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lunedì 25 settembre 2017

La morte, ma non peccati

La morte ma non peccati

IL SUICIDIO SPIRITUALE

Che cosa è il peccato mortale?

E' la morte e la tomba dell'anima. Colui che commette una colpa grave, priva se stesso della Grazia santificante, uccide il suo spirito, lo copre come di un velo mortuario, lo chiude nella fossa; e se non lo risuscita con la penitenza, un'eternità di tormenti l'avvolgerà tra le sue fiamme divoratrici. In una parola, il peccato mortale è un suicidio spirituale.

Che cosa è il peccato veniale?

E' la malattia dell'anima, è la lebbra del nostro spirito, che lo rende schifoso. Il peccato veniale non dà la morte all'anima, non la priva della grazia di Dio; ma la ferisce, la piaga, la copre come di un'ulcera. E come un'infermità che non è curata può condurre alla fossa, così la colpa veniale può disporre e condurre l'anima alla sua morte, cioè al peccato mortale.

Ah! se noi sentissimo i mali spirituali, come sentiamo le disgrazie temporali, e fossimo più sensibili dinanzi all'eternità che dinanzi al tempo, muteremmo idea intorno all'offesa di Dio (1). 

(1) Cristo pianse alla tomba del diletto amico Lazzaro. I santi Padri, commentando il fatto, asseriscono che quelle lacrime divine furono versate non già sul defunto che doveva tra poco rivivere, ma sulla morte dell'umanità peccatrice, di cui quella di Lazzaro era figura.

Quanta sollecitudine per la nostra salute corporale! E quanta noncuranza per la sanità spirituale! Appena abbiamo qualche raffreddore o una febbriciattola, corriamo subito dal medico a domandar medicine, sospendiamo il lavoro e sconvolgiamo mezzo mondo. Invece, se ci accade di cadere in peccato, crolliamo le spalle ci adagiamo in una deplorevole indifferenza, lasciando che la nostra povera anima languisca, senza curarci dei rimedi così facili ed abbondanti che il buon Dio ci ha acquistato, a costo del suo preziosissimo Sangue, sul Calvario.

Un giorno il re di Francia San Luigi discorreva con un cortigiano dell'enormità del peccato. Ad un tratto gli domandò se amava meglio diventar lebbroso od offendere il Signore. Il cavaliere, che si intendeva più di guerre e di armi che di religione, uscì in questo sproposito: « Preferirei commettere qualunque peccato, piuttosto che prendermi tale malattia! ». « Ed io, replicò commosso il generoso re, sceglierei cento volte la lebbra, piuttosto che una sola offesa di Dio ».

Questa risposta pare sublime, straordinaria, eroica e da lasciarsi solamente al fervore magnanimo dei Santi. Ma c'inganniamo. E' un sentimento che dovrebbe avere ogni cristiano, ogni religioso; è un sentimento che dovrebbe essere ordinario, naturale, comune a tutti quelli che credono in un Dio disceso dal Cielo e morto su un abominevole legno per espiare il peccato.

Nel Medio Evo era assai comune in Europa l'orribile malattia della lebbra, trasportata dall'Oriente con le Crociate; ed in molti luoghi si edificavano lazzaretti o lebbrosari per raccogliere quei disgraziati. Ora alcuni impetrarono dal Signore il terribile malore per espiare i loro peccati e farne penitenza in questa vita. Essi avevano certamente una giusta idea dell'offesa di Dio; e pesavano i mali temporali ed i mali eterni sulla bilancia del Vangelo.

Conosco un sacerdote religioso che fu visitato da Dio con una lunga malattia, la quale lo tiene continuamente sull'orlo della tomba. Molte sono le sue sofferenze fisiche e morali. Egli era nel flore dell'età, aveva le più belle speranze di lavorare nella vigna della Chiesa, sognava infinite conversioni di anime, quando ad un tratto il Signore lo colpì di una inesorabile malattia che troncò tutte le sue aspirazioni. Nelle ore di sconforto, nei momenti in cui sente tutto il peso dei suoi mali e la natura piange tante belle speranze svanite, egli ragiona così: « Che cosa è dopo tutto questa mia malattia? E' una disgrazia inferiore a un solo peccato veniale. Io dovrei piangere assai più amaramente il più piccolo peccato commesso, che non la sanità perduta. Coraggio, dunque, anima mia, che non sei infelice; più infelice è chi offende Dio ». Questo pensiero lo sostiene, lo conforta e gli rende dolce il patire.

Quel caro giovanetto, Domenico Savio, che profumò con le sue virtù l'Oratorio di S. Francesco di Sales, quasi cespuglio di rose nei lieti giorni di primavera, aveva preso per suo programma queste generose parole: « La morte, ma non peccati ». E con la grazia di Dio fu fedele. Chi lo conobbe assicura che nessuna ombra di peccato macchiò la candida stola della sua innocenza.

AMDG et BVM