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venerdì 4 agosto 2017

LA GUERRA DEI VESCOVI


SI',  VESCOVI 
contro il Motu Proprio “ Summorum Pontificum cura ”

7.7.2007

Un esempio emblematico
L'Arcivescovo di Torino intimidisce i suoi presbiteri

presentazione nota commento


Nostra presentazione
Fin da quando si accennò della possibile pubblicazione di un documento sulla liberalizzazione dell’uso della liturgia tradizionale, or sono quasi 2 anni fa, abbiamo assistito alla massiccia mobilitazione di vescovi e cardinali che, insieme a certi preti da battaglia, si sono impegnati perché una “così grande iattura” non piombasse sulla Chiesa e sui fedeli.
Appena promulgato il Motu Proprio Summorum Pontificum cura, questi signori hanno dovuto prendere atto del fatto compiuto e hanno morso nervosamente il freno per la loro impotenza di fronte alla determinazione del Santo Padre, che ha avuto primariamente in vista il bene della Santa Chiesa e la salvezza delle ànime.
Entrato in vigore il Motu Proprio, i ribelli si sono affrettati a rivestirsi della loro immeritata autorità per lanciare disposizioni e produrre iniziative atte a contrastare e a vanificare la espressa e precisa volontà del Sovrano Pontefice.
Opposizione ad ogni Autorità che non sia la loro: è questa la divisa di lor signori. 
Le notizie relative al vecchio Carlo Maria Martini, scopertosi affetto da una grave forma di allergia da “vecchiume” , o al signor Dionigi Tettamanzi, afflitto da attacchi acuti di contorcimenti pseudo-canonici, o a tale Luca Brandolini, assalito da groppi alla gola e fiotti di lacrime, o al paonazzo Alessandro Plotti sempre dedito alla persecuzione dei cattolici toscani, o all’extraterrestre Sebastiano Dho, che non vede, non sente, ma parla, o ai cattocomunisti dossettiani intenti ad una maniacale  lacerazione delle vesti, hanno riempito le pagine di tanti giornali e di tanti siti internet.
Poco si è saputo invece delle riunioni segrete, o quasi, svoltesi qua e là in tante “regioni pastorali”; e quasi niente si è saputo dei richiami pesanti, delle minacce e dei ricatti a cui sono stati sottoposti tanti sacerdoti desiderosi di celebrare col Vetus Ordo.
La notizia che segue viene dall’Arcidiocesi di Torino e la pubblichiamo perché è emblematicamente riassuntiva della situazione allo stato attuale.
Si tratta di una notizia di “prima mano”, redatta cioè da persone direttamente interessate, le quali, per ovvie ragioni, sono costrette all’anonimato.
La riunione di cui si parla si è tenuta il 2 ottobre scorso.
Ci facciamo carico noi della responsabilità del contenuto e, anzi, aggiungiamo, a parte, qualche precisazione.
La pubblichiamo così come ci è giunta e come l’abbiamo trasmessa ai responsabili della Curia Romana.


CARDINAL POLETTO: 
“A TORINO CI SONO I PICCHIATI DEL LATINO”
In un recente incontro con il clero giovane, dei primi dieci anni di ordinazione sacerdotale, l’arcivescovo di Torino, il Card. Severino Poletto, ha voluto unire la sua voce all’inopportuno coro dei “critici” del Motu Proprio del Santo Padre Benedetto XVI, con il suo dire, non proprio ecclesiale.
Il porporato si è premurato di “intimorire” i giovani preti, mettendoli ben in guardia dal celebrare la Santa Messa nella forma straordinaria del Rito Latino, dicendo: “La liturgia […] non può essere una stravaganza personale [...]. Mi auguro che nella diocesi di Torino nessuno esca con queste richieste ”.
Forse l’Eminenza ha dimenticato che il Motu Propriosottrae definitivamente alla discrezione dei Vescovi la “concessione” della Messa Tridentina, affermando che essa non è che una delle due forme possibili ed attuali del Rito Latino.
Come se non bastasse, con una grave caduta di stile, sono stati definiti "picchiati" (Sic!) quelli che amano il latino, con esplicito riferimento all’Arciconfraternita della Misericordia di Torino.
Ha affermato il Cardinale Poletto, davanti ai suoi giovani preti, in formazione: “A Torino ci sono i picchiati del latino, quelli che vanno alla Misericordia! ”

Nessuno dei partecipanti alla Santa Messa domenicale presso la chiesa tenuta dall’Arciconfraternita della Misericordia, si può riconoscere nella “definizione” del Cardinale Poletto, che è priva di rispetto sia per le persone sia per il loro sentimento religioso. Evidentemente siamo davvero in un’epoca in cui si rispettano, giustamente, i pagani appartenenti ad altre religioni, mentre si scatena la più violenta avversione ideologica contro i fratelli che, semplicemente, desiderano pregare il Signore Gesù.
Ma, soprattutto, una domanda sorge spontanea: che l’illustre porporato non intenda dare del “picchiato del latino” anche al Sommo Pontefice, il Papa Benedetto XVI, il quale è uscito con questa "stravaganza personale"?

Cara Eminenza, i “picchiati del latino”, evidentemente, non sono solo a Torino, ma anche a Roma, nella Santa Sede a cui Lei deve obbedienza.


Un breve commento
Il Cardinale conosce bene i suoi rampolli, poiché non si sarebbe preoccupato di convocare a parte i preti “giovani” se non avesse il sospetto che almeno alcuni di loro potrebbero essere tentati di celebrare la S. Messa tradizionale.
Un rapporto di fiducia alquanto strano, sia con i suoi presbiteri, che lui stesso ha ordinati, sia con sé stesso !
In ogni caso, egli ha commesso un doppio errore.
Da un lato il suo rimbrotto verrà inteso dai probabili fautori della S. Messa tradizionale come una conferma della necessità che qualcuno si decida a celebrarla questa Messa rivalutata dal Santo Padre, se non altro per dar seguito agli stessi auspici del Papa, magari proprio per contrastare le incredibili opinioni personali di certi vescovi e di certi cardinali.
Dall’altro lato, il pesante intervento del Cardinale solleverà non pochi interrogativi nell’ànimo dei restanti “giovani” preti. Essi sanno infatti che il Cardinale usa ricordare che “la Chiesa sono io” (la Chiesa di Torino, ovviamente) ed è inevitabile che finiscano col chiedersi se per caso il Cardinale non esageri un po’. Che si sia messo in testa che lui è anche la Chiesa a Roma ?!
Dopo quest’ultima uscita, chi scommetterebbe sul residuo prestigio del Cardinale?
Come non stupirsi, poi, del richiamo del Cardinale circa “la liturgia [che] non può essere una stravaganza personale”?
Chi è entrato in Duomo a Torino in questi ultimi tre anni ha potuto godere dei risultati della “ristrutturazione” del presbiterio. Il luogo cioè dove il Pastore della Diocesi celebra solennemente la liturgia pontificale della Chiesa cattolica.
- Non solo è scomparsa la balaustra, orribile marchingegno che “separava” il Cardinale dai fedeli.
- Non solo è stato aggiunto un bellissimo nuovo altare che ricorda da vicino le pietre sacrificali dei Maya.
- Ma soprattutto è stato collocato davanti e in mezzo al vecchio obsoleto “altar maggiore” un soppalco ben rialzato su cui è poggiato un gigantesco sedile ove si introna regolarmente il Cardinale.
Finalmente i fedeli possono godere della sua vista proprio guardandolo dal basso in alto, come si addice a sudditi fedeli.
I preti convocati si sono certo meravigliati che il Cardinale definisse “picchiati del latino” i fedeli della sua Diocesi che da 18 anni seguono la S. Messa tradizionale alla chiesa della Misericordia, ma sicuramente perché non sono abituati a sentire le esclamazioni offensive che il Cardinale rivolge a questi fedeli fin da quando è giunto a Torino, nel 1999. Chi lo conosce sa benissimo che il Cardinale si compiace spesso, per esempio, di invitare i fedeli della Misericordia “a vergognarsi”. E tutto perché sono fedeli alla liturgia millenaria della Chiesa, cosa che a Lui non passa neanche per l’anticamera del cervello.
Per ciò che riguarda il rapporto tra il Cardinale di Torino e il Papa, i nostri amici si chiedono se per caso il Cardinale non pensi male anche del Papa.
Evidentemente non sanno che il Cardinale è fra quelli che, obbedendo ad un certo ordine di scuderia, si sono mobilitati, già più di un anno fa, per cercare di impedire che Benedetto XVI pubblicasse il Motu Proprio Summorum Pontificum cura.
Certo, è davvero ridicolo supporre che egli potesse anche solo pensare di bloccare il Papa, ma ciò nonostante non si è affatto risparmiato per fare la sua parte, nel suo piccolo. Da buon gregario ha portato la sua pietruzza al cantiere.
Peccato per lui che, con l’aiuto di Dio, il cantiere sta per essere chiuso e presto resterà disoccupato.
Deo gratias.

pregh. in latino:  http://gerardoms.blogspot.it/2015/01/conchiglia-hortatur-ut-orationes.html

AMDG et BVM

giovedì 27 luglio 2017

TEMPI DI EMERGENZA!

In nomine Patris, et Filii et Spiritus Sancti.
"Sancte Michaël Archangele, defende nos in proelio;
contra nequitiam et insidias diaboli esto praesidium.
Imperet illi Deus, supplices deprecamur: tuque,
Princeps militiae caelestis,
satanam aliosque spiritus malignos,
qui ad perditionem animarum pervagantur in mundo,
divina virtute in infernum detrude.
Amen".





http://www.conchiglia.net/LATINO/Riflessioni/12_Riflessioni_MONOS_2011_La_Lingua_Latina.pdf

AMDG et BVM

giovedì 6 luglio 2017

La lingua latina, la bellezza della liturgia, la preghiera 'ad Orientem'


La lingua latina, 
la bellezza della liturgia, 
la preghiera 'ad Orientem' 

Pubblichiamo tre importanti contributi di Padre Uwe Michael Lang: 

L'evoluzione storica della lingua liturgica nel rito romano, 

La bellezza materiale e concretissima della liturgia; 

L'orientamento della preghiera nella Messa. 

Il latino vincolo di unità fra popoli e culture 
di Uwe Michael Lang 

L' unità culturale e politica del mondo mediterraneo fu un fattore provvidenziale nella diffusione della fede cristiana. In particolare, la diffusione della lingua greca nei centri urbani dell'Impero Romano favorì l'annuncio del Vangelo. 
Il greco parlato a Oriente e Occidente non era l'idioma classico, bensì la koiné semplificata, il linguaggio comune delle varie nazioni della parte orientale del mondo mediterraneo: Grecia, Asia Minore, Siria, Palestina ed Egitto. 
La koiné greca era anche la lingua del proletariato urbano in Occidente che vi era emigrato dai territori orientali dell'Impero. Roma era divenuta una città multi-etnica e multi-culturale. In essa viveva anche una consistente popolazione ebraica, che sembra parlasse principalmente il greco. 
La lingua delle prime comunità cristiane a Roma era il greco. Ciò risulta evidente dalla Lettera ai Romani di Paolo e dalle prime opere letterarie cristiane che videro la luce a Roma, per esempio la Prima Lettera di Clemente, il Pastore di Erma e gli scritti di Giustino. 

Nei primi due secoli si avvicendarono parecchi papi con nomi greci e le iscrizioni tombali cristiane erano composte in greco. Durante questo periodo, greca era anche la lingua comune della liturgia romana. 

Lo spostamento verso il latino non cominciò a Roma, ma nell'Africa settentrionale, dove i convertiti al cristianesimo erano in maggioranza nativi di lingua madre latina piuttosto che immigrati greco parlanti. Verso la metà del terzo secolo questa transizione era molto avanzata: membri del clero romano scrivevano a Cipriano di Cartagine in latino; latina era anche la lingua in cui Novaziano compose il suo De trinitate e altre opere, citando una versione latina esistente della Bibbia. Nessun riferimento si fa qui alla cosiddetta Traditio Apostolica, attribuita a Ippolito da Roma, a causa dell'incertezza sulla data, sull'origine e sul vero autore. 

Sembrerebbe che nella seconda metà del terzo secolo il flusso immigratorio dall'Oriente verso Roma diminuisse. Questo cambio demografico comportò un peso crescente dei nativi latino parlanti nella vita della Chiesa di Roma. Ciò nonostante il greco continuò ad essere usato nella liturgia romana, almeno a un certo livello, fino alla seconda metà del IV secolo; questo si evince da una citazione greca della preghiera eucaristica nell'autore latino Mario Vittorino, risalente al 360. 

Intorno a quell'epoca, comunque, la transizione al latino era in fase molto avanzata; ciò risulta molto evidente da un autore altrimenti sconosciuto che scrive fra il 374 e il 382, il quale sostiene che la preghiera eucaristica a Roma si riferisce a Melchisedek come summus sacerdos - un titolo che ci suona familiare dal più tardo Canone della messa. 

La più importante risorsa per la storia della prima liturgia latina è Ambrogio di Milano. Nel suo De sacramentis, una serie di catechesi per i neo battezzati tenute intorno al 390, egli cita estesamente la preghiera eucaristica usata a quell'epoca a Milano. I passaggi citati sono le forme più antiche delle preghiere Quam oblationem, Qui pridie, Unde et memores, Supra quae, e Supplices te rogamus del Canone Romano. 

Altrove, nel De sacramentis, Ambrogio sottolinea il suo desiderio di seguire l'uso della Chiesa romana in tutto; per questa ragione, possiamo ritenere con certezza che questa preghiera eucaristica fosse di origine romana. Anche nei sermoni di Zeno, vescovo di Verona dal 362 al 372, ci sono tracce che attestano la diffusione geografica di questa forma originaria del Canone Romano. La formulazione letterale delle preghiere citate da Ambrogio non è sempre identica al Canone che Gregorio Magno promulgò alla fine del VI secolo ed è giunto fino a noi con poche modifiche di scarso rilievo rispetto ai libri liturgici più antichi, specialmente il vecchio Sacramentario Gelasiano, risalente alla metà dell'VIII secolo, ma ritenuto eco di usi liturgici più antichi. 

In ogni caso le differenze fra questi due testi sono di gran lunga inferiori alle loro somiglianze, dato che i quasi trecento anni intercorrenti fra di essi furono un periodo di intenso sviluppo liturgico. Il passaggio dal greco al latino nella liturgia romana avvenne gradualmente e fu completato sotto il pontificato di Damaso I (366-384). Da allora in poi la liturgia a Roma fu celebrata in latino, con l'eccezione di poche reminiscenze dell'uso più antico, come il Kyrie eleison nell'Ordo e le letture in greco nella messa papale. Stando a Ottato di Milevi, che scrive intorno al 360, c'erano più di quaranta chiese a Roma prima dell'editto di Costantino. Se questa informazione è vera, sarebbe ragionevole opinare che ci fossero comunità latino parlanti nel III secolo, se non prima, che celebravano la liturgia in latino, in particolare la lettura della Sacra Scrittura. 

I Salmi erano stati cantati in latino sin dalle origini e l'antica versione usata nella liturgia aveva acquisito una tale aura di sacralità che Girolamo la corresse soltanto con molta cautela. In seguito egli tradusse il Salterio dall'ebraico non per uso liturgico, come disse, ma per fornire un testo agli studiosi e al dibattito. 
Christine Mohrmann suggerisce che la liturgia battesimale fosse tradotta in latino sin dal II secolo. Nessuna certezza si può avere su questi punti, ma è chiaro che ci fu un periodo di transizione e che esso fu lungo. 

Mohrmann introduce una distinzione utile fra, primo, "testi di preghiera", dove la lingua è soprattutto un mezzo di espressione, secondo, testi "destinati a essere letti, l'Epistola e il Vangelo", e, terzo, "testi confessionali", come il credo. 
Nei testi di preghiera ci troviamo di fronte a modi di esprimersi; negli altri primariamente a forme di comunicazione. Recenti ricerche su lingua e rito, come l'opera di Catherine Bell, confermano l'intuizione di Mohrmann che la lingua ha differenti funzioni in differenti parti della liturgia, che vanno oltre la mera comunicazione o informazione. Queste riflessioni teoretiche ci aiutano a capire lo sviluppo della prima liturgia romana: quelle parti in cui gli elementi di comunicazione erano prevalenti, come la lettura delle Scritture, furono tradotte prima, mentre la preghiera eucaristica continuò ad essere recitata in greco per un periodo molto più lungo. La "sociolinguistica" - una disciplina accademica relativamente nuova - ci mette in guardia sul fatto che la scelta di una lingua rispetto a un'altra non è mai questione neutrale o trasparente. Di conseguenza è importante considerare il cambio dal greco al latino nella liturgia romana nei suoi contesti storici, sociali e culturali. Gli storici dell'antichità hanno indicato che la formazione di lingua latina liturgica fece parte di uno sforzo a largo raggio di cristianizzazione della cultura e della civiltà romana. 
Nella seconda metà del IV secolo i vescovi più influenti in Italia, soprattutto Damaso a Roma e Ambrogio a Milano, erano impegnati a cristianizzare la cultura dominante dei loro giorni. Nella città di Roma c'era una forte presenza pagana e specialmente l'aristocrazia continuava ad aderire ai vecchi costumi, anche se nominalmente erano divenuti cristiani. Roma non era più il centro del potere politico, ma la sua cultura continuava ad avere radici nella mentalità delle sue elites. Il IV secolo è ora considerato un periodo di rinascimento letterario, con un rinnovato interesse per i "classici" della poesia e della prosa romane. Gli imperatori del IV secolo coltivarono questa Latinitas, e ci fu una riscoperta del latino anche ad Oriente. 
Con tenacia caratteristica, Roma mantenne le sue antiche tradizioni. 

In relazione a ciò, i papi del tardo IV secolo promossero un progetto consapevole e comprensivo di appropriazione dei simboli della civiltà romana da parte della fede cristiana. Parte di questo tentativo fu l'appropriazione di spazio pubblico tramite impegnativi progetti edilizi. Dopo che gli Imperatori della dinastia di Costantino avevano dato il via con le monumentali basiliche del Laterano e San Pietro, come pure con le basiliche dei cimiteri fuori delle mura urbane, i papi continuarono questo programma edilizio che avrebbe trasformato Roma in una città dominata da chiese. Il progetto più prestigioso fu la costruzione di una nuova basilica dedicata a San Paolo sulla Via Ostiense, sostituendo il piccolo edificio costantiniano con una nuova chiesa simile per dimensioni a San Pietro. 
Un altro aspetto importante fu l'appropriazione del tempo pubblico con un ciclo di feste cristiane lungo il corso dell'anno al posto delle celebrazioni pagane (vedi il calendario Filocaliano dell'anno 354). 

La formazione del latino liturgico fece parte di questo sforzo omnicomprensivo di evangelizzare la cultura classica. Christine Mohrmann ravvisa in essa il fortuito combinarsi di un rinnovamento della lingua, ispirato dalla novità della rivelazione, e di un tradizionalismo stilistico fermamente radicato nel mondo romano. 

Il latino liturgico ha la gravitas romana ed evita l'esuberanza dello stile di preghiera dell'Oriente cristiano, che si ritrova anche nella tradizione gallicana. 
Questa non fu un'adozione della lingua "vernacola" nella liturgia, dato che il latino del Canone Romano, delle collette e dei prefazi della messa, fu rimosso dall'idioma della gente comune. 
Essa era una lingua fortemente stilizzata che difficilmente avrebbe capito un cristiano medio di Roma della tarda antichità, considerato specialmente che il livello di istruzione era molto basso rispetto ai nostri tempi. 
Inoltre lo sviluppo della Latinitas cristiana può avere reso la liturgia più accessibile alla gente di Milano o Roma, ma non necessariamente a coloro la cui lingua madre era il gotico, il celtico, l'iberico o il punico. 

È possibile immaginare una Chiesa occidentale con lingue locali nella sua liturgia, come in Oriente, dove, in aggiunta al greco, erano usati il siriano, il copto, l'armeno, il georgiano e l'etiope. 
Ad ogni modo la situazione in Occidente era fondamentalmente differente; la forza unificatrice del papato era tale che il latino divenne l'unica lingua liturgica. Questo fu un fattore importante per favorire la coesione ecclesiastica, culturale e politica. 

6/7/2017 diocesiportosantarufina.it: La lingua latina, la bellezza della liturgia, la preghiera 'ad Orientem' http://www.diocesiportosantarufina.it/home/news_print.php?neid=822 3/7 

Il latino liturgico fu sin dai primordi una lingua sacra separata dalla lingua del popolo; tuttavia la distanza divenne maggiore con lo sviluppo delle culture e delle lingue nazionali in Europa, per non menzionare i territori di missione. "La prima opposizione al latino liturgico - ha scritto Christine Mohrmann - coincise con la fine del latino medievale come "seconda lingua viva", che fu rimpiazzato da una lingua veramente "morta", il latino degli umanisti. E l'opposizione dei nostri giorni al latino liturgico ha qualcosa a che fare con l'indebolimento dello studio del latino - e con la tendenza al "secolarismo"" 
("The Ever-Recurring Problem of Language in the Church", in Études sur le latin des chrétiens, IV, Roma, 1977)

Il Concilio Vaticano II volle risolvere la questione estendendo l'uso del vernacolo nella liturgia, soprattutto nelle letture (Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 2). 

Allo stesso tempo, esso sottolineò che "l'uso della lingua latina ... sia conservato nei riti latini" (Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 1; cfr anche art. 54). I Padri conciliari non immaginavano che la lingua sacra della Chiesa occidentale sarebbe stata rimpiazzata dal vernacolo. La frammentazione linguistica del culto cattolico nel periodo post-conciliare si è spinta così oltre che la maggioranza dei fedeli oggi può a stento recitare un Pater noster insieme agli altri, come si può notare nelle riunioni internazionali a Roma o a Lourdes. In un'epoca contrassegnata da grande mobilità e globalizzazione, una lingua liturgica comune potrebbe servire come vincolo di unità fra popoli e culture, a parte il fatto che la liturgia latina è un tesoro spirituale unico che ha alimentato la vita della Chiesa per molti secoli. 
Infine, è necessario preservare il carattere sacro della lingua liturgica nella traduzione vernacola, come fa notare l'istruzione della Santa Sede Liturgiam authenticam del 2001. 
(©L'Osservatore Romano - 15 novembre 2007) 

La bellezza materiale e 
concretissima della liturgia 

di Uwe Michael Lang 

La tradizione sapienziale biblica acclama Dio come "lo stesso autore della bellezza" (Sapienza, 13, 3), glorificandolo per la grandezza e la bellezza delle opere della creazione. 

Il pensiero cristiano, prendendo spunto soprattutto dalla sacra Scrittura, ma anche dalla filosofia classica, ha sviluppato la concezione della bellezza come categoria ontologica, anzi teologica. 

San Bonaventura è stato il primo teologo francescano a includere la bellezza tra le proprietà trascendentali, insieme all'essere, alla verità e alla bontà. I teologi domenicani sant'Alberto Magno e san Tommaso d'Aquino, pur non annoverando la bellezza fra i trascendentali, intraprendono un simile discorso nei loro commentari sul trattato pseudo-dionisiano De divinis nominibus, dove emerge l'universalità della bellezza, la cui prima causa è Dio stesso. 

Nella condizione della modernità, ciò che è contestato è proprio la dimensione trascendente della bellezza, commutabile con la verità e la bontà. La bellezza è stata privata del suo valore ontologico ed è stata ridotta a un'esperienza estetica, addirittura a un mero "sentimento". 

Le conseguenze di questa svolta soggettivista si sentono non solo nel mondo dell'arte. Piuttosto, insieme con la perdita della bellezza come trascendentale, si è persa anche l'evidenza della bontà e della verità. 

Il bene è privo dalla sua forza di attrazione, come il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar ha rilevato con esemplare chiarezza nel suo opus magnum sull'estetica teologica Herrlichkeit (La gloria del Signore). 

Certamente la tradizione cristiana conosce anche un falso tipo di bellezza che non innalza verso Dio e il suo Regno, ma invece trascina lontano dalla verità e bontà e suscita desideri disordinati. Il libro della Genesi rende chiaro che è stata una falsa bellezza a portare al peccato originale. Visto che il frutto dell'albero in mezzo al giardino era un vero piacere per gli occhi (Genesi, 3, 6), la tentazione del serpente provoca Adamo ed Eva alla ribellione contro Dio. Il dramma della caduta dei progenitori fa da sfondo a un passo, ne I Fratelli Karamazov (1880) dello scrittore russo Fëdor Dostoevskij (1821-1881), dove Mitia Karamazov, uno dei protagonisti del romanzo, dice: 
"La cosa paurosa è che la bellezza non solo è terribile, ma è anche un mistero. È qui che Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini". 
Lo stesso Dostoevskij nel suo romanzo L'idiota (1869) mette sulla bocca del suo eroe, il principe Mishkin, le famose parole: "Il mondo sarà salvato dalla bellezza". Dostoevskij non intende qualsiasi bellezza, anzi, si riferisce alla bellezza redentrice di Cristo. 

6/7/2017 diocesiportosantarufina.it: La lingua latina, la bellezza della liturgia, la preghiera 'ad Orientem' http://www.diocesiportosantarufina.it/home/news_print.php?neid=822 4/7 

Nel suo messaggio magistrale per il Meeting di Rimini nel 2002, l'allora cardinale Joseph Ratzinger rifletteva su questo famoso detto di Dostoevskij, trattando l'argomento dalla prospettiva biblico-patristica. Come punto di partenza, egli si serve del salmo 44, letto nella tradizione ecclesiale "come rappresentazione poetico-profetica del rapporto sponsale di Cristo con la Chiesa". In Cristo, "il più bello tra gli uomini", appare la bellezza della Verità, la bellezza di Dio stesso. 
Nell'esegesi di questo salmo, i Padri della Chiesa, come sant'Agostino e san Gregorio di Nissa, accoglievano anche gli elementi più nobili della filosofia greca del bello, mediante la lettura dei platonici, ma non li ripetevano semplicemente, poiché con la rivelazione cristiana è entrato un nuovo fatto: è lo stesso Cristo, "il più bello tra gli uomini", al quale la Chiesa, ricordandolo come sofferente, attribuisce anche la profezia di Isaia (53, 2 ) "non ha bellezza né apparenza; l'abbiamo veduto: un volto sfigurato dal dolore". Nella passione di Cristo si incontra una bellezza che va al di là di quella esteriore e si apprende "che la bellezza della verità comprende offesa, dolore e (...) anche l'oscuro mistero della morte, e che essa può essere trovata solo nell'accettazione del dolore, e non nell'ignorarlo", come accenna l'allora cardinale Ratzinger. Perciò, ha parlato di una "paradossale bellezza", pur notando che il paradosso "è una contrapposizione, ma non una contraddizione", quindi è nella totalità che si rivela la bellezza di Cristo, quando contempliamo l'immagine del Salvatore crocifisso, che mostra il suo "amore sino alla fine" (Giovanni, 13, 1). 
La bellezza redentrice di Cristo si riflette soprattutto nei santi di ogni epoca, ma anche nelle opere d'arte che la fede ha generate: esse hanno la capacità di purificare e di sollevare i nostri cuori e, così, di portarci al di là di noi stessi verso Dio, che è la Bellezza stessa. 

Il teologo Joseph Ratzinger è convinto che questo incontro con la bellezza "che ferisce l'anima e in questo modo le apre gli occhi" sia "la vera apologia della fede cristiana". Da Papa, ha ribadito questi suoi pensieri nell'incontro con il clero di Bolzano-Bressanone dell' 8 agosto 2008 e nel suo messaggio in occasione della recente seduta pubblica delle Pontificie Accademie del 24 novembre 2008: 
"Questo" - ha detto il Santo Padre nella prima circostanza - "è in qualche modo la prova della verità del cristianesimo: cuore e ragione si incontrano, bellezza e verità si toccano". 
Occorre aggiungere che per Benedetto XVI la bellezza della verità si manifesta soprattutto nella sacra liturgia. Infatti, ha ripreso la sua riflessione sulla bellezza redentrice di Cristo nella sua esortazione apostolica postsinodale Sacramentum Caritatis (22 febbraio 2007), dove riflette sulla gloria di Dio che si esprime nella celebrazione del mistero pasquale. 
La liturgia "costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra. (...) elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l'azione liturgica risplenda secondo la sua natura propria" (n. 35). 
La bellezza della liturgia si manifesta anche attraverso le cose materiali di cui l'uomo, fatto di anima e corpo, ha bisogno per raggiungere le realtà spirituali: l'edificio del culto, le suppellettili, le immagini, la musica, la dignità delle cerimonie stesse. La liturgia esige il meglio delle nostre possibilità, per glorificare Dio Creatore e Redentore. 
Nell'udienza generale del 6 maggio 2009, dedicata a san Giovanni Damasceno, noto come difensore del culto delle immagini nel mondo bizantino, Benedetto XVI spiega "la grandissima dignità che la materia ha ricevuto nell'Incarnazione, potendo divenire, nella fede, segno e sacramento efficace dell'incontro dell'uomo con Dio". 

Va riletto in merito anche il capitolo sul "Decoro della celebrazione liturgica" nell'ultima enciclica Ecclesia de Eucharistia del Beato Giovanni Paolo II (17 aprile 2003), dove insegna che la Chiesa, come la donna dell'unzione di Betania, identificata dall'evangelista Giovanni con Maria Maddalena sorella di Lazzaro (Giovanni, 12; cfr. Matteo, 26; Marco, 14), "non ha temuto di "sprecare", investendo il meglio delle sue risorse per esprimere il suo stupore adorante di fronte al dono incommensurabile dell'Eucaristia" (47-48). 
La questione liturgica è anche essenziale per la valorizzazione del grande patrimonio cristiano non soltanto in Europa, ma anche nell'America Latina e in altre parti del mondo, dove il Vangelo è stato proclamato da secoli. 

Nel 1904, lo scrittore Marcel Proust (1871-1922) pubblicò un celebre articolo su "Le Figaro", intitolato La mort des cathédrales, contro la progettata legislazione laicista che avrebbe portato a una soppressione dei sussidi statali per la Chiesa e minacciava l'uso religioso delle cattedrali francesi. Proust sostiene che l'impressione estetica di questi grandi monumenti sia inseparabile dai sacri riti per i quali sono state costruite. Se la liturgia non viene più celebrata in esse, saranno trasformate in freddi musei e diventeranno proprio morte. 

Una simile osservazione si trova negli scritti di Joseph Ratzinger, cioè che "la grande tradizione culturale della fede possiede una forza straordinaria che vale proprio per il presente: ciò che nei musei può essere solo testimonianza del passato, ammirata con nostalgia, nella liturgia continua a diventare presente vivo" (Introduzione allo Spirito della Liturgia, p. 152). 

Durante il suo recente viaggio in Francia, il Papa si è riferito a questa idea nella sua omelia per i vespri celebrati il 12 settembre 2008, nella splendida cattedrale Notre-Dame di Parigi, elogiandola come "un inno vivente di pietra e di luce" a lode del mistero dell'Incarnazione del Figlio di Dio nella beata Vergine Maria. Era proprio lì, dove il poeta Paul Claudel (1868-1955) aveva avuto una singolare esperienza della bellezza di Dio, durante il canto del Magnificat ai vespri di Natale 1886, la quale lo condusse alla conversione. È questa via pulchritudinis che può diventare strada dell'annuncio di Dio anche all'uomo di oggi. 

6/7/2017 diocesiportosantarufina.it: La lingua latina, la bellezza della liturgia, la preghiera 'ad Orientem' http://www.diocesiportosantarufina.it/home/news_print.php?neid=822 5/7 (©L'Osservatore Romano - 8-9 giugno 2009) 

Riorientare la Messa 
Padre Lang spiega come si deve essere “rivolti al Signore” 

L’ obiezione che solitamente viene sollevata rispetto alla forma antica di celebrare la Messa è che il sacerdote dà le spalle alla comunità, ma questo è un falso problema, secondo padre Uwe Michael Lang. La postura “ad orientem” - verso oriente - riguarda piuttosto la volontà di assumere una direzione comune (tra comunità e sacerdote) nella preghiera liturgica, aggiunge. 

Padre Lang del London Oratory, recentemente nominato alla Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, è autore del libro “Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica”

Il libro è stato pubblicato inizialmente in Germania da Johannes Verlag e poi in inglese da Ignatius Press. Successivamente è apparso anche in italiano (ed. Cantagalli), francese, ungherese e spagnolo. 

In questa intervista rilasciata a ZENIT, padre Lang parla della postura “ad orientem” e della possibilità di riscoprire questa antica pratica liturgica. 

Come si è sviluppata, nella Chiesa dei primi secoli, la pratica di celebrare la liturgia “ad orientem”, rivolti verso oriente? 
Qual è il suo significato teologico? 

Padre Lang: Nella maggior parte delle religioni, la posizione che si assume nella preghiera e nell’orientamento dei luoghi sacri è determinata da una “direzione sacra”. La direzione sacra dell'ebraismo è verso Gerusalemme o più precisamente verso la presenza del Dio trascendente “shekinah” nel Sancta Sanctorum del Tempio, come si legge in Daniele 6,11. 

Anche dopo la distruzione del Tempio, l’uso di rivolgersi verso Gerusalemme è rimasto nella liturgia della sinagoga. È così che gli ebrei hanno espresso la loro speranza escatologica per l’arrivo del Messia, per la ricostruzione del Tempio e per il rientro del popolo di Dio dalla diaspora. 
I primi cristiani non si volgevano più verso la Gerusalemme terrena, ma verso la nuova Gerusalemme celeste. La loro ferma convinzione era che con la seconda venuta, nella gloria, il Cristo risorto avrebbe radunato il suo popolo per costituire questa città celeste. Essi vedevano nel sorgere del sole un simbolo della Risurrezione e della seconda venuta. E questo simbolo è stato quindi trasposto anche nella preghiera. 

Vi sono elementi che ampiamente dimostrano che dal secondo secolo in poi, in gran parte del mondo cristiano, la preghiera era rivolta verso oriente. Nel Nuovo Testamento, il significato della preghiera orientata (rivolta verso oriente) non è esplicito. Ciò nonostante la Tradizione ha individuato molti riferimenti testuali a questo simbolismo, come ad esempio: il “sole di giustizia” in Malachia 3, 30; “verrà a visitarci dall'alto un sole che sorge” in Luca 1, 78; l’angelo che sale dall’oriente con il sigillo del Dio vivente in Apocalisse 7, 2; e le immagini di luce nel Vangelo di san Giovanni. 
In Matteo 24, 27-30 il segno della venuta del Figlio dell’Uomo con grande potenza e gloria, come la folgore che viene da oriente e brilla fino a occidente, è la croce. 
Esiste una stretta relazione tra la preghiera orientata e la croce; questo risulta evidente sin dal quarto secolo, se non prima. Nelle sinagoghe di quel periodo, il punto in cui erano collocati i rotoli della Torah indicava la direzione della preghiera “qibla” verso Gerusalemme. 
Tra i cristiani divenne uso comune segnare la direzione della preghiera con una croce sul muro orientale nelle absidi delle basiliche e nei luoghi privati, per esempio, dei monaci e degli eremiti. 

Verso la fine del primo millennio vi sono teologi di diverse tradizioni che osservano come la preghiera orientata sia una delle pratiche che distinguono il Cristianesimo dalle altre religioni del Vicino Oriente: gli ebrei pregano verso Gerusalemme, i musulmani verso la Mecca, mentre i Cristiani verso oriente. 
Anche gli altri riti della Chiesa cattolica adottano l’orientamento liturgico? 

6/7/2017 diocesiportosantarufina.it: La lingua latina, la bellezza della liturgia, la preghiera 'ad Orientem' http://www.diocesiportosantarufina.it/home/news_print.php?neid=822 6/7 

Padre Lang: La preghiera liturgica orientata (rivolta verso oriente) fa parte anche delle tradizioni bizantina, siriaca, armena, copta ed etiope. Ancora oggi essa è in uso nella maggior parte dei riti orientali, almeno per quanto riguarda la preghiera eucaristica. 
Alcune Chiese cattoliche orientali, come ad esempio quella maronita e quella siro-malabarese, hanno adottato in tempi recenti la Messa rivolta “versus populum”, ma questo è dovuto all’influenza moderna occidentale e non deriva dalle proprie tradizioni. Per questo motivo la Congregazione vaticana per le Chiese orientali ha dichiarato nel 1996 che l’antica tradizione di pregare rivolti verso oriente ha un profondo valore liturgico e spirituale e deve essere preservata nei riti orientali. 

Spesso sentiamo dire che “ad orientem” significa che il sacerdote sta celebrando con le spalle rivolte alla comunità. Ma qual è il significato vero di questo orientamento? Padre Lang: Il luogo comune secondo cui il prete dà le spalle alla gente è un falso problema in quanto il punto essenziale è che la Messa è un atto di culto comune, in cui il sacerdote insieme alla comunità - che rappresentano la Chiesa pellegrina - protendono verso il Dio trascendente. La questione non è se la celebrazione è rivolta “verso” o “contro” la comunità, ma è la comune direzione della preghiera liturgica che conta. E ciò si può avere a prescindere dall’orientamento dell’altare. 
In Occidente molte chiese costruite dopo il XVI secolo non sono più orientate. Il sacerdote all’altare, rivolto nella stessa direzione dei fedeli, guida il popolo di Dio nel cammino della fede. Questo movimento verso il Signore trova la sua massima espressione nei santuari di molte chiese del primo millennio, in cui la rappresentazione della croce o del Cristo glorificato indica la meta del pellegrinaggio terreno dell’assemblea.

Essere rivolti verso il Signore significa mantenere vivo il senso escatologico dell’Eucaristia e ci ricorda che la celebrazione del Sacramento è una partecipazione alla liturgia celeste e la promessa della futura gloria nella presenza del Dio vivente. 
Questo dà all’Eucaristia la sua grandezza, evitando che la singola comunità si chiuda in se stessa, aprendola verso l’assemblea degli angeli e dei santi nella città celeste. 

In che modo può una liturgia orientata promuovere il dialogo con il Signore nella preghiera? 

Padre Lang: L’elemento principale del culto cristiano è il dialogo tra il popolo di Dio nel suo complesso, compreso il celebrante, e Dio verso il quale è rivolta la preghiera. 

È per questo che il liturgista Marcel Metzger sostiene che la diatriba sul verso in cui è rivolto il celebrante rispetto alla comunità esclude del tutto colui verso il quale tutte le preghiere sono dirette, ovvero Dio stesso. L’Eucaristia non è celebrata con il sacerdote rivolto verso i fedeli o dando loro le spalle. Piuttosto è l’intera assemblea che celebra rivolta verso Dio, attraverso Gesù Cristo, nello Spirito Santo. 

Nella premessa al suo libro, l’allora cardinale Ratzinger osserva che nessuno dei documenti del Concilio Vaticano II indica di dover rivolgere l’altare verso i fedeli. 
Come si è verificato allora il cambiamento? Qual è la base per tale importante modifica della liturgia? 

Padre Lang: Solitamente si citano due argomenti principali per sostenere la posizione del celebrante rivolto verso i fedeli. Il primo è che tale pratica corrisponde a quella della Chiesa dei primi secoli e che pertanto deve essere adottata come la norma anche ai tempi nostri. Tuttavia, un’attenta analisi dei documenti non dà conferma a questa ipotesi. 

Il secondo è che la “attiva partecipazione” dei fedeli, un principio introdotto da Papa Pio X e diventato centrale nella “Sacrosanctum Concilium”, impone che il celebrante sia rivolto verso la comunità. 
Ma una riflessione critica sul concetto di “attiva partecipazione” ha di recente rivelato la necessità di una nuova valutazione teologica di questo importante principio. 

Nel suo libro “Lo spirito della liturgia”, l’allora cardinale Ratzinger compie una utile distinzione tra la partecipazione alla liturgia della Parola, che comprende azioni esterne, e la partecipazione alla liturgia eucaristica, in cui le azioni esterne sono del tutto secondarie, poiché è la partecipazione interiore della preghiera che costituisce l’elemento centrale. 
La recente esortazione apostolica post-sinodale del Santo Padre “Sacramentum Caritatis” contiene una importante trattazione di questo argomento al paragrafo 52. 
Il nuovo ordinamento della Messa promulgato da Papa Paolo VI nel 1970 vieta al sacerdote di rivolgersi ad oriente? Esiste qualche ostacolo giuridico che vieta l’uso più ampio di questa antica pratica? 

6/7/2017 diocesiportosantarufina.it: La lingua latina, la bellezza della liturgia, la preghiera 'ad Orientem' http://www.diocesiportosantarufina.it/home/news_print.php?neid=822 7/7

Padre Lang: Il Messale di Papa Paolo VI considera come un’opzione legittima quella di combinare la posizione del sacerdote rivolto verso i fedeli durante la liturgia della Parola e la posizione di entrambi rivolti verso l’altare durante la liturgia eucaristica e in particolare per il Canone. 

La versione revisionata delle Istruzioni generali del Messale romano, che sono state pubblicate inizialmente per motivi accademici nel 2000, affronta la questione dell’altare al paragrafo 299, che sembra considerare la posizione del celebrante rivolto “ad orientem” come non opportuna o persino vietata. Tuttavia, la Congregazione per il culto divino e i sacramenti ha rigettato questa interpretazione in risposta ad una domanda sottoposta dal cardinale Christoph Schönborn, Arcivescovo di Vienna. Ovviamente il paragrafo delle Istruzioni generali deve essere letto alla luce di questa riposta, datata 25 settembre 2000. 

La recente lettera apostolica di Benedetto XVI “Summorum Pontificum” (7-7-2007), che liberalizza l’uso del Messale di Giovanni XXIII, consentirà un più profondo apprezzamento della posizione “rivolti verso il Signore” durante la Messa? 

Padre Lang: Io credo che molte riserve o persino timori sulla Messa “ad orientem” derivino da una scarsa familiarità con essa e che la diffusione dell’ “uso straordinario” del rito romano antico aiuterà molte persone a riscoprire e apprezzare questa forma di celebrazione. 


AMDG et BVM

martedì 26 gennaio 2016

"Lingua latina usus in ritibus latinis SERVETUR"

VERO VOLTO DI GESU'
Ai molti finti smemorati, ai veri pàvidi, agli autentici riottosi della lingua latina in tutta umiltà additiamo qualche salutare lettura:


* l'enciclica Mediator Dei (1947) di Pio XII, che ribadisce: 
     "Le serie ragioni della Chiesa per CONSERVARE fermamente l'OBBLIGO INCONDIZIONATO per il  
     celebrante di usare la lingua latina



* la costituzione apostolica Veterum Sapientia (1962) di Giovanni XXIII, che intima: 
     "Nessun INNOVATORE ardisca scrivere contro l'uso della lingua latina nei sacri riti"… né (alcuni)  
     si attentino, nella loro INFATUAZIONE, di minimizzare in questo la volontà della Santa Sede  
     Apostolica



* la costituzione conciliare sulla liturgia Sacrosanctum Concilium (1963) di Paolo VI, la quale ordina solennemente  
   che: "Lingua latina usus in ritibus latinis SERVETUR" 



* la lettera apostolica Sacrificium laudis (1966) di Paolo VI, il quale lancia un drammatico appello ai Superiori generali  
   delle Comunità religiose e, riferendosi alla minaccia di scomparsa del latino, esclama affranto: 
     "Lasciateci proteggere, ANCHE VOSTRO MALGRADO, il vostro patrimonio!
   e afferma inoltre che la sostituzione del latino: 
     "attenta non solo a questa sorgente fecondissima di civiltà e a questo ricchissimo tesoro di pietà, ma  
     anche al decoro, alla bellezza e all'originario vigore della preghiera e dei canti della liturgia



* il memorabile discorso di Paolo VI, pubblicato sull'"Osservatore Romano" (1969), in cui il Papa deplora la rinuncia al  
   latino con parole accorate: 
     "Perdiamo la loquela dei secoli cristiani, diventiamo quasi intrusi e profani nel recinto letterario  
   dell'espressione sacra, e cosí perderemo gran parte di quello stupendo e incomparabile fatto  
    artistico e SPIRITUALE che è il canto gregoriano. Che cosa sostituiremo a questa LINGUA  
    ANGELICA? È un sacrificio di inestimabile valore. Il latino portava alle nostre labbra la preghiera  
    dei nostri antenati e dava a noi il conforto di una FEDELTÀ AL NOSTRO PASSATO SPIRITUALE,  
    che noi rendevamo ATTUALE per poi trasmetterlo alle generazioni future".



La materia per riflettere non manca davvero. 
E per finire ecco l'antico sdegno profetico del Card. Pacelli, futuro Pio XII: 
     "Sento intorno a me dei novatori che vogliono smantellare la Sacra Cappella, distruggere la fiamma  
     universale della Chiesa, rigettare i suoi ornamenti, procurarle il rimorso per il suo passato  
     storico… Verrà un giorno in cui i cristiani cercheranno invano la lampada rossa dove Dio li  
     aspetta, come la peccatrice che gridò davanti alla tomba vuota: Dove l'hanno messo?
 

 Ing. Ugo Tozzini

domenica 15 marzo 2015

15. INTERVISTA AD ALESSANDRO GNOCCHI



4- Il valore della Tradizione: molti preti, chiamiamoli modernisti, sembra non vogliano riconoscere adeguatamente il valore della Tradizione, ma il loro obiettivo,dicono, è quello di costruire una Chiesa, al passo coi tempi, e quindi di uscire dagli schemi, spesso ideologici, che portano la Chiesa a conservare il passato per difendersi dal presente…Qual è la sua risposta?
Basta vedere il risultato: quando si parla della crisi della chiesa facciamo riferimento a questa ideologia che rappresenta la cultura comune del sacerdote di oggi; cioè ordinariamente il sacerdote cattolico di oggi ha questa concezione della Chiesa.
Ma preti del genere non sono cattolici!
San Tommaso diceva che basta non credere in una delle verità cattoliche per non essere cattolico, cioè in un solo elemento della dottrina cattolica per non esserlo: immaginiamo come è conciata la Chiesa di oggi. Io ho un amico salesiano (costretto a migrare per tutto il nord Italia perché non si adegua ad una serie di “cose”) il quale mi confidava che a Venezia c’era il Superiore della sua casa che gli nascondeva il crocefisso per non farglielo usare durante la Messa, per impedirgli di porlo sull’altare; oppure che il Superiore usava le candele nere sull’altare…questi sono esempi di ciò che sta accadendo nella Chiesa.
Di alcuni accadimenti non abbiamo mai dato forma pubblica perché sono veramente gravi (alcuni addirittura demoniaci) e, se non è possibile intervenire per farli cessare, è bene non denunciarli in quanto si finirebbe soltanto per scandalizzare e inquietare inutilmente le persone… Io ho risposto a quell’amico salesiano: “noi e loro appartiamo a due religioni diverse”. Ormai non formalmente ma nella pratica io, con chi sostiene che “bisogna costruire una Chiesa al passo coi tempi, e quindi uscire dagli schemi, spesso ideologici, che portano la Chiesa a conservare il passato per difendersi dal presente”, non ho niente a che fare: apparteniamo a due religioni diverse, a due chiese diverse, a due dottrine diverse, a due punti di vista diversi.
”Lo sai” mi a detto quel frate “io ho sofferto per anni e anni perché non riuscivo a capire come mai i miei confratelli mi aggredissero…adesso che ho metabolizzato tali comportamenti ho capito e mi sono messo il cuore in pace. Ora capisco il  motivo per cui mi aggrediscono nonostante siamo tutti salesiani, nonostante siamo nella stessa casa, e dovremmo lavorare, pensavo, per la stessa causa: apparteniamo a due chiese diverse!”.
Il suo Superiore gli impediva persino di celebrare tutti i giorni la Messa all’oratorio estivo, salesiano! Cioè i salesiani, che hanno come scopo ultimo la formazione cattolica dei giovani, gli impedivano di celebrare la Messa!
Quando il suo Superiore ha visto nel volantino dell’oratorio estivo il programma delle messe, l’ha chiamato e l’ha redarguito. Irritato e in piena collera gli diceva:  “ma cosa vuoi fare, vuoi farli diventare santi?” …In realtà quello dovrebbe essere l’obiettivo!... Siamo a questi livelli, lo capite?
Vi assicuro di sacerdoti e vescovi che al solo nominare la messa tradizionale si trasformano, persino fisicamente: tutto ciò è veramente inquietante; ragion per cui io non credo di appartenere alla stessa Chiesa a cui appartengono loro.
Mons. Crepaldi, arcivescovo di Trieste, ha parlato espressamente dell’esistenza di due chiese, ed è proprio così. Ma questa cosa sembra non si possa dire perché in realtà comanda quella chiesa che c’è all’interno della Chiesa. I componenti di questa chiesa eretica, ed è un fatto unico, sono riusciti a mettere in pratica ciò a cui hanno mirato di realizzare la maggior parte delle eresie nascenti da quando esiste la Chiesa: fino a ora è successo che in qualche modo queste eresie avevano sempre dovuto creare delle chiese al di fuori della Chiesa (i protestanti, gli ariani, i vari scismi); per la prima volta ora ci troviamo di fronte qualcuno che ha fatto una chiesa all’interno della Chiesa, con l’idea di farne una più bella. Se andiamo a ritroso nel tempo e guardiamo quanto accaduto nel 900 e tutto quello che ha preparato la venuta del Vaticano II, emerge con chiarezza il tentativo di affossare in modo definitivo quella Chiesa ritenuta cattiva che era la Chiesa preconciliare.
Per cui è chiaro che il concetto di Tradizione è quanto di più gli possa essere alieno, perché loro nascono per cancellare il passato, così come è curioso notare che tutte le dittature nascono per cancellare il passato. Non possono vivere se c’è un legame col passato.
La crisi dentro al mondo cristiano nasce nel rinascimento, e tutto poi trova compimento in Lutero che è il paradigma della rivoluzione sebbene non sia riuscito a creare la chiesa dentro la Chiesa come invece è stato fatto adesso.
Ora, va detto che qui ci sono gradi diversi di consapevolezza e quindi gradi diversi di responsabilità: si trovano anche sacerdoti che pensano in siffatto modo perché sono stati formati in siffatto modo. Però quelli che hanno un minimo di vocazione vera, soprattutto quelli più giovani (perché la generazione tra i 50/55 in su è persa, completamente persa perché è quella che ha fatto il cambiamento), cominciano a riflettere e notare alcune cose…
Quando passerà tutto questo? Ci vorrà qualche generazione, se non c’è un intervento provvidenziale. Il problema va indirizzato nella formazione fatta in questo modo eretico nei seminari (per fortuna non in tutti). Ci sono persino seminaristi che vengono allontanati perché ritenuti non in linea con quanto si insegna in seminario. Una volta ho incontrato due ragazzi di Cagliari, usciti dal seminario, perché si era ritenuto segno che non avessero la vocazione il fatto che si inginocchiassero alla consacrazione! A Bergamo ci sono due giovani che sono andati al seminario di Albenga in quanto ritenuti dal seminario bergamasco non idonei (uno frequentava anche la messa tradizionale, immaginatevi!)…da quando è stata liberalizzata la Messa in rito antico, su 100 persone che frequentano la Messa tradizionale, ci sono state già tre vocazioni mentre quest’anno nel seminario di Bergamo sono entrate soltanto tre nuove persone. Quindi il rapporto è 3 a 3. Una diocesi intera contro 100 persone che vanno alla Messa tradizionale! 
Da questo si evince, e ne sono assolutamente convinto, che il calo di queste vocazioni sia un segno della Provvidenza perché quei seminaristi nascono, forse, anche buoni, ma vengono formati per autodistruggersi e per distruggere il sacerdozio. È chiaro che arriveremo anche al punto in cui ci sarà un sacerdote per 20 parrocchie, però sarà un sacerdote cattolico? Ebbene, piuttosto che avere 20 sacerdoti protestanti è meglio averne uno solo, ma cattolico. La situazione può ordinariamente soltanto peggiorare, ancora adesso, anche se, girando l’Italia, da quando è diventato Papa Benedetto XVI, qualche segno, anche timido, di risveglio c’è.


5- Molti fedeli, per semplice ignoranza o perché assuefatti dalla mentalità progressista, contestano il valore della messa col rito antico, poiché il latino, ad esempio,  impedirebbe di comprendere quanto accade in quella celebrazione. Qual è quella specialità che in realtà contraddistingue proprio la messa in latino?
Intanto, punto primo,  basterebbe andare in una Messa qualsiasi col rito nuovo, prendere una persona qualsiasi e chiederle: adesso cosa sta succedendo? Non saprebbe rispondere.
Secondo, la Messa non è una conferenza, bensì un atto di adorazione. Per quanto riguarda la lingua quindi, se non si comprende tutto, non è un problema (ci sono anche i libretti con la traduzione, quindi anche in questo caso il problema non sussiste). 
Terzo, l’utilizzo della lingua latina realizza un senso sacrale e immutabile a quello che viene fatto, cosa che la lingua vernacolare non offre;  prova ne è che le traduzioni in lingua vernacolare continuano ad essere cambiate: se fosse vero che la traduzione in lingua vernacolare è la panacea di tutti i mali, dovremmo avere le chiese piene, in realtà le chiese si sono svuotate.
Quarto, ed è l’altra obiezione che mi manda su tutte le furie, è l’ammonimento di non recitare il rosario durante la celebrazione. Mia nonna andava alla Messa in latino e invece di seguirla recitava il rosario; io personalmente durante la Messa dico una corona del rosario, e purtroppo non ho la fede di mia nonna e di quelle nonnine del suo tempo. Sputare sulla fede di quelle donne che andavano a Messa alle 4 di mattina, in genere tutti i giorni, che recitavano il latino storpiato, che tornavano a casa e forse le prendevano persino dal marito, significa sputare sulla fede, perché tutto ciò che facevano in quella vita dura e di sacrificio era sorretto dalla fede… nella - Mediator Dei- c’è un punto (90) dove PIO XII spiega che non solo è possibile ma è bene dire il rosario durante la Messa: “…chi dunque potrà dire spinto da tale preconcetto -(cioè il fatto che non si deve pregare durante la messa)- che tanti cristiani non possano partecipare al principio eucaristico e goderne i benefici? Questi possono certamente farlo in altra maniera che ad alcuni riesce più facile; come, per esempio, meditando piamente i misteri di Gesù Cristo, o compiendo esercizi di pietà e facendo altre preghiere che, pur differenti nella forma dai sacri riti, ad essi tuttavia corrispondono per la loro natura”. Io seguo anche le preghiere del sacerdote, le cosiddette segrete, che sono di una bellezza straordinaria e assoluta: la Messa antica è tutto un salmo! E se recito poi il rosario partecipo di più alla Messa.

AMDG et BVM

lunedì 22 settembre 2014

PER CHI ANCORA FA IL SORDO AL LATINO NELLA LITURGIA

IL LATINO NELLA LITURGIA: SPUNTI DI RIFLESSIONE





IL LATINO NELLA LITURGIA: SPUNTI DI RIFLESSIONE

di Daniele Di Sorco 

Gli argomenti a favore dell'uso del latino (o comunque di una lingua non corrente) nella liturgia possono essere ridotti a tre:

1) L'universalità. La Chiesa cattolica è universale, non solo perché si trova effettivamente diffusa su tutta la terra, ma perché la rivelazione divina da essa custodita è identica per ogni uomo. Tutti i cattolici degni di questo nome professano una stessa fede, credono nelle stesse verità, obbediscono agli stessi pastori. È del tutto logico, quindi, che all'unità della fede faccia riscontro l'unità della preghiera, per lo meno di quella preghiera ufficiale che i cattolici svolgono in forma comunitaria e pubblica, cioè della liturgia (Messa, Ufficio divino o Breviario, Sacramenti). Per la maggior parte delle persone, infatti, la liturgia è scuola di fede, è il momento in cui si apprendono e si mettono in pratica le nozioni relative alle principali verità di religione: di qui l'antico proverbio legem credendi lex statuat supplicandi (la norma della fede sia determinata dalla norma della preghiera). Per esempio, adorando con atti esteriori (genuflessioni, preghiere, ecc.) la santa Eucaristia nella Messa, si comprende più in profondità e si manifesta in forma pubblica la fede interiore nella Presenza reale di nostro Signore nel Sacramento dell'altare. La liturgia, in poche parole, è segno visibile del vincolo di unità che lega tutti i membri della Chiesa. Ora, tale vincolo può forze prescindere dalla lingua e accontentarsi soltanto del contenuto dei testi e dell'apparato delle cerimonie? La risposta è negativa. Ben lungi dal costituire un semplice mezzo con cui esprimere dei concetti (come un abito che si può cambiare a proprio piacimento, mentre il corpo resta lo stesso), la lingua costituisce, per il parlante, una vera e propria forma mentis. Per dimostrarlo, basta l'esperienza: quando andiamo all'estero, anche se conosciamo la lingua del posto, ci sentiamo spaesati, a disagio, come se avessimo a che fare a qualcosa che non ci appartiene; mentre se, nello stesso contesto, incontriamo qualcuno che parla italiano, la sensazione è quella di trovarsi subito a casa. Ecco il vantaggio di avere una lingua comune per i riti: quello di realizzare l'unità nella facoltà propria degli esseri razionali e che caratterizza in modo diretto e intuitivo la loro psicologia: l'espressione linguistica. Quando il latino era la lingua comune della liturgia, il cattolico che entrava in chiesa si sentiva automaticamente a casa propria, all'estero così come nel proprio paese di origine. Questa unità di linguaggio e, diciamolo pure, di sensazione, di impressione, non era che un riflesso di un'altra unità, ben più profonda, quella della fede. Non stupisce, allora, che tutti i tentativi di eresia abbiano avuto, tra le loro pretese, quello della liturgia in lingua nazionale: si voleva fare della fede qualcosa di soggettivo, di personale, di locale; e anche l'espressione esteriore e pubblica della fede doveva andare nella medesima direzione



2) L'univocità. Si sente spesso dire che il latino è una lingua morta. Non è vero. Il latino è una lingua viva e vegeta, poiché c'è chi la parla (nella liturgia, nell'insegnamento di certi seminari) e chi la scrive (si pensi soltanto ai documenti ufficiali della Chiesa). Non è tuttavia una lingua di uso corrente, cioè una lingua che si usa per la conversazione quotidiana. Ma, a ben vedere, per la liturgia questo costituisce un indubbio vantaggio. La fede, infatti, è espressione di verità sempre uguali, che non mutano col passare del tempo e con l'evolversi della storia, poiché esse promanano da Dio, nel quale, come dice S. Giacomo nella sua epistola (1, 17), non c'è ombra né traccia di divenire. Ora, non c'è bisogno di essere un esperto di linguistica per rendersi conto di come il linguaggio corrente sia sottoposto a numerose e continue variazioni di significato. Basti pensare alla parola "salute", che nell'italiano di un tempo significava genericamente "salvezza (del corpo, quindi, ma soprattutto dell'anima = lat. salus), mentre oggi indica solamente la sanità fisica. Inoltre le parole del linguaggio corrente assumono per ciascuno una sfumatura particolare, sulla base del vissuto personale, dell'associazione spontanea di idee, della eccessiva familiarità dei concetti. Si capisce, dunque, che la lingua di uso corrente, per la sua eccessiva variabilità oggettiva e soggettiva, non è la più adatta per esprimere i contenuti della liturgia, che sono contenuti eterni, immutabili, come eterno e immutabile è l'oggetto cui si rivolgono, cioè Dio. Il latino, essendo uscito dall'uso quotidiano da più di un millennio, offre invece i requisiti richiesti, poiché il suo lessico, le sue formule, le sue modalità espressive sii sono cristallizzati in forme ben precise, dal significato univoco, che non possono essere in alcun modo travisate o alterate dalla percezione soggettiva.


3) La sacralità. Parliamo, naturalmente, non di una sacralità intrinseca (nessuna lingua di per sé è più sacra di altre), ma di una sacralità acquisita. Da secoli il latino, sottratto all'uso comune e impiegato principalmente in ambito ecclesiastico, viene percepito come lingua inscindibilmente legata al sacro, allo stesso modo in cui l'organo, pur essendo talvolta adoperato in altri contesti, viene automaticamente associato alla chiesa. Se la Chiesa ha conservato il latino (e, in oriente, il greco antico e il paleoslavo, tutte lingue fuori dall'uso), non è per ottuso immobilismo (lo dimostra il fatto che già nel IX secolo, quando il latino cominciava a non essere più compreso dalle masse, si ordinò ai sacerdoti di tenere l'omelia in volgare), ma per marcare, anche sul piano linguistico, la distinzione essenziale che separa il profano dal sacro. Anche a tale riguardo, è bene richiamare alla mente alcune nozioni di psicologia linguistica, che, per quanto elementari e scontate, sembrano essere trascurate da molti. L'uso di un tipo di linguaggio piuttosto che un altro è determinato dal contesto in cui ci si trova e dall'oggetto di cui si parla: altro è il modo con cui mi rivolgo a un parente o a un amico, altro è il modo con cui parlo a un superiore, altro ancora è il modo con cui interloquisco con un personaggio famoso. E, a parità di interlocutore, il mio modo di esprimermi sarà diverso a seconda che parli di una partita di calcio o della struttura interna dell'atomo. Ciascun registro linguistico è legato ad una situazione ben precisa. Sarebbe del tutto strano e fuori luogo parlare col proprio datore di lavoro impiegando lo stesso lessico e le stesse espressioni che si userebbero con un familiare. Non stupisce, dunque, che anche la liturgia, nella quale l'interlocutore è Dio stesso e l'oggetto sono le realtà soprannaturali, abbia un linguaggio proprio, radicalmente diverso da quello impiegato nella vita quotidiana e nelle attività profane. L'uso del latino serve per far comprendere meglio, anche sul piano dell'espressione verbale (che è uno dei piani più importanti della psicologia umana), che nell'azione liturgica siamo di fronte a qualcosa che, trascendendo la realtà immanente, non può essere espressa nello stesso linguaggio di quest'ultima. Del resto, anche ai tempi di Gesù, in Palestina la lingua corrente era l'aramaico, ma nelle sinagoghe il culto avveniva quasi interamente in ebraico antico, ad eccezione soltanto delle parti destinate all'istruzione del popolo.


Si potrebbe obiettare che l'uso del latino preclude la comprensione dei testi liturgici alla maggior parte del popolo e quindi ostacola uno dei fini del culto pubblico, che è l'edificazione dei fedeli. Tale rilievo ha il sapore delle contestazioni superficiali, che al primo impatto sembrano ovvie e scontate, ma che rivelano tutta la loro inconsistenza una volta che si esamini più approfonditamente la questione.

In primo luogo, la liturgia non è uno spettacolo teatrale, nel quale si debba ascoltare e comprendere ogni singola parola. La liturgia serve a farci penetratre, mediante il suo apparato di segni visibili, nelle realtà divine che in essa si celebrano. Per questo il sacerdote si spoglia dei suoi abiti quotidiani e si riveste dei sacri paramenti, per questo la celebrazione segue un rito codificato, per questo i cristiani si riuniscono in un luogo apposito e diverso da tutti gli altri, la chiesa. Si comprende facilmente, allora, come la partecipazione alla liturgia debba avvenire in primo luogo a livello interiore, con la comprensione profonda e personale del mistero che si celebra, con l'elevazione della mente a Dio, autore di tali misteri. Un rito che favorisce il senso esteriore del sacro, ne agevola la percezione interiore. Viceversa, un rito che, a causa dell'impiego di elementi troppo legati alla realtà quotidiana, non marca adeguatamente la differenza tra sacro e profano, non riesce a far penetrare adegutamente il fedele nella dimensione del mistero. Il risultato è una liturgia che ha per oggetto, non più Dio, ma la comunità stessa, che finisce per celebrare valori (o, talvolta, disvalori) esclusivamente umani, rispetto ai quali Dio o si trova in disparte (come i crocifissi nelle chiese moderne) o è del tutto escluso. In altre parole, celebrare la liturgia attingendo le sue principali caratteristiche dalla realtà profana (lingua corrente, canzonette, improvvisazioni, mortificazione del simbolismo) significa scadere nell'autoreferenzialità, e invogliare le persone ad abbandonare la pratica religiosa: infatti, se in chiesa trovo le stesse cose (o, meglio, un surrogato delle stesse cose) che mi offre il mondo, perché dovrei andarci?


Non è vero, poi, che la comprensione della liturgia tradizionale sia appannaggio di chi conosce la lingua latina. L'esperienza dimostra che il popolo aveva un'idea molto più chiara del valore della Messa e del significato dei riti quando essi venivano celebrati in una lingua ai più sconosciuta, che non oggi, quando tutto avviene in italiano e con un rito semplificato. Perché? Perché la liturgia è per lo più costituita da uno schema fisso, che si ripete sempre uguale in tutte le celebrazioni e che pertanto basta imparare una volta per tutte. Le parti variabili sono poche: nella Messa ve ne sono nove (antifona all'introito, orazione, epistola, versetti interlezionari, vangelo, antifona all'offertorio, secreta, antifona alla comunione, dopocomunione), di cui quattro sono canti, mentre soltanto due (epistola e vangelo, a cui si possono aggiungere, volendo, le tre orazioni) riguardano direttamente l'istruzione del popolo. Queste possono essere lette da chiunque su un messalino che riporta la traduzione del testo liturgico. E, in ogni caso, si è diffusa da molto tempo la consuetudine di leggere in volgare le letture scritturistiche. Riassumento: le parti fisse (ordinario della Messa) sono sempre uguali, ed è sufficiente memorizzarle una volta per tutte, non quanto alla singola parola, s'intende, ma quanto al significato; le parti mobili (proprio della Messa) possono essere consultate sul messalino bilingue, grazie al quale, peraltro, il fedele può usare i testi liturgici a casa propria, per sua meditazione personale. La difficoltà di imparare almeno i rudimenti della lingua liturgica non è poi così grande come sembra, specialmente se si pensa che anche i testi italiani, per essere adeguatamente compresi, hanno comunque bisogno di una spiegazione (l'uso del volgare non basta per rendere i concetti teologici contenuti nella Messa automaticamente intellegibili) e che, in passato, perfino le persone di bassa cultura conoscevano a memoria le principali parti della liturgia, magari storpiando qualche desinenza latina ma avendo ben chiaro il significato.



Si tenga conto, infine, che l'uso di una lingua diversa da quella corrente stimola la concentrazione dei fedeli. Sembra un paradosso, ma è così. Un rito interamente celebrato in volgare non richiede alcuno sforzo di comprensione. Si può benissimo andare a Messa (tutti, credo, abbiamo fatto almeno una volta questa esperienza), ascoltare tutto, rispondere a tutto, ma avere la mente altrove. Molto, certo, dipende dalla disposizione personale, ma una responsabilità non piccola va attribuita alla facilità di un rito in cui la lingua è quella di tutti giorni, le cerimonie semplificate, l'atmosfera da riunione profana. L'ostacolo linguistico(che poi, come abbiamo visto al paragrafo precedente, è un ostacolo soltanto relativo) costituisce per il fedele un incentivo a compiere quello sforzo mentale che gli consente di entrare nella dimensione propria della liturgia, che è una dimensione radicalmente diversa da quella quotidiana. 


In conclusione, possiamo affermare sulla base di solidi argomenti che i vantaggi derivanti dall'uso indiscriminato del volgare sono assai minori rispetto a quelli che si ottengono dall'uso del latino, e, in ogni caso, sono anch'essi subordinati alla spiegazione del significato dei riti e delle preghiere (catechesi liturgica). Per cui, a conti fatti, non c'è ragione per allontanarsi dalla pratica che non solo la Chiesa cattolica, ma anche le principali tra le false religioni hanno sempre e costantemente osservato.

Alle considerazioni di tipo teorico, se ne può aggiungere una, decisiva, di indole pratica. L'antico rito, grazie all'eminente sacralità che gli deriva dall'uso di una lingua diversa da quella corrente, ha prodotto, nel corso dei secoli, abbondantissimi frutti di spiritualità e santità, non solo nel clero e in coloro che conoscevano il latino, ma anche nel popolo illetterato e analfabeta, che non comprendeva le singole parole del rito, ma coglieva il senso ultimo della liturgia, il suo significato profondo. Oggi (ma potremmo fare un parallelo con la crisi religiosa conseguita all'introduzione del volgare e alla semplificazione dei riti nei paesi protestanti) assistiamo al fenomeno inverso: il rito in volgare e semplificato è materialmente intellegibile e i fedeli possono parteciparvi esteriormente con la massima comodità; ma ciò ha indotto la maggior parte dei cristiani (anche del clero, purtroppo) a ritenere che non fosse necessario andare oltre, che cioè lo spirito della liturgia consistesse nella comprensibilità stessa; il rito, quindi, ha valore non nella misura in cui avvicina a Dio, ma nella misura in cui esprime i bisogni e le aspettative della comunità: ecco il cerchio autoreferenziale, da cui Dio è praticamente escluso, e a creare il quale ha contribuito in misura non piccola una liturgia abbassata talmente a livello dell'uomo da essere divenuta interamente umana.


Con quale disposizione, dunque, bisogna riaccostarsi all'antica liturgia, se non la si è mai conosciuta o se non la si frequenta più da molti anni? Prima di tutto, senza la pretesa di restarne immediatamente affascinati. È vero che molti fedeli rimangono subito attratti dalla sacralità che promana dal rito antico, ma è anche vero che, per molti, la forza dell'abitudine, unita ad un'errata concezione della liturgia, che identifica il suo valore con la partecipazione e la comprensibilità esteriore), rende difficile l'immediata fruizione di un rito che si basa su presupposti nettamente diversi. Occorre, quindi, dare tempo al tempo: assistere al rito con mente sgombra da preconcetti, senza la smania di capire tutto subito, lasciandosi penetrare dalla sacralità del rito, riscoprendo il valore della preghiera personale (lasciata in disparte dalla moderna liturgia), apprezzando la funzione di una lingua che inizialmente si crede un ostacolo ma che poi si rivela chiave di accesso ad una dimensione ulteriore, quella del sacro e del divino, che molti probabilmente non hanno mai conosciuto nella preghiera liturgica.