazione, ed ella diede la sua risposta.
Questa umile abitazione è una testimonianza concreta e tangibile dell’avvenimento più grande della nostra storia: l’Incarnazione; il Verbo si è fatto carne, e Maria, la serva del Signore, è il canale privilegiato attraverso il quale Dio è venuto ad abitare in mezzo a noi (cfr Gv 1,14).
Maria ha offerto la propria carne, ha messo tutta se stessa a disposizione della volontà di Dio, diventando «luogo» della sua presenza, «luogo» in cui dimora il Figlio di Dio. Qui possiamo richiamare le parole del Salmo con le quali, secondo la Lettera agli Ebrei, Cristo ha iniziato la sua vita terrena dicendo al Padre: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato…Allora ho detto: “Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà”» (10,5.7).
Maria dice parole simili di fronte all’Angelo che le rivela il piano di Dio su di lei: «Ecco la serva del Signore; avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38). La volontà di Maria coincide con la volontà del Figlio nell’unico progetto di amore del Padre e in lei si uniscono cielo e terra, Dio creatore e la sua creatura. Dio diventa uomo, Maria si fa «casa vivente» del Signore, tempio dove abita l’Altissimo.
Il Beato Giovanni XXIII cinquant’anni fa, qui a Loreto, invitava a contemplare questo mistero, a «riflettere su quel congiungimento del cielo con la terra, che è lo scopo dell’Incarnazione e della Redenzione», e continuava affermando che lo stesso Concilio aveva come scopo di estendere sempre più il raggio benefico dell’Incarnazione e Redenzione di Cristo in tutte le forme della vita sociale (cfr AAS 54 [1962], 724).
E’ un invito che risuona oggi con particolare forza. Nella crisi attuale che interessa non solo l’economia, ma vari settori della società, l’Incarnazione del Figlio di Dio ci dice quanto l’uomo sia importante per Dio e Dio per l’uomo. Senza Dio l’uomo finisce per far prevalere il proprio egoismo sulla solidarietà e sull’amore, le cose materiali sui valori, l’avere sull’essere.
Bisogna ritornare a Dio perché l’uomo ritorni ad essere uomo. Con Dio anche nei momenti difficili, di crisi, non viene meno l’orizzonte della speranza: l’Incarnazione ci dice che non siamo mai soli, Dio è entrato nella nostra umanità e ci accompagna.
Ma il dimorare del Figlio di Dio nella «casa vivente», nel tempio, che è Maria, ci porta ad un altro pensiero: dove abita Dio, dobbiamo riconoscere che tutti siamo «a casa»; dove abita Cristo, i suoi fratelli e le sue sorelle non sono più stranieri. Maria, che è madre di Cristo è anche nostra madre, ci apre la porta della sua Casa, ci guida ad entrare nella volontà del suo Figlio. È la fede, allora, che ci dà una casa in questo mondo, che ci riunisce in un’unica famiglia e che ci rende tutti fratelli e sorelle.
Contemplando Maria, dobbiamo domandarci se anche noi vogliamo essere aperti al Signore, se vogliamo offrire la nostra vita perché sia una dimora per Lui; oppure se abbiamo paura che la presenza del Signore possa essere un limite alla nostra libertà, e se vogliamo riservarci una parte della nostra vita, in modo che possa appartenere solo a noi. Ma è proprio Dio che libera la nostra libertà, la libera dalla chiusura in se stessa, dalla sete di potere, di possesso, di dominio, e la rende capace di aprirsi alla dimensione che la realizza in senso pieno: quella del dono di sé, dell’amore, che si fa servizio e condivisione.
La fede ci fa abitare, dimorare, ma ci fa anche camminare nella via della vita. Anche a questo proposito, la Santa Casa di Loreto conserva un insegnamento importante.
Come sappiamo, essa fu collocata sopra una strada. La cosa potrebbe apparire piuttosto strana: dal nostro punto di vista, infatti, la casa e la strada sembrano escludersi. In realtà, proprio in questo particolare aspetto, è custodito un messaggio singolare di questa Casa. Essa non è una casa privata, non appartiene a una persona o a una famiglia, ma è un’abitazione aperta a tutti, che sta, per così dire, sulla strada di tutti noi. Allora, qui a Loreto, troviamo una casa che ci fa rimanere, abitare, e che nello stesso tempo ci fa camminare, ci ricorda che siamo tutti pellegrini, che dobbiamo essere sempre in cammino verso un’altra abitazione, verso la casa definitiva, verso la Città eterna, la dimora di Dio con l’umanità redenta (cfr Ap 21,3).
C’è ancora un punto importante del racconto evangelico dell’Annunciazione che vorrei sottolineare, un aspetto che non finisce mai di stupirci: Dio domanda il «sì» dell’uomo, ha creato un interlocutore libero, chiede che la sua creatura Gli risponda con piena libertà.
San Bernardo di Chiaravalle, in uno dei suoi Sermoni più celebri, quasi «rappresenta» l’attesa da parte di Dio e dell’umanità del «sì» di Maria, rivolgendosi a lei con una supplica: «L’angelo attende la tua risposta, perché è ormai tempo di ritornare a colui che lo ha inviato… O Signora, da’ quella risposta, che la terra, che gli inferi, anzi, che i cieli attendono. Come il Re e Signore di tutti desiderava vedere la tua bellezza, così egli desidera ardentemente la tua risposta affermativa… Alzati, corri, apri! Alzati con la fede, affrettati con la tua offerta, apri con la tua adesione!» (In laudibus Virginis Matris, Hom. IV, 8: Opera omnia, Edit. Cisterc. 4, 1966, p. 53s).
Dio chiede la libera adesione di Maria per diventare uomo. Certo, il «sì» della Vergine è frutto della Grazia divina. Ma la grazia non elimina la libertà, al contrario, la crea e la sostiene. La fede non toglie nulla alla creatura umana, ma ne permette la piena e definitiva realizzazione.
Cari fratelli e sorelle, in questo pellegrinaggio che ripercorre quello del Beato Giovanni XXIII - e che avviene, provvidenzialmente, nel giorno in cui si fa memoria di san Francesco di Assisi, vero «Vangelo vivente» -
vorrei affidare alla Santissima Madre di Dio tutte le difficoltà che vive il nostro mondo alla ricerca di serenità e di pace, i problemi di tante famiglie che guardano al futuro con preoccupazione, i desideri dei giovani che si aprono alla vita, le sofferenze di chi attende gesti e scelte di solidarietà e di amore.
Vorrei affidare alla Madre di Dio anche questo speciale tempo di grazia per la Chiesa, che si apre davanti a noi.
Tu, Madre del «sì», che hai ascoltato Gesù, parlaci di Lui, raccontaci il tuo cammino per seguirlo sulla via della fede, aiutaci ad annunciarlo perché ogni uomo possa accoglierlo e diventare dimora di Dio. Amen!
AMDG et BVM
© Copyright 2012 - Libreria Editrice Vaticana
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"Dignare me laudare Te Virgo sacrata. Da mihi virtutem contra hostes tuos". "Corda Iésu et Marìae Sacratìssima: Nos benedìcant et custòdiant".
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venerdì 30 gennaio 2015
OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI NELLA VISITA PASTORALE A LORETO , 4.X,2012 !!!!!
venerdì 4 ottobre 2013
Domenica 6 ottobre 2013, XXVII Domenica del Tempo Ordinario - Anno C (da Maria Valtorta : Volume 6 Capitolo 422 pagina 425.)
"Prendete, prendete quest’opera e ‘non sigillatela’, ma leggetela e fatela leggere"
Gesù (cap 652, volume 10), a proposito del
"Evangelo come mi è stato rivelato"
di Maria Valtorta
Domenica 6 ottobre 2013, XXVII Domenica del Tempo Ordinario - Anno C
Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 17, 5-10.
Gli apostoli dissero al Signore:
«Aumenta la nostra fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: Vieni subito e mettiti a tavola?
Non gli dirà piuttosto: Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu?
Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare».
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 6 Capitolo 422 pagina 425.
1Il greto biancheggia infatti nella notte illune ma chiarissima di migliaia di stelle, di larghe, inverosimilmente larghe stelle di cielo d’Oriente. Non è il lume intenso come quello della luna, ma è già una fosforescenza dolce che permette, a chi ha l’occhio assuefatto al buio, di vedere dove cammina e ciò che lo circonda. Qui, alla destra dei viandanti che risalgono verso nord costeggiando il fiume, la mite luminosità stellare mostra il limite vegetale fatto di canneti, salici e poi alberi alti e, poiché è lume molto lieve, essi sembrano fare una muraglia compatta, continua, senza interruzione, senza possibilità di penetrazione, appena rotta là dove il letto di un ruscello o di un torrente, completamente disseccati, mette una riga bianca che si addentra verso oriente e scompare alla prima curva del minuscolo affluente ora asciutto. Alla sinistra, invece, i camminatori discernono il luccichio delle acque che scendono verso il mar Morto borbottando, sospirando, frusciando, quiete e serene. E fra la linea lucente delle acque d’indaco, nella notte, e la massa nero-opaca delle erbe, arbusti e alberi, la striscia chiara del greto, dove più larga, dove più stretta, talora interrotta da un minuscolo stagno, residuo della passata piena, ancora dotato di un poco d’acqua in via di riassorbimento e nel quale fanno ciuffo ancor verde le erbe che altrove sono disseccate nell’asciuttore del greto, certo ardente nelle ore di sole.
Gli apostoli sono costretti da questi piccoli stagni, oppure da grovigli di falaschi secchi ma pericolosi come lame al piede seminudo nei sandali, a separarsi ogni tanto per poi riunirsi in gruppo intorno al Maestro loro, che va col suo passo lungo, sempre maestoso, tacendo per lo più, con lo sguardo levato alle stelle più che curvato al suolo. Gli apostoli no, non tacciono. Parlano fra di loro, riepilogando gli avvenimenti della giornata, traendone conclusioni oppure prevedendone gli svolgimenti futuri. Qualche rara parola di Gesù, sovente detta per rispondere a una diretta domanda oppure per correggere qualche ragione storta o non caritativa, punteggia il chiacchiericcio dei dodici. E il cammino procede nella notte, ritmando il silenzio notturno di un elemento nuovo su quelle rive deserte: le voci umane e lo scalpiccio dei passi. E tacciono gli usignoli fra le fronde, stupiti che suoni discordi e aspri si mescolino, turbando, all’abituale rumore delle acque e delle brezze, soliti accompagnamenti ai loro a-soli virtuosi.
2Ma una domanda diretta, non concernente ciò che è stato ma ciò che deve avvenire, rompe con la violenza di una ribellione, oltre che col tono più acuto delle voci agitate da sdegno o da ira, la pace non solo della notte ma quella più intima dei cuori. Filippo domanda se e fra quanti giorni saranno alle loro case. Un latente bisogno di riposo, un non detto ma sottinteso desiderio di affetti famigliari è nella semplice domanda dell’apostolo già anzianotto, che è marito e padre oltre che apostolo, che ha degli interessi da curare…
Gesù sente tutto questo e si volge a guardare Filippo, si ferma per attenderlo, essendo Filippo un poco indietro con Matteo e Natanaele, e avutolo vicino lo cinge con un braccio dicendogli: «Presto, amico mio. Però chiedo alla tua bontà un altro piccolo sacrificio, sempre che* tu non ti voglia separare prima da Me…».
«Io? Separarmi? Mai!».
«E allora… ti allontano di ancor qualche tempo da Betsaida. Io voglio andare a Cesarea Marittima passando per la Samaria. Al ritorno andremo a Nazaret e resteranno con Me quelli che sono senza famiglia in Galilea. Poi, dopo qualche tempo, vi raggiungerò a Cafarnao… E là vi evangelizzerò per farvi più ancora capaci. Ma se tu credi che la tua presenza a Betsaida sia necessaria… va’ pure, Filippo. Ci ritroveremo là…».
«No, Maestro. È più necessario stare con Te! Ma sai… È dolce la casa… e le figlie… Penso che non le avrò molto con me in futuro… e vorrei godere un poco della loro casta dolcezza. Ma se devo scegliere fra loro e Te, scelgo Te… e per più motivi…» termina sospirando Filippo.
«E bene fai, amico. Perché Io ti sarò tolto prima delle figlie tue…».
«Oh! Maestro!…» dice con pena l’apostolo.
«Così è, Filippo» termina Gesù baciando sulla tempia l’apostolo.
3Giuda Iscariota, che ha borbottato fra i denti da quando Gesù ha nominato Cesarea, alza la voce come se vedere il bacio dato a Filippo gli facesse perdere il controllo delle sue azioni. E dice: «Quante cose inutili! Io non so proprio che necessità ci sia di andare a Cesarea!», e lo dice con un’irruenza piena di bile; pare voglia sottintendere: «e Tu che ci vai sei uno stolto».
«Non sei tu che devi giudicare delle necessità delle cose che facciamo, ma il Maestro» gli risponde Bartolomeo.
«Sì, eh? Quasi che Lui vedesse chiare le necessità naturali!».
«Ohè! Sei folle o sei sano? Sai di chi parli?» gli chiede Pietro scuotendolo per un braccio.
«Non sono folle. Sono l’unico che ho il cervello sano. E so ciò che mi dico».
«Belle cose che dici!», «Prega Dio che non te le calcoli!», «La modestia non ti è amica!», «Si direbbe che hai paura che ti si possa conoscere per quel che sei, andando a Cesarea» dicono insieme e rispettivamente Giacomo di Zebedeo, Simone Zelote, Tommaso e Giuda d’Alfeo.
L’Iscariota si rivolta verso quest’ultimo: «Non ho nulla da temere e voi non avete nulla da conoscere. Ma io sono stanco di vedere che si passa di errore in errore e ci si rovina. Urti coi sinedristi, dispute coi farisei. Ora ci mancano i romani…».
«Come? Ma se non sono due lune che tu eri esaltato di gioia, eri sicuro, eri, eri, eri… tutto eri perché avevi amica Claudia!» osserva ironico Bartolomeo che, essendo il più… intransigente, è quello che solo per ubbidienza al Maestro non si ribella a contatti con i romani.
Giuda resta per un momento ammutolito perché la logica della ironica domanda è evidente e, a meno di non apparire illogici, non si può smentire ciò che si era detto prima. Ma poi si riprende: «Non è per i romani che dico questo. Voglio dire per i romani come nemici. Esse, perché in fondo non sono che quattro donne romane, quattro, cinque, sei al massimo, esse ci hanno promesso aiuto e lo daranno. 4Ma è perché ciò aumenterà l’astio dei nemici suoi, e Lui non lo capisce e…».
«Il loro astio è completo, Giuda. E tu lo sai come Me e anche meglio di Me» dice calmo Gesù, calcando sul «meglio».
«Io? Io? Che vuoi dire? Chi sa le cose meglio di Te?».
«Or ora hai detto che tu solo conosci le necessità e il come usare in esse…» gli ribatte Gesù.
«Ma per le cose naturali, sì. Io dico che Tu conosci le cose spirituali meglio di tutti».
«Ciò è vero. Ma appunto ti dicevo che tu conosci meglio di Me le cose, brutte se vuoi, avvilenti se vuoi, naturali, quali l’astio dei miei nemici, quali i loro propositi…».
«Io non so nulla! Nulla so io. Lo giuro sulla mia anima, su mia madre, su Jeové…».
«Basta! È detto di non giurare» intima Gesù con una severità che pare indurirgli persino i tratti del volto in una perfezione di statua.
«Ebbene non giurerò. Ma mi sarà lecito dire, perché non sono uno schiavo, che non è necessario, che non è utile, che è anzi pericoloso andare a Cesarea, parlare con le romane…».
«E chi ti dice che ciò avverrà?» chiede Gesù.
«Chi? Ma tutto! Tu hai bisogno di sincerarti di una cosa. Tu sei sulle peste di una…», si ferma comprendendo che l’ira lo fa troppo parlare.
5Poi riprende: «Ed io ti dico che Tu dovresti pensare anche ai nostri interessi. Tu ci hai levato tutto. Casa, guadagni, affetti, tranquillità. Siamo dei perseguitati in causa tua e lo saremo anche dopo. Perché Tu, lo dici in tutti i modi, un bel momento te ne andrai. Ma noi restiamo. Ma noi resteremo rovinati, ma noi…».
«Tu non sarai perseguitato dopo che Io non sarò fra voi. Te lo dico Io, che sono la Verità. E ti dico che Io ho preso ciò che spontaneamente, insistentemente mi avete dato. Dunque non mi puoi accusare di avervi levato con prepotenza uno solo dei capelli che vi cadono quando li ravviate. Perché mi accusi?». Gesù è già meno severo, è adesso di una mestizia che vuoI ricondurre con dolcezza alla ragione, e credo che questa sua misericordia, così piena, così divina, sia freno agli altri che non l’avrebbero, no, per il colpevole.
Anche Giuda sente questo e, con uno di quei bruschi trapassi della sua anima presa da due forze contrarie, si getta a terra colpendosi al capo, al petto e urlando: «Perché sono un demonio. Un demonio io sono. Salvami, Maestro, come salvi tanti indemoniati, Salvami! Salvami!».
«Non sia inerte la tua volontà di esser salvato».
«C’è. Lo vedi. Io voglio essere salvato».
«Da Me. Pretendi che Io faccia tutto. Ma Io sono Dio e rispetto il tuo libero arbitrio. Ti darò le forze per giungere a “volere”. Ma volere non essere schiavo deve venire da te».
«Lo voglio! Lo voglio! Ma non andare a Cesarea! Non andare!
6Ascolta me come* hai ascoltato Giovanni quando volevi andare ad Acor. Abbiamo tutti gli stessi diritti. Ti serviamo tutti ugualmente. Tu hai l’obbligo di accontentarci per quello che facciamo… Trattami come Giovanni! Lo voglio! Che c’è di diverso fra me e lui?».
«L’animo c’è! Mio fratello non avrebbe mai parlato come tu parli. Mio fratello non…».
«Silenzio, Giacomo. Parlo Io. E a tutti. E tu alzati e procedi da uomo, quale Io ti tratto, non da schiavo gemente ai piedi del padrone. Sii uomo, posto che tanto ci tieni ad essere trattato come Giovanni, il quale, in verità, è da più di un uomo, perché è casto ed è saturo di Carità. Andiamo. È tardi. E all’alba voglio passare il fiume. A quell’ora rientrano i pescatori che hanno ritirato le nasse ed è facile trovare un traghetto. La luna nei suoi ultimi giorni alza sempre più il suo arco sottile. Possiamo, alla sua aumentata luce, andare più spediti.
7Udite. In verità vi dico che nessuno deve vantarsi di fare il proprio dovere ed esigere per questo, che è un obbligo, speciali favori.
Giuda ha ricordato che tutto mi avete dato. E mi ha detto che per questo Io ho il dovere di accontentarvi per quello che fate. Ma sentite un po’. Fra voi sono dei pescatori, dei possidenti di terra, più d’uno che ha un’officina, e lo Zelote che aveva un servo. Orbene. Quando i garzoni della barca, o gli uomini che come servi vi aiutavano nell’uliveto, vigneto, o fra i campi, o gli apprendisti dell’officina, o semplicemente il servo fedele che curava la casa e la mensa, finivano i loro lavori, voi vi mettevate forse a servirli? E così non è in tutte le case e le incombenze? Chi degli uomini, avendo un servo ad arare o a pascere, o un operaio nell’officina, gli dice quando finisce il lavoro: “Va’ subito a tavola”? Nessuno. Ma, sia che torni dai campi, come che abbia deposto gli arnesi del lavoro, ogni padrone dice: “Fammi da mangiare, ripulisciti, e con veste pulita e cinta servimi mentre io mangio e bevo. Dopo mangerai e berrai tu”. Né si può dire che ciò sia durezza di cuore. Perché il servo deve servire il padrone, né il padrone gli resta obbligato perché il servo ha fatto ciò che al mattino il padrone aveva ordinato. Perché, se è vero che il padrone ha il dovere di essere umano col proprio servo, così il servo ha il dovere di non essere infingardo e dilapidatore, ma di cooperare al benessere del padrone che lo veste e lo sfama. Sopportereste voi che i vostri garzoni di barca, i contadini, gli operai, il servo di casa, vi dicessero: “Servimi perché io ho lavorato”? Non credo.
Così anche voi, guardando ciò che avete fatto e che fate per Me - e, in futuro, guardando ciò che farete per continuare la mia opera e continuare a servire il Maestro vostro - dovete sempre dire, perché vedrete anche che avete sempre fatto
molto meno di quanto era giusto fare per essere a pari col molto avuto da Dio: “Siamo servi inutili, perché non abbiamo fatto che il nostro dovere”. Se così ragionerete, vedrete che non sentirete più pretese e malumori sorgere in voi, e agirete con giustizia».
Gesù tace. Tutti riflettono.
8Pietro urta col gomito Giovanni, che riflette tenendo gli occhi celesti fissi sulle acque che dal color indaco passano ad un argento azzurro per la luna che le tocca, e gli dice: «Chiedigli quando è che uno fa più che il suo dovere. Vorrei giungere a fare di più del mio dovere, io…».
«Io pure, Simone. Pensavo proprio a questo» gli risponde Giovanni col suo bel sorriso sulle labbra, e chiede forte: «Maestro, dimmi: l’uomo tuo servo non potrà mai fare più del suo dovere, per dirti con questo “più” che ti ama completamente?».
«Fanciullo, Dio ti ha dato tanto che, per giustizia, ogni tuo eroismo sarebbe sempre poco. Ma il Signore è così buono che misura ciò che gli date non con la sua misura infinita. Lo misura con la misura limitata della capacità umana. E quando vede che avete dato senza parsimonia, con una misura colma, traboccante, generosa, allora dice: “Questo mio servo mi ha dato più di quanto era suo dovere. Perciò Io gli darò la superabbondanza dei miei premi”».
«Oh! come sono contento! Io allora ti darò misura straripante per avere questa sovrabbondanza!» esclama Pietro.
«Sì. Tu me la darai. Voi me la darete. Tutti quelli che sono amanti della Verità, della Luce, me la daranno. E con Me saranno soprannaturalmente felici».
Recordare nostri, Domina. Succurre nobis in fine
venerdì 5 luglio 2013
L'Anno della fede. Che cosa è la fede?
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Piazza San PietroMercoledì, 24 ottobre 2012
[Video]
L'Anno della fede. Che cosa è la fede?
Cari fratelli e sorelle, mercoledì scorso, con l'inizio dell'Anno della fede, ho cominciato con una nuova serie di catechesi sulla fede. E oggi vorrei riflettere con voi su una questione fondamentale: che cosa è la fede? Ha ancora senso la fede in un mondo in cui scienza e tecnica hanno aperto orizzonti fino a poco tempo fa impensabili? Che cosa significa credere oggi? In effetti, nel nostro tempo è necessaria una rinnovata educazione alla fede, che comprenda certo una conoscenza delle sue verità e degli eventi della salvezza, ma che soprattutto nasca da un vero incontro con Dio in Gesù Cristo, dall’amarlo, dal dare fiducia a Lui, così che tutta la vita ne sia coinvolta. Oggi, insieme a tanti segni di bene, cresce intorno a noi anche un certo deserto spirituale. A volte, si ha come la sensazione, da certi avvenimenti di cui abbiamo notizia tutti i giorni, che il mondo non vada verso la costruzione di una comunità più fraterna e più pacifica; le stesse idee di progresso e di benessere mostrano anche le loro ombre. Nonostante la grandezza delle scoperte della scienza e dei successi della tecnica, oggi l’uomo non sembra diventato veramente più libero, più umano; permangono tante forme di sfruttamento, di manipolazione, di violenza, di sopraffazione, di ingiustizia… Un certo tipo di cultura, poi, ha educato a muoversi solo nell’orizzonte delle cose, del fattibile, a credere solo in ciò che si vede e si tocca con le proprie mani. D’altra parte, però, cresce anche il numero di quanti si sentono disorientati e, nella ricerca di andare oltre una visione solo orizzontale della realtà, sono disponibili a credere a tutto e al suo contrario. In questo contesto riemergono alcune domande fondamentali, che sono molto più concrete di quanto appaiano a prima vista: che senso ha vivere? C’è un futuro per l’uomo, per noi e per le nuove generazioni? In che direzione orientare le scelte della nostra libertà per un esito buono e felice della vita? Che cosa ci aspetta oltre la soglia della morte? Da queste insopprimibili domande emerge come il mondo della pianificazione, del calcolo esatto e della sperimentazione, in una parola il sapere della scienza, pur importante per la vita dell’uomo, da solo non basta. Noi abbiamo bisogno non solo del pane materiale, abbiamo bisogno di amore, di significato e di speranza, di un fondamento sicuro, di un terreno solido che ci aiuti a vivere con un senso autentico anche nella crisi, nelle oscurità, nelle difficoltà e nei problemi quotidiani. La fede ci dona proprio questo: è un fiducioso affidarsi a un «Tu», che è Dio, il quale mi dà una certezza diversa, ma non meno solida di quella che mi viene dal calcolo esatto o dalla scienza. La fede non è un semplice assenso intellettuale dell’uomo a delle verità particolari su Dio; è un atto con cui mi affido liberamente a un Dio che è Padre e mi ama; è adesione a un «Tu» che mi dona speranza e fiducia. Certo questa adesione a Dio non è priva di contenuti: con essa siamo consapevoli che Dio stesso si è mostrato a noi in Cristo, ha fatto vedere il suo volto e si è fatto realmente vicino a ciascuno di noi. Anzi, Dio ha rivelato che il suo amore verso l’uomo, verso ciascuno di noi, è senza misura: sulla Croce, Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio fatto uomo, ci mostra nel modo più luminoso a che punto arriva questo amore, fino al dono di se stesso, fino al sacrificio totale. Con il mistero della Morte e Risurrezione di Cristo, Dio scende fino in fondo nella nostra umanità per riportarla a Lui, per elevarla alla sua altezza. La fede è credere a questo amore di Dio che non viene meno di fronte alla malvagità dell’uomo, di fronte al male e alla morte, ma è capace di trasformare ogni forma di schiavitù, donando la possibilità della salvezza. Avere fede, allora, è incontrare questo «Tu», Dio, che mi sostiene e mi accorda la promessa di un amore indistruttibile che non solo aspira all’eternità, ma la dona; è affidarmi a Dio con l’atteggiamento del bambino, il quale sa bene che tutte le sue difficoltà, tutti i suoi problemi sono al sicuro nel «tu» della madre. E questa possibilità di salvezza attraverso la fede è un dono che Dio offre a tutti gli uomini. Penso che dovremmo meditare più spesso - nella nostra vita quotidiana, caratterizzata da problemi e situazioni a volte drammatiche –sul fatto che credere cristianamente significa questo abbandonarmi con fiducia al senso profondo che sostiene me e il mondo, quel senso che noi non siamo in grado di darci, ma solo di ricevere come dono, e che è il fondamento su cui possiamo vivere senza paura. E questa certezza liberante e rassicurante della fede dobbiamo essere capaci di annunciarla con la parola e di mostrarla con la nostra vita di cristiani. Attorno a noi, però, vediamo ogni giorno che molti rimangono indifferenti o rifiutano di accogliere questo annuncio. Alla fine del Vangelo di Marco, oggi abbiamo parole dure del Risorto che dice : «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (Mc 16,16), perde se stesso. Vorrei invitarvi a riflettere su questo. La fiducia nell’azione dello Spirito Santo, ci deve spingere sempre ad andare e predicare il Vangelo, alla coraggiosa testimonianza della fede; ma, oltre alla possibilità di una risposta positiva al dono della fede, vi è anche il rischio del rifiuto del Vangelo, della non accoglienza dell’incontro vitale con Cristo. Già sant’Agostino poneva questo problema in un suo commento alla parabola del seminatore: «Noi parliamo - diceva -, gettiamo il seme, spargiamo il seme. Ci sono quelli che disprezzano, quelli che rimproverano, quelli che irridono. Se noi temiamo costoro, non abbiamo più nulla da seminare e il giorno della mietitura resteremo senza raccolto. Perciò venga il seme della terra buona» (Discorsi sulla disciplina cristiana, 13,14: PL 40, 677-678). Il rifiuto, dunque, non può scoraggiarci. Come cristiani siamo testimonianza di questo terreno fertile: la nostra fede, pur nei nostri limiti, mostra che esiste la terra buona, dove il seme della Parola di Dio produce frutti abbondanti di giustizia, di pace e di amore, di nuova umanità, di salvezza. E tutta la storia della Chiesa, con tutti i problemi, dimostra anche che esiste la terra buona, esiste il seme buono, e porta frutto. Ma chiediamoci: da dove attinge l’uomo quell’apertura del cuore e della mente per credere nel Dio che si è reso visibile in Gesù Cristo morto e risorto, per accogliere la sua salvezza, così che Lui e il suo Vangelo siano la guida e la luce dell’esistenza? Risposta: noi possiamo credere in Dio perché Egli si avvicina a noi e ci tocca, perché lo Spirito Santo, dono del Risorto, ci rende capaci di accogliere il Dio vivente. La fede allora è anzitutto un dono soprannaturale, un dono di Dio. Il Concilio Vaticano II afferma: «Perché si possa prestare questa fede, è necessaria la grazia di Dio che previene e soccorre, e sono necessari gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia “a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità”» (Cost. dogm. Dei Verbum, 5). Alla base del nostro cammino di fede c’è il Battesimo, il sacramento che ci dona lo Spirito Santo, facendoci diventare figli di Dio in Cristo, e segna l’ingresso nella comunità della fede, nella Chiesa: non si crede da sé, senza il prevenire della grazia dello Spirito; e non si crede da soli, ma insieme ai fratelli. Dal Battesimo in poi ogni credente è chiamato a ri-vivere e fare propria questa confessione di fede, insieme ai fratelli. La fede è dono di Dio, ma è anche atto profondamente libero e umano. Il Catechismo della Chiesa Cattolica lo dice con chiarezza: «È impossibile credere senza la grazia e gli aiuti interiori dello Spirito Santo. Non è però meno vero che credere è un atto autenticamente umano. Non è contrario né alla libertà né all’intelligenza dell’uomo» (n. 154). Anzi, le implica e le esalta, in una scommessa di vita che è come un esodo, cioè un uscire da se stessi, dalle proprie sicurezze, dai propri schemi mentali, per affidarsi all’azione di Dio che ci indica la sua strada per conseguire la vera libertà, la nostra identità umana, la gioia vera del cuore, la pace con tutti. Credere è affidarsi in tutta libertà e con gioia al disegno provvidenziale di Dio sulla storia, come fece il patriarca Abramo, come fece Maria di Nazaret. La fede allora è un assenso con cui la nostra mente e il nostro cuore dicono il loro «sì» a Dio, confessando che Gesù è il Signore. E questo «sì» trasforma la vita, le apre la strada verso una pienezza di significato, la rende così nuova, ricca di gioia e di speranza affidabile. Cari amici, il nostro tempo richiede cristiani che siano stati afferrati da Cristo, che crescano nella fede grazie alla familiarità con la Sacra Scrittura e i Sacramenti. Persone che siano quasi un libro aperto che narra l’esperienza della vita nuova nello Spirito, la presenza di quel Dio che ci sorregge nel cammino e ci apre alla vita che non avrà mai fine. Grazie. Saluti: Je salue avec joie les pèlerins francophones, en particulier ceux de la Province ecclésiastique de Toulouse accompagnés de leurs évêques, du diocèse de Metz accompagnés par Mgr Raffin, et ceux du Canada avec Mgr Veillette ! Confiants dans l’action de l’Esprit Saint, puissiez-vous annoncer l’Évangile autour de vous et rendre toujours témoignage de votre foi. Vous porterez alors des fruits abondants de justice, de paix et d’amour. Bon pèlerinage ! I offer a cordial greeting to the General Chapter of the Salvatorian Sisters. I also greet the large group of pilgrims from Japan. My warm welcome goes to the priests from the Archdiocese of Westminster. I welcome the members of the Apostolic Union of Clergy. I also greet the study group of Anglican clergy visiting Rome. Upon all the English-speaking visitors present, including those from England, Scotland, Denmark, Norway, Nigeria, Indonesia, Japan, the Philippines, Canada and the United States, I invoke God’s blessings. Gerne grüße ich alle Pilger deutscher Sprache sowie die Gäste aus den Niederlanden. Unsere Zeit braucht Menschen, die vom Herrn ergriffen sind und durch die Vertrautheit mit der Heiligen Schrift und durch die Sakramente im Glauben wachsen. So wollen wir von der Erfahrung eines neuen Lebens in Christus und von der Gegenwart Gottes erzählen. Unser Leben sollte wie ein aufgeschlagenes Buch sein, aus dem unsere Begegnungen mit Gott lesbar werden, der uns offen macht für ein neues Leben in Fülle. Der Herr mache uns alle froh und stark im Glauben. Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española, en particular a los queridos hijos de Panamá, a quienes encomiendo a la amorosa protección de Santa María La Antigua, para que sean valientes misioneros del Evangelio de su Hijo, de palabra y con el propio ejemplo de vida. Dirijo también un afectuoso saludo a los grupos provenientes de España, México, Argentina y otros países latinoamericanos. Invito a todos a pedir que el Espíritu Santo mueva los corazones y los dirija a Dios, para que juntos podamos con alegría proclamar nuestra fe. Muchas gracias. Uma cordial saudação para todos os peregrinos de língua portuguesa, com menção particular dos grupos de diversas paróquias e cidades do Brasil, que aqui vieram movidos pelo desejo de afirmar e consolidar a sua fé e adesão a Cristo: o Senhor vos encha de alegria e o seu Espírito ilumine as decisões da vossa vida para realizardes fielmente o projecto de Deus a vosso respeito. Acompanha-vos a minha oração e a minha Bênção. Saluto in lingua polacca: Witam polskich pielgrzymów. Życzę wszystkim, aby nawiedzenie grobów Apostołów, Męczenników i Wyznawców oraz doświadczenie powszechnej wspólnoty Kościoła owocowało umocnieniem osobistej więzi z Chrystusem. Niech Rok wiary będzie okazją do jej ożywiania i do dawania świadectwa wobec innych. Niech Bóg wam błogosławi! Traduzione italiana: Do il benvenuto ai pellegrini polacchi. Auguro a tutti che la visita alle tombe degli Apostoli, dei Martiri e dei Confessori, nonché l’esperienza dell’universale comunità della Chiesa, porti frutti con il rafforzamento del legame personale con Cristo. L’Anno della fede sia l’occasione per infuocarla e per darne testimonianza agli altri. Dio vi benedica! Saluto in lingua araba:
البَابَا يُصْلِي مِنْ أَجَلِ جَمِيعِ النَّاطِقينَ بِاللُّغَةِ العَرَبِيَّةِ. لِيُبَارِك الرَّبّ جَمِيعَكُمْ.
Traduzione italiana:Il Papa prega per tutte le persone di lingua araba. Dio vi benedica tutti. Saluto in lingua croata: Upućujem srdačan pozdrav svim hrvatskim hodočasnicima, a osobito vjernicima iz Hvara, kao i vjernicima iz Hrvatske katoličke misije u Achenu. Osnaženi u vjeri na grobovima apostola, svjedočite Božju ljubav svojim životom, ustrajnom molitvom te marljivim i poštenim radom. Hvaljen Isus i Marija! Traduzione italiana: Rivolgo un saluto cordiale a tutti i pellegrini croati, particolarmente ai fedeli di Hvar come pure ai fedeli della Missione cattolica croata in Aachen. Rafforzati nella fede sulle tombe degli apostoli, testimoniate l’amore di Dio con la vostra vita, la preghiera perseverante e il lavoro diligente ed onesto. Siano lodati Gesù e Maria! Saluto in lingua slovacca: Zo srdca pozdravujem pútnikov zo Slovenska, osobitne z Nových Zámkov a Hlohovca. Bratia a sestry, v týchto dňoch sme pozvaní viac uvažovať o nutnosti misijného poslania Cirkvi i každého kresťana. Aj my sme povolaní evanjelizovať to prostredie, v ktorom žijeme a pracujeme. S týmto želaním vás žehnám. Pochválený buď Ježiš Kristus! Traduzione italiana: Saluto di cuore i pellegrini provenienti dalla Slovacchia, particolarmente quelli di Nové Zámky e Hlohovec. Fratelli e sorelle, in questi giorni siamo invitati a riflettere più intensamente sull’urgenza dell’impegno missionario della Chiesa, e di ciascun cristiano. Anche noi siamo chiamati ad evangelizzare nell’ambiente in cui viviamo e lavoriamo. Con questi voti vi benedico. Sia lodato Gesù Cristo!
* * *
Un affettuoso benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. Saluto le Suore della Santissima Madre Addolorata, che celebrano il Capitolo Generale, e le Figlie del Divino Zelo, riunite per l’incontro internazionale delle Superiore: la visita alle Tombe degli Apostoli accresca il vostro amore e la vostra appartenenza alla Chiesa. Accolgo con gioia i delegati dell’Unione Apostolica del Clero che celebra il 150° anniversario di fondazione, e le scolaresche e le famiglie pallottine, qui convenute a 50 anni dalla canonizzazione di San Vincenzo Pallotti. Saluto i gruppi parrocchiali, in particolare quelli di due parrocchie romane: dei Santi Urbano e Lorenzo, presente per il diciassettesimo centenario dell’apparizione del monogramma di Cristo all’Imperatore Costantino a Prima Porta; e di San Tommaso Apostolo, per la quale benedico oggi il nuovo concerto di campane.Un pensiero infine per i giovani, gli ammalati e gli sposi novelli. Lunedì scorso abbiamo celebrato la memoria del Beato Giovanni Paolo II, la cui figura è sempre viva tra noi: cari giovani, imparate ad affrontare la vita con il suo ardore e il suo entusiasmo; cari ammalati, portate con gioia la croce della sofferenza come ha saputo insegnarci lui stesso; e voi, cari sposi novelli, mettete sempre Dio al centro, perché la vostra storia coniugale abbia più amore e più felicità. Ed ora, con grande gioia, annuncio che il prossimo 24 novembre terrò un Concistoro nel quale nominerò 6 nuovi Membri del Collegio Cardinalizio. I Cardinali hanno il compito di aiutare il Successore di Pietro nello svolgimento del suo Ministero di confermare i fratelli nella fede e di essere principio e fondamento dell’unità e della comunione della Chiesa. Ecco i nomi dei nuovi Porporati: 1. Mons. JAMES MICHAEL HARVEY, Prefetto della Casa Pontificia, che ho in animo di nominare Arciprete della Basilica Papale di San Paolo fuori le mura;I nuovi Cardinali - come avete sentito - svolgono il loro ministero a servizio della Santa Sede o quali Padri e Pastori di Chiese particolari in varie parti del mondo. Invito tutti a pregare per i nuovi eletti, chiedendo la materna intercessione della Beata Vergine Maria, perché sappiano sempre amare con coraggio e dedizione Cristo e la sua Chiesa.
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martedì 16 aprile 2013
OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Piazza San Pietro
Giovedì, 11 ottobre 2012
Giovedì, 11 ottobre 2012
Venerati Fratelli,
cari fratelli e sorelle!
cari fratelli e sorelle!
Con grande gioia oggi, a 50 anni dall’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, diamo inizio all’Anno della fede. Sono lieto di rivolgere il mio saluto a tutti voi, in particolare a Sua Santità Bartolomeo I, Patriarca di Costantinopoli, e a Sua Grazia Rowan Williams, Arcivescovo di Canterbury. Un pensiero speciale ai Patriarchi e agli Arcivescovi Maggiori delle Chiese Orientali Cattoliche, e ai Presidenti delle Conferenze Episcopali. Per fare memoria del Concilio, che alcuni di noi qui presenti – che saluto con particolare affetto - hanno avuto la grazia di vivere in prima persona, questa celebrazione è stata arricchita di alcuni segni specifici: la processione iniziale, che ha voluto richiamare quella memorabile dei Padri conciliari quando entrarono solennemente in questa Basilica; l’intronizzazione dell’Evangeliario, copia di quello utilizzato durante il Concilio; la consegna dei sette Messaggi finali del Concilio e quella del Catechismo della Chiesa Cattolica, che farò al termine, prima della Benedizione. Questi segni non ci fanno solo ricordare, ma ci offrono anche la prospettiva per andare oltre la commemorazione. Ci invitano ad entrare più profondamente nel movimento spirituale che ha caratterizzato il Vaticano II, per farlo nostro e portarlo avanti nel suo vero senso. E questo senso è stato ed è tuttora la fede in Cristo, la fede apostolica, animata dalla spinta interiore a comunicare Cristo ad ogni uomo e a tutti gli uomini nel pellegrinare della Chiesa sulle vie della storia.
L’Anno della fede che oggi inauguriamo è legato coerentemente a tutto il cammino della Chiesa negli ultimi 50 anni: dal Concilio, attraverso il Magistero del Servo di Dio Paolo VI, il quale indisse un «Anno della fede» nel 1967, fino al Grande Giubileo del 2000, con il quale il Beato Giovanni Paolo II ha riproposto all’intera umanità Gesù Cristo quale unico Salvatore, ieri, oggi e sempre. Tra questi due Pontefici, Paolo VI e Giovanni Paolo II, c’è stata una profonda e piena convergenza proprio su Cristo quale centro del cosmo e della storia, e sull’ansia apostolica di annunciarlo al mondo. Gesù è il centro della fede cristiana. Il cristiano crede in Dio mediante Gesù Cristo, che ne ha rivelato il volto. Egli è il compimento delle Scritture e il loro interprete definitivo. Gesù Cristo non è soltanto oggetto della fede, ma, come dice la Lettera agli Ebrei, è «colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (12,2).
Il Vangelo di oggi ci dice che Gesù Cristo, consacrato dal Padre nello Spirito Santo, è il vero e perenne soggetto dell’evangelizzazione. «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio» (Lc 4,18). Questa missione di Cristo, questo suo movimento continua nello spazio e nel tempo, attraversa i secoli e i continenti. E’ un movimento che parte dal Padre e, con la forza dello Spirito, va a portare il lieto annuncio ai poveri di ogni tempo – poveri in senso materiale e spirituale. La Chiesa è lo strumento primo e necessario di questa opera di Cristo, perché è a Lui unita come il corpo al capo. «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20,21). Così disse il Risorto ai discepoli, e soffiando su di loro aggiunse: «Ricevete lo Spirito Santo» (v. 22). E’ Dio il principale soggetto dell’evangelizzazione del mondo, mediante Gesù Cristo; ma Cristo stesso ha voluto trasmettere alla Chiesa la propria missione, e lo ha fatto e continua a farlo sino alla fine dei tempi infondendo lo Spirito Santo nei discepoli, quello stesso Spirito che si posò su di Lui e rimase in Lui per tutta la vita terrena, dandogli la forza di «proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista», di «rimettere in libertà gli oppressi» e di «proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,18-19).
Il Concilio Vaticano II non ha voluto mettere a tema la fede in un documento specifico. E tuttavia, esso è stato interamente animato dalla consapevolezza e dal desiderio di doversi, per così dire, immergere nuovamente nel mistero cristiano, per poterlo riproporre efficacemente all’uomo contemporaneo. Al riguardo, così si esprimeva il Servo di Dio Paolo VI due anni dopo la conclusione dell’Assise conciliare: «Se il Concilio non tratta espressamente della fede, ne parla ad ogni pagina, ne riconosce il carattere vitale e soprannaturale, la suppone integra e forte, e costruisce su di essa le sue dottrine. Basterebbe ricordare [alcune] affermazioni conciliari (…) per rendersi conto dell’essenziale importanza che il Concilio, coerente con la tradizione dottrinale della Chiesa, attribuisce alla fede, alla vera fede, quella che ha per sorgente Cristo e per canale il magistero della Chiesa» (Catechesi nell’Udienza generale dell’8 marzo 1967). CosìPaolo VI nel '67.
Ma dobbiamo ora risalire a colui che convocò il Concilio Vaticano II e che lo inaugurò: il Beato Giovanni XXIII. NelDiscorso di apertura, egli presentò il fine principale del Concilio in questi termini: «Questo massimamente riguarda il Concilio Ecumenico: che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito ed insegnato in forma più efficace. (…) Lo scopo principale di questo Concilio non è, quindi, la discussione di questo o quel tema della dottrina… Per questo non occorreva un Concilio… E’ necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo» (AAS54 [1962], 790.791-792). Così Papa Giovanni nell'inaugurazione del Concilio.
Alla luce di queste parole, si comprende quello che io stesso allora ho avuto modo di sperimentare: durante il Concilio vi era una tensione commovente nei confronti del comune compito di far risplendere la verità e la bellezza della fede nell’oggi del nostro tempo, senza sacrificarla alle esigenze del presente né tenerla legata al passato: nella fede risuona l’eterno presente di Dio, che trascende il tempo e tuttavia può essere accolto da noi solamente nel nostro irripetibile oggi. Perciò ritengo che la cosa più importante, specialmente in una ricorrenza significativa come l’attuale, sia ravvivare in tutta la Chiesa quella positiva tensione, quell’anelito a riannunciare Cristo all’uomo contemporaneo. Ma affinché questa spinta interiore alla nuova evangelizzazione non rimanga soltanto ideale e non pecchi di confusione, occorre che essa si appoggi ad una base concreta e precisa, e questa base sono i documenti del Concilio Vaticano II, nei quali essa ha trovato espressione. Per questo ho più volte insistito sulla necessità di ritornare, per così dire, alla «lettera» del Concilio – cioè ai suoi testi – per trovarne l’autentico spirito, e ho ripetuto che la vera eredità del Vaticano II si trova in essi. Il riferimento ai documenti mette al riparo dagli estremi di nostalgie anacronistiche e di corse in avanti, e consente di cogliere la novità nella continuità. Il Concilio non ha escogitato nulla di nuovo come materia di fede, né ha voluto sostituire quanto è antico. Piuttosto si è preoccupato di far sì che la medesima fede continui ad essere vissuta nell’oggi, continui ad essere una fede viva in un mondo in cambiamento.
Se ci poniamo in sintonia con l’impostazione autentica, che il Beato Giovanni XXIII volle dare al Vaticano II, noi potremo attualizzarla lungo questo Anno della fede, all’interno dell’unico cammino della Chiesa che continuamente vuole approfondire il bagaglio della fede che Cristo le ha affidato. I Padri conciliari volevano ripresentare la fede in modo efficace; e se si aprirono con fiducia al dialogo con il mondo moderno è proprio perché erano sicuri della loro fede, della salda roccia su cui poggiavano. Invece, negli anni seguenti, molti hanno accolto senza discernimento la mentalità dominante, mettendo in discussione le basi stesse del depositum fidei, che purtroppo non sentivano più come proprie nella loro verità.
Se oggi la Chiesa propone un nuovo Anno della fede e la nuova evangelizzazione, non è per onorare una ricorrenza, ma perché ce n’è bisogno, ancor più che 50 anni fa! E la risposta da dare a questo bisogno è la stessa voluta dai Papi e dai Padri del Concilio e contenuta nei suoi documenti. Anche l’iniziativa di creare un Pontificio Consiglio destinato alla promozione della nuova evangelizzazione, che ringrazio dello speciale impegno per l’Anno della fede, rientra in questa prospettiva. In questi decenni è avanzata una «desertificazione» spirituale. Che cosa significasse una vita, un mondo senza Dio, al tempo del Concilio lo si poteva già sapere da alcune pagine tragiche della storia, ma ora purtroppo lo vediamo ogni giorno intorno a noi. E’ il vuoto che si è diffuso. Ma è proprio a partire dall’esperienza di questo deserto, da questo vuoto che possiamo nuovamente scoprire la gioia di credere, la sua importanza vitale per noi uomini e donne. Nel deserto si riscopre il valore di ciò che è essenziale per vivere; così nel mondo contemporaneo sono innumerevoli i segni, spesso espressi in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita. E nel deserto c’è bisogno soprattutto di persone di fede che, con la loro stessa vita, indicano la via verso la Terra promessa e così tengono desta la speranza. La fede vissuta apre il cuore alla Grazia di Dio che libera dal pessimismo. Oggi più che mai evangelizzare vuol dire testimoniare una vita nuova, trasformata da Dio, e così indicare la strada. La prima Lettura ci ha parlato della sapienza del viaggiatore (cfr Sir34,9-13): il viaggio è metafora della vita, e il sapiente viaggiatore è colui che ha appreso l’arte di vivere e la può condividere con i fratelli – come avviene ai pellegrini lungo il Cammino di Santiago, o sulle altre Vie che non a caso sono tornate in auge in questi anni. Come mai tante persone oggi sentono il bisogno di fare questi cammini? Non è forse perché qui trovano, o almeno intuiscono il senso del nostro essere al mondo? Ecco allora come possiamo raffigurare questo Anno della fede: un pellegrinaggio nei deserti del mondo contemporaneo, in cui portare con sé solo ciò che è essenziale: non bastone, né sacca, né pane, né denaro, non due tuniche – come dice il Signore agli Apostoli inviandoli in missione (cfr Lc 9,3), ma il Vangelo e la fede della Chiesa, di cui i documenti delConcilio Ecumenico Vaticano II sono luminosa espressione, come pure lo è il Catechismo della Chiesa Cattolica, pubblicato 20 anni or sono.
Venerati e cari Fratelli, l’11 ottobre 1962 si celebrava la festa di Maria Santissima Madre di Dio. A Lei affidiamo l’Anno della fede, come ho fatto una settimana fa recandomi pellegrino a Loreto. La Vergine Maria brilli sempre come stella sul cammino della nuova evangelizzazione. Ci aiuti a mettere in pratica l’esortazione dell’apostolo Paolo: «La parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza. Con ogni sapienza istruitevi e ammonitevi a vicenda… E qualunque cosa facciate, in parole e in opere, tutto avvenga nel nome del Signore Gesù, rendendo grazie per mezzo di Lui a Dio Padre» (Col3,16-17). Amen.
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DOMINE JESU
ADAUGE FIDEM NOSTRAM
PER MARIAM!
sabato 20 ottobre 2012
PORTA FIDEI
CARTA APOSTÓLICA
EN FORMA DE MOTU PROPRIO
EN FORMA DE MOTU PROPRIO
PORTA FIDEI
DEL SUMO PONTÍFICE
BENEDICTO XVI
BENEDICTO XVI
CON LA QUE SE CONVOCA EL AÑO DE LA
FE
CARTA APOSTÓLICA
EN FORMA DE MOTU PROPRIO
EN FORMA DE MOTU PROPRIO
PORTA FIDEI
DEL SUMO PONTÍFICE
BENEDICTO XVI
BENEDICTO XVI
CON LA QUE SE CONVOCA EL AÑO DE LA
FE
1. «La puerta de la fe» (cf. Hch 14, 27), que introduce en la vida de comunión con Dios y permite la entrada en su Iglesia, está siempre abierta para nosotros. Se cruza ese umbral cuando la Palabra de Dios se anuncia y el corazón se deja plasmar por la gracia que transforma. Atravesar esa puerta supone emprender un camino que dura toda la vida. Éste empieza con el bautismo (cf. Rm 6, 4), con el que podemos llamar a Dios con el nombre de Padre, y se concluye con el paso de la muerte a la vida eterna, fruto de la resurrección del Señor Jesús que, con el don del Espíritu Santo, ha querido unir en su misma gloria a cuantos creen en él (cf. Jn 17, 22). Profesar la fe en la Trinidad –Padre, Hijo y Espíritu Santo– equivale a creer en un solo Dios que es Amor (cf. 1 Jn 4, 8): el Padre, que en la plenitud de los tiempos envió a su Hijo para nuestra salvación; Jesucristo, que en el misterio de su muerte y resurrección redimió al mundo; el Espíritu Santo, que guía a la Iglesia a través de los siglos en la espera del retorno glorioso del Señor.
2. Desde el comienzo de mi ministerio como Sucesor de Pedro, he recordado la exigencia de redescubrir el camino de la fe para iluminar de manera cada vez más clara la alegría y el entusiasmo renovado del encuentro con Cristo. En la homilía de la santa Misa de inicio del Pontificado decía: «La Iglesia en su conjunto, y en ella sus pastores, como Cristo han de ponerse en camino para rescatar a los hombres del desierto y conducirlos al lugar de la vida, hacia la amistad con el Hijo de Dios, hacia Aquel que nos da la vida, y la vida en plenitud»[1]. Sucede hoy con frecuencia que los cristianos se preocupan mucho por las consecuencias sociales, culturales y políticas de su compromiso, al mismo tiempo que siguen considerando la fe como un presupuesto obvio de la vida común. De hecho, este presupuesto no sólo no aparece como tal, sino que incluso con frecuencia es negado[2]. Mientras que en el pasado era posible reconocer un tejido cultural unitario, ampliamente aceptado en su referencia al contenido de la fe y a los valores inspirados por ella, hoy no parece que sea ya así en vastos sectores de la sociedad, a causa de una profunda crisis de fe que afecta a muchas personas.
3. No podemos dejar que la sal se vuelva sosa y la luz permanezca oculta (cf. Mt 5, 13-16). Como la samaritana, también el hombre actual puede sentir de nuevo la necesidad de acercarse al pozo para escuchar a Jesús, que invita a creer en él y a extraer el agua viva que mana de su fuente (cf. Jn4, 14). Debemos descubrir de nuevo el gusto de alimentarnos con la Palabra de Dios, transmitida fielmente por la Iglesia, y el Pan de la vida, ofrecido como sustento a todos los que son sus discípulos (cf. Jn 6, 51). En efecto, la enseñanza de Jesús resuena todavía hoy con la misma fuerza: «Trabajad no por el alimento que perece, sino por el alimento que perdura para la vida eterna» (Jn6, 27). La pregunta planteada por los que lo escuchaban es también hoy la misma para nosotros: «¿Qué tenemos que hacer para realizar las obras de Dios?» (Jn 6, 28). Sabemos la respuesta de Jesús: «La obra de Dios es ésta: que creáis en el que él ha enviado» (Jn 6, 29). Creer en Jesucristo es, por tanto, el camino para poder llegar de modo definitivo a la salvación.
4. A la luz de todo esto, he decidido convocar un Año de la fe. Comenzará el 11 de octubre de 2012, en el cincuenta aniversario de la apertura del Concilio Vaticano II, y terminará en la solemnidad de Jesucristo, Rey del Universo, el 24 de noviembre de 2013. En la fecha del 11 de octubre de 2012, se celebrarán también los veinte años de la publicación del Catecismo de la Iglesia Católica, promulgado por mi Predecesor, el beato Papa Juan Pablo II,[3]con la intención de ilustrar a todos los fieles la fuerza y belleza de la fe. Este documento, auténtico fruto del Concilio Vaticano II, fue querido por el Sínodo Extraordinario de los Obispos de 1985 como instrumento al servicio de la catequesis[4], realizándose mediante la colaboración de todo el Episcopado de la Iglesia católica. Y precisamente he convocado la Asamblea General del Sínodo de los Obispos, en el mes de octubre de 2012, sobre el tema de La nueva evangelización para la transmisión de la fe cristiana. Será una buena ocasión para introducir a todo el cuerpo eclesial en un tiempo de especial reflexión y redescubrimiento de la fe. No es la primera vez que la Iglesia está llamada a celebrar un Año de la fe. Mi venerado Predecesor, el Siervo de Dios Pablo VI, proclamó uno parecido en 1967, para conmemorar el martirio de los apóstoles Pedro y Pablo en el décimo noveno centenario de su supremo testimonio. Lo concibió como un momento solemne para que en toda la Iglesia se diese «una auténtica y sincera profesión de la misma fe»; además, quiso que ésta fuera confirmada de manera «individual y colectiva, libre y consciente, interior y exterior, humilde y franca»[5]. Pensaba que de esa manera toda la Iglesia podría adquirir una «exacta conciencia de su fe, para reanimarla, para purificarla, para confirmarla y para confesarla»[6]. Las grandes transformaciones que tuvieron lugar en aquel Año, hicieron que la necesidad de dicha celebración fuera todavía más evidente. Ésta concluyó con la Profesión de fe del Pueblo de Dios[7], para testimoniar cómo los contenidos esenciales que desde siglos constituyen el patrimonio de todos los creyentes tienen necesidad de ser confirmados, comprendidos y profundizados de manera siempre nueva, con el fin de dar un testimonio coherente en condiciones históricas distintas a las del pasado.
5. En ciertos aspectos, mi Venerado Predecesor vio ese Año como una «consecuencia y exigencia postconciliar»[8], consciente de las graves dificultades del tiempo, sobre todo con respecto a la profesión de la fe verdadera y a su recta interpretación. He pensado que iniciar el Año de la fecoincidiendo con el cincuentenario de la apertura del Concilio Vaticano II puede ser una ocasión propicia para comprender que los textos dejados en herencia por los Padres conciliares, según las palabras del beato Juan Pablo II, «no pierden su valor ni su esplendor. Es necesario leerlos de manera apropiada y que sean conocidos y asimilados como textos cualificados y normativos del Magisterio, dentro de la Tradición de la Iglesia. […] Siento más que nunca el deber de indicar el Concilio como la gran gracia de la que la Iglesia se ha beneficiado en el siglo XX. Con el Concilio se nos ha ofrecido una brújula segura para orientarnos en el camino del siglo que comienza»[9]. Yo también deseo reafirmar con fuerza lo que dije a propósito del Concilio pocos meses después de mi elección como Sucesor de Pedro: «Si lo leemos y acogemos guiados por una hermenéutica correcta, puede ser y llegar a ser cada vez más una gran fuerza para la renovación siempre necesaria de la Iglesia»[10].
6. La renovación de la Iglesia pasa también a través del testimonio ofrecido por la vida de los creyentes: con su misma existencia en el mundo, los cristianos están llamados efectivamente a hacer resplandecer la Palabra de verdad que el Señor Jesús nos dejó. Precisamente el Concilio, en la Constitución dogmática Lumen gentium, afirmaba: «Mientras que Cristo, “santo, inocente, sin mancha” (Hb 7, 26), no conoció el pecado (cf. 2 Co 5, 21), sino que vino solamente a expiar los pecados del pueblo (cf. Hb 2, 17), la Iglesia, abrazando en su seno a los pecadores, es a la vez santa y siempre necesitada de purificación, y busca sin cesar la conversión y la renovación. La Iglesia continúa su peregrinación “en medio de las persecuciones del mundo y de los consuelos de Dios”, anunciando la cruz y la muerte del Señor hasta que vuelva (cf. 1 Co 11, 26). Se siente fortalecida con la fuerza del Señor resucitado para poder superar con paciencia y amor todos los sufrimientos y dificultades, tanto interiores como exteriores, y revelar en el mundo el misterio de Cristo, aunque bajo sombras, sin embargo, con fidelidad hasta que al final se manifieste a plena luz»[11].
En esta perspectiva, el Año de la fe es una invitación a una auténtica y renovada conversión al Señor, único Salvador del mundo. Dios, en el misterio de su muerte y resurrección, ha revelado en plenitud el Amor que salva y llama a los hombres a la conversión de vida mediante la remisión de los pecados (cf. Hch 5, 31). Para el apóstol Pablo, este Amor lleva al hombre a una nueva vida: «Por el bautismo fuimos sepultados con él en la muerte, para que, lo mismo que Cristo resucitó de entre los muertos por la gloria del Padre, así también nosotros andemos en una vida nueva» (Rm 6, 4). Gracias a la fe, esta vida nueva plasma toda la existencia humana en la novedad radical de la resurrección. En la medida de su disponibilidad libre, los pensamientos y los afectos, la mentalidad y el comportamiento del hombre se purifican y transforman lentamente, en un proceso que no termina de cumplirse totalmente en esta vida. La «fe que actúa por el amor» (Ga 5, 6) se convierte en un nuevo criterio de pensamiento y de acción que cambia toda la vida del hombre (cf. Rm 12, 2;Col 3, 9-10; Ef 4, 20-29; 2 Co 5, 17).
7. «Caritas Christi urget nos» (2 Co 5, 14): es el amor de Cristo el que llena nuestros corazones y nos impulsa a evangelizar. Hoy como ayer, él nos envía por los caminos del mundo para proclamar su Evangelio a todos los pueblos de la tierra (cf. Mt 28, 19). Con su amor, Jesucristo atrae hacia sí a los hombres de cada generación: en todo tiempo, convoca a la Iglesia y le confía el anuncio del Evangelio, con un mandato que es siempre nuevo. Por eso, también hoy es necesario un compromiso eclesial más convencido en favor de una nueva evangelización para redescubrir la alegría de creer y volver a encontrar el entusiasmo de comunicar la fe. El compromiso misionero de los creyentes saca fuerza y vigor del descubrimiento cotidiano de su amor, que nunca puede faltar. La fe, en efecto, crece cuando se vive como experiencia de un amor que se recibe y se comunica como experiencia de gracia y gozo. Nos hace fecundos, porque ensancha el corazón en la esperanza y permite dar un testimonio fecundo: en efecto, abre el corazón y la mente de los que escuchan para acoger la invitación del Señor a aceptar su Palabra para ser sus discípulos. Como afirma san Agustín, los creyentes «se fortalecen creyendo»[12]. El santo Obispo de Hipona tenía buenos motivos para expresarse de esta manera. Como sabemos, su vida fue una búsqueda continua de la belleza de la fe hasta que su corazón encontró descanso en Dios.[13]Sus numerosos escritos, en los que explica la importancia de creer y la verdad de la fe, permanecen aún hoy como un patrimonio de riqueza sin igual, consintiendo todavía a tantas personas que buscan a Dios encontrar el sendero justo para acceder a la «puerta de la fe».
Así, la fe sólo crece y se fortalece creyendo; no hay otra posibilidad para poseer la certeza sobre la propia vida que abandonarse, en un in crescendo continuo, en las manos de un amor que se experimenta siempre como más grande porque tiene su origen en Dios.
8. En esta feliz conmemoración, deseo invitar a los hermanos Obispos de todo el Orbe a que se unan al Sucesor de Pedro en el tiempo de gracia espiritual que el Señor nos ofrece para rememorar el don precioso de la fe. Queremos celebrar este Año de manera digna y fecunda. Habrá que intensificar la reflexión sobre la fe para ayudar a todos los creyentes en Cristo a que su adhesión al Evangelio sea más consciente y vigorosa, sobre todo en un momento de profundo cambio como el que la humanidad está viviendo. Tendremos la oportunidad de confesar la fe en el Señor Resucitado en nuestras catedrales e iglesias de todo el mundo; en nuestras casas y con nuestras familias, para que cada uno sienta con fuerza la exigencia de conocer y transmitir mejor a las generaciones futuras la fe de siempre. En este Año, las comunidades religiosas, así como las parroquiales, y todas las realidades eclesiales antiguas y nuevas, encontrarán la manera de profesar públicamente el Credo.
9. Deseamos que este Año suscite en todo creyente la aspiración a confesar la fe con plenitud y renovada convicción, con confianza y esperanza. Será también una ocasión propicia para intensificar la celebración de la fe en la liturgia, y de modo particular en la Eucaristía, que es «la cumbre a la que tiende la acción de la Iglesia y también la fuente de donde mana toda su fuerza»[14]. Al mismo tiempo, esperamos que el testimonio de vida de los creyentes sea cada vez más creíble. Redescubrir los contenidos de la fe profesada, celebrada, vivida y rezada[15], y reflexionar sobre el mismo acto con el que se cree, es un compromiso que todo creyente debe de hacer propio, sobre todo en este Año.
No por casualidad, los cristianos en los primeros siglos estaban obligados a aprender de memoria el Credo. Esto les servía como oración cotidiana para no olvidar el compromiso asumido con el bautismo. San Agustín lo recuerda con unas palabras de profundo significado, cuando en unsermón sobre la redditio symboli, la entrega del Credo, dice: «El símbolo del sacrosanto misterio que recibisteis todos a la vez y que hoy habéis recitado uno a uno, no es otra cosa que las palabras en las que se apoya sólidamente la fe de la Iglesia, nuestra madre, sobre la base inconmovible que es Cristo el Señor. […] Recibisteis y recitasteis algo que debéis retener siempre en vuestra mente y corazón y repetir en vuestro lecho; algo sobre lo que tenéis que pensar cuando estáis en la calle y que no debéis olvidar ni cuando coméis, de forma que, incluso cuando dormís corporalmente, vigiléis con el corazón»[16].
10. En este sentido, quisiera esbozar un camino que sea útil para comprender de manera más profunda no sólo los contenidos de la fe sino, juntamente también con eso, el acto con el que decidimos de entregarnos totalmente y con plena libertad a Dios. En efecto, existe una unidad profunda entre el acto con el que se cree y los contenidos a los que prestamos nuestro asentimiento. El apóstol Pablo nos ayuda a entrar dentro de esta realidad cuando escribe: «con el corazón se cree y con los labios se profesa» (cf. Rm 10, 10). El corazón indica que el primer acto con el que se llega a la fe es don de Dios y acción de la gracia que actúa y transforma a la persona hasta en lo más íntimo.
A este propósito, el ejemplo de Lidia es muy elocuente. Cuenta san Lucas que Pablo, mientras se encontraba en Filipos, fue un sábado a anunciar el Evangelio a algunas mujeres; entre estas estaba Lidia y el «Señor le abrió el corazón para que aceptara lo que decía Pablo» (Hch 16, 14). El sentido que encierra la expresión es importante. San Lucas enseña que el conocimiento de los contenidos que se han de creer no es suficiente si después el corazón, auténtico sagrario de la persona, no está abierto por la gracia que permite tener ojos para mirar en profundidad y comprender que lo que se ha anunciado es la Palabra de Dios.
Profesar con la boca indica, a su vez, que la fe implica un testimonio y un compromiso público. El cristiano no puede pensar nunca que creer es un hecho privado. La fe es decidirse a estar con el Señor para vivir con él. Y este «estar con él» nos lleva a comprender las razones por las que se cree. La fe, precisamente porque es un acto de la libertad, exige también la responsabilidad social de lo que se cree. La Iglesia en el día de Pentecostés muestra con toda evidencia esta dimensión pública del creer y del anunciar a todos sin temor la propia fe. Es el don del Espíritu Santo el que capacita para la misión y fortalece nuestro testimonio, haciéndolo franco y valeroso.
La misma profesión de fe es un acto personal y al mismo tiempo comunitario. En efecto, el primer sujeto de la fe es la Iglesia. En la fe de la comunidad cristiana cada uno recibe el bautismo, signo eficaz de la entrada en el pueblo de los creyentes para alcanzar la salvación. Como afirma elCatecismo de la Iglesia Católica: «“Creo”: Es la fe de la Iglesia profesada personalmente por cada creyente, principalmente en su bautismo. “Creemos”: Es la fe de la Iglesia confesada por los obispos reunidos en Concilio o, más generalmente, por la asamblea litúrgica de los creyentes. “Creo”, es también la Iglesia, nuestra Madre, que responde a Dios por su fe y que nos enseña a decir: “creo”, “creemos”»[17].
Como se puede ver, el conocimiento de los contenidos de la fe es esencial para dar el propioasentimiento, es decir, para adherirse plenamente con la inteligencia y la voluntad a lo que propone la Iglesia. El conocimiento de la fe introduce en la totalidad del misterio salvífico revelado por Dios. El asentimiento que se presta implica por tanto que, cuando se cree, se acepta libremente todo el misterio de la fe, ya que quien garantiza su verdad es Dios mismo que se revela y da a conocer su misterio de amor[18].
Por otra parte, no podemos olvidar que muchas personas en nuestro contexto cultural, aún no reconociendo en ellos el don de la fe, buscan con sinceridad el sentido último y la verdad definitiva de su existencia y del mundo. Esta búsqueda es un auténtico «preámbulo» de la fe, porque lleva a las personas por el camino que conduce al misterio de Dios. La misma razón del hombre, en efecto, lleva inscrita la exigencia de «lo que vale y permanece siempre»[19]. Esta exigencia constituye una invitación permanente, inscrita indeleblemente en el corazón humano, a ponerse en camino para encontrar a Aquel que no buscaríamos si no hubiera ya venido[20]. La fe nos invita y nos abre totalmente a este encuentro.
11. Para acceder a un conocimiento sistemático del contenido de la fe, todos pueden encontrar en el Catecismo de la Iglesia Católica un subsidio precioso e indispensable. Es uno de los frutos más importantes del Concilio Vaticano II. En la Constitución apostólica Fidei depositum, firmada precisamente al cumplirse el trigésimo aniversario de la apertura del Concilio Vaticano II, el beato Juan Pablo II escribía: «Este Catecismo es una contribución importantísima a la obra de renovación de la vida eclesial... Lo declaro como regla segura para la enseñanza de la fe y como instrumento válido y legítimo al servicio de la comunión eclesial»[21].
Precisamente en este horizonte, el Año de la fe deberá expresar un compromiso unánime para redescubrir y estudiar los contenidos fundamentales de la fe, sintetizados sistemática y orgánicamente en el Catecismo de la Iglesia Católica. En efecto, en él se pone de manifiesto la riqueza de la enseñanza que la Iglesia ha recibido, custodiado y ofrecido en sus dos mil años de historia. Desde la Sagrada Escritura a los Padres de la Iglesia, de los Maestros de teología a los Santos de todos los siglos, el Catecismo ofrece una memoria permanente de los diferentes modos en que la Iglesia ha meditado sobre la fe y ha progresado en la doctrina, para dar certeza a los creyentes en su vida de fe.
En su misma estructura, el Catecismo de la Iglesia Católica presenta el desarrollo de la fe hasta abordar los grandes temas de la vida cotidiana. A través de sus páginas se descubre que todo lo que se presenta no es una teoría, sino el encuentro con una Persona que vive en la Iglesia. A la profesión de fe, de hecho, sigue la explicación de la vida sacramental, en la que Cristo está presente y actúa, y continúa la construcción de su Iglesia. Sin la liturgia y los sacramentos, la profesión de fe no tendría eficacia, pues carecería de la gracia que sostiene el testimonio de los cristianos. Del mismo modo, la enseñanza del Catecismo sobre la vida moral adquiere su pleno sentido cuando se pone en relación con la fe, la liturgia y la oración.
12. Así, pues, el Catecismo de la Iglesia Católica podrá ser en este Año un verdadero instrumento de apoyo a la fe, especialmente para quienes se preocupan por la formación de los cristianos, tan importante en nuestro contexto cultural. Para ello, he invitado a la Congregación para la Doctrina de la Fe a que, de acuerdo con los Dicasterios competentes de la Santa Sede, redacte una Nota con la que se ofrezca a la Iglesia y a los creyentes algunas indicaciones para vivir esteAño de la fe de la manera más eficaz y apropiada, ayudándoles a creer y evangelizar.
En efecto, la fe está sometida más que en el pasado a una serie de interrogantes que provienen de un cambio de mentalidad que, sobre todo hoy, reduce el ámbito de las certezas racionales al de los logros científicos y tecnológicos. Pero la Iglesia nunca ha tenido miedo de mostrar cómo entre la fe y la verdadera ciencia no puede haber conflicto alguno, porque ambas, aunque por caminos distintos, tienden a la verdad[22].
13. A lo largo de este Año, será decisivo volver a recorrer la historia de nuestra fe, que contempla el misterio insondable del entrecruzarse de la santidad y el pecado. Mientras lo primero pone de relieve la gran contribución que los hombres y las mujeres han ofrecido para el crecimiento y desarrollo de las comunidades a través del testimonio de su vida, lo segundo debe suscitar en cada uno un sincero y constante acto de conversión, con el fin de experimentar la misericordia del Padre que sale al encuentro de todos.
Durante este tiempo, tendremos la mirada fija en Jesucristo, «que inició y completa nuestra fe» (Hb12, 2): en él encuentra su cumplimiento todo afán y todo anhelo del corazón humano. La alegría del amor, la respuesta al drama del sufrimiento y el dolor, la fuerza del perdón ante la ofensa recibida y la victoria de la vida ante el vacío de la muerte, todo tiene su cumplimiento en el misterio de su Encarnación, de su hacerse hombre, de su compartir con nosotros la debilidad humana para transformarla con el poder de su resurrección. En él, muerto y resucitado por nuestra salvación, se iluminan plenamente los ejemplos de fe que han marcado los últimos dos mil años de nuestra historia de salvación.
Por la fe, María acogió la palabra del Ángel y creyó en el anuncio de que sería la Madre de Dios en la obediencia de su entrega (cf. Lc 1, 38). En la visita a Isabel entonó su canto de alabanza al Omnipotente por las maravillas que hace en quienes se encomiendan a Él (cf. Lc 1, 46-55). Con gozo y temblor dio a luz a su único hijo, manteniendo intacta su virginidad (cf. Lc 2, 6-7). Confiada en su esposo José, llevó a Jesús a Egipto para salvarlo de la persecución de Herodes (cf. Mt 2, 13-15). Con la misma fe siguió al Señor en su predicación y permaneció con él hasta el Calvario (cf. Jn19, 25-27). Con fe, María saboreó los frutos de la resurrección de Jesús y, guardando todos los recuerdos en su corazón (cf. Lc 2, 19.51), los transmitió a los Doce, reunidos con ella en el Cenáculo para recibir el Espíritu Santo (cf. Hch 1, 14; 2, 1-4).
Por la fe, los Apóstoles dejaron todo para seguir al Maestro (cf. Mt 10, 28). Creyeron en las palabras con las que anunciaba el Reino de Dios, que está presente y se realiza en su persona (cf.Lc 11, 20). Vivieron en comunión de vida con Jesús, que los instruía con sus enseñanzas, dejándoles una nueva regla de vida por la que serían reconocidos como sus discípulos después de su muerte (cf. Jn 13, 34-35). Por la fe, fueron por el mundo entero, siguiendo el mandato de llevar el Evangelio a toda criatura (cf. Mc 16, 15) y, sin temor alguno, anunciaron a todos la alegría de la resurrección, de la que fueron testigos fieles.
Por la fe, los discípulos formaron la primera comunidad reunida en torno a la enseñanza de los Apóstoles, la oración y la celebración de la Eucaristía, poniendo en común todos sus bienes para atender las necesidades de los hermanos (cf. Hch 2, 42-47).
Por la fe, los mártires entregaron su vida como testimonio de la verdad del Evangelio, que los había trasformado y hecho capaces de llegar hasta el mayor don del amor con el perdón de sus perseguidores.
Por la fe, hombres y mujeres han consagrado su vida a Cristo, dejando todo para vivir en la sencillez evangélica la obediencia, la pobreza y la castidad, signos concretos de la espera del Señor que no tarda en llegar. Por la fe, muchos cristianos han promovido acciones en favor de la justicia, para hacer concreta la palabra del Señor, que ha venido a proclamar la liberación de los oprimidos y un año de gracia para todos (cf. Lc 4, 18-19).
Por la fe, hombres y mujeres de toda edad, cuyos nombres están escritos en el libro de la vida (cf.Ap 7, 9; 13, 8), han confesado a lo largo de los siglos la belleza de seguir al Señor Jesús allí donde se les llamaba a dar testimonio de su ser cristianos: en la familia, la profesión, la vida pública y el desempeño de los carismas y ministerios que se les confiaban.
También nosotros vivimos por la fe: para el reconocimiento vivo del Señor Jesús, presente en nuestras vidas y en la historia.
14. El Año de la fe será también una buena oportunidad para intensificar el testimonio de la caridad. San Pablo nos recuerda: «Ahora subsisten la fe, la esperanza y la caridad, estas tres. Pero la mayor de ellas es la caridad» (1 Co 13, 13). Con palabras aún más fuertes —que siempre atañen a los cristianos—, el apóstol Santiago dice: «¿De qué le sirve a uno, hermanos míos, decir que tiene fe, si no tiene obras? ¿Podrá acaso salvarlo esa fe? Si un hermano o una hermana andan desnudos y faltos de alimento diario y alguno de vosotros les dice: “Id en paz, abrigaos y saciaos”, pero no les da lo necesario para el cuerpo, ¿de qué sirve? Así es también la fe: si no se tienen obras, está muerta por dentro. Pero alguno dirá: “Tú tienes fe y yo tengo obras, muéstrame esa fe tuya sin las obras, y yo con mis obras te mostraré la fe”» (St 2, 14-18).
La fe sin la caridad no da fruto, y la caridad sin fe sería un sentimiento constantemente a merced de la duda. La fe y el amor se necesitan mutuamente, de modo que una permite a la otra seguir su camino. En efecto, muchos cristianos dedican sus vidas con amor a quien está solo, marginado o excluido, como el primero a quien hay que atender y el más importante que socorrer, porque precisamente en él se refleja el rostro mismo de Cristo. Gracias a la fe podemos reconocer en quienes piden nuestro amor el rostro del Señor resucitado. «Cada vez que lo hicisteis con uno de estos, mis hermanos más pequeños, conmigo lo hicisteis» (Mt 25, 40): estas palabras suyas son una advertencia que no se ha de olvidar, y una invitación perenne a devolver ese amor con el que él cuida de nosotros. Es la fe la que nos permite reconocer a Cristo, y es su mismo amor el que impulsa a socorrerlo cada vez que se hace nuestro prójimo en el camino de la vida. Sostenidos por la fe, miramos con esperanza a nuestro compromiso en el mundo, aguardando «unos cielos nuevos y una tierra nueva en los que habite la justicia» (2 P 3, 13; cf. Ap 21, 1).
15. Llegados sus últimos días, el apóstol Pablo pidió al discípulo Timoteo que «buscara la fe» (cf. 2 Tm 2, 22) con la misma constancia de cuando era niño (cf. 2 Tm 3, 15). Escuchemos esta invitación como dirigida a cada uno de nosotros, para que nadie se vuelva perezoso en la fe. Ella es compañera de vida que nos permite distinguir con ojos siempre nuevos las maravillas que Dios hace por nosotros. Tratando de percibir los signos de los tiempos en la historia actual, nos compromete a cada uno a convertirnos en un signo vivo de la presencia de Cristo resucitado en el mundo. Lo que el mundo necesita hoy de manera especial es el testimonio creíble de los que, iluminados en la mente y el corazón por la Palabra del Señor, son capaces de abrir el corazón y la mente de muchos al deseo de Dios y de la vida verdadera, ésa que no tiene fin.
«Que la Palabra del Señor siga avanzando y sea glorificada» (2 Ts 3, 1): que este Año de la fehaga cada vez más fuerte la relación con Cristo, el Señor, pues sólo en él tenemos la certeza para mirar al futuro y la garantía de un amor auténtico y duradero. Las palabras del apóstol Pedro proyectan un último rayo de luz sobre la fe: «Por ello os alegráis, aunque ahora sea preciso padecer un poco en pruebas diversas; así la autenticidad de vuestra fe, más preciosa que el oro, que, aunque es perecedero, se aquilata a fuego, merecerá premio, gloria y honor en la revelación de Jesucristo; sin haberlo visto lo amáis y, sin contemplarlo todavía, creéis en él y así os alegráis con un gozo inefable y radiante, alcanzando así la meta de vuestra fe; la salvación de vuestras almas» (1 P1, 6-9). La vida de los cristianos conoce la experiencia de la alegría y el sufrimiento. Cuántos santos han experimentado la soledad. Cuántos creyentes son probados también en nuestros días por el silencio de Dios, mientras quisieran escuchar su voz consoladora. Las pruebas de la vida, a la vez que permiten comprender el misterio de la Cruz y participar en los sufrimientos de Cristo (cf.Col 1, 24), son preludio de la alegría y la esperanza a la que conduce la fe: «Cuando soy débil, entonces soy fuerte» (2 Co 12, 10). Nosotros creemos con firme certeza que el Señor Jesús ha vencido el mal y la muerte. Con esta segura confianza nos encomendamos a él: presente entre nosotros, vence el poder del maligno (cf. Lc 11, 20), y la Iglesia, comunidad visible de su misericordia, permanece en él como signo de la reconciliación definitiva con el Padre.Confiemos a la Madre de Dios, proclamada «bienaventurada porque ha creído» (Lc 1, 45), este tiempo de gracia.
Dado en Roma, junto a San Pedro, el 11 de octubre del año 2011, séptimo de mi Pontificado.
BENEDICTO XVI
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