"Dignare me laudare Te Virgo sacrata. Da mihi virtutem contra hostes tuos". "Corda Iésu et Marìae Sacratìssima: Nos benedìcant et custòdiant".
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giovedì 13 agosto 2020
lunedì 11 febbraio 2019
Card. Ratzinger
VIDEO - Chiesa e modernità, uno scontro necessario? Risponde il Cardinale Ratzinger
AMDG et DVM
mercoledì 17 ottobre 2018
Verso la Pasqua: "le persone contraddistinte dalla croce di Cristo, avanzano lietamente nelle tenebre"
“Questo è il giorno che ha fatto il Signore. Esultiamo insieme”.
Lo cantiamo con un salmo di Israele che esprimeva l’intima attesa del Risorto, e diviene così il canto pasquale dei cristiani. Cantiamo l’Alleluia, in cui una parola della lingua ebraica è divenuta espressione oltre il tempo della gioia dei redenti.
Ma possiamo davvero gioire? O la gioia non è quasi cinismo, scherno, in un mondo così pieno di sofferenza? Siamo redenti? Il mondo è redento?
I colpi con cui è stato assassinato l’arcivescovo di San Salvador durante la celebrazione eucaristica sono solo un lampo abbagliante che illumina lo scatenarsi della violenza, la barbarizzazione dell’uomo,diffusi in tutto il mondo.
Interi popoli si vanno lentamente estinguendo…e nessuno vuol prenderne atto. E avviene dovunque che gli uomini debbano soffrire per la loro fede, per le loro convinzioni e che i loro diritti siano calpestati. Dimitrij Dudko, un prete russo, partendo dall’esperienza della prigionia, aveva rivolto un messaggio a tutti i cristiani dicendo di parlare dal Golgota e al tempo stesso dal luogo in cui il Signore risorto è apparso attraverso le porte chiuse. Egli considera Mosca il Golgota su cui il Signore è crocifisso, ma anche il luogo in cui, nonostante o proprio per via delle porte chiuse che vorrebbero impedirgli l’accesso, il Risorto è presente e si manifesta.
Chi osserva questo mondo può chiedersi se abbiamo davvero tempo di pensare a Dio e alle cose divine, o se non dovremmo piuttosto impiegare tutte le forze per migliorare la vita sulla terra. Una tale considerazione ha ispirato a Bertold Brecht questa
poesia: “Non fatevi ingannare..morirete come tutti gli animali, e dopo non c’è più nulla”.
Egli vedeva la fede nell’aldilà, la risurrezione, come un’illusione che impedisce all’uomo di impadronirsi in pieno di questo mondo, di questa vita. Ma chi nell’uomo contrappone la somiglianza a Dio alla sua animalità, tende facilmente a considerarlo anche solo come un animale. E se noi, come dice un altro poeta moderno, moriamo come cani, ben presto vivremo anche come cani, e ci tratteremo come cani, o meglio, come non si dovrebbe trattare neppure un cane.
Più profonda è la concezione del filosofo ebreo Theodor Adorno il quale, partendo dall’appassionato desiderio messianico del suo popolo, ha continuato a chiedersi e a cercare come si possa creare un mondo giusto, come realizzare la giustizia in questo mondo.
Ed è giunto a questa convinzione: perché ci sia davvero giustizia nel mondo, dovrebbe esservi giustizia per tutti e per sempre; cioè giustizia anche per i morti. Dovrebbe esistere una giustizia che ripara anche alla sofferenza irrimediabilmente passata. Perché ciò sia possibile, dovrebbe esistere la risurrezione dei morti.
Su questo sfondo penso si possa percepire in modo nuovo il messaggio pasquale. Cristo è risorto! Si, esiste giustizia per il mondo! Esiste la giustizia totale per tutti, in grado di revocare anche ciò che è irrevocabilmente passato, perché Dio esiste e ne ha il potere. Dio non può patire ma compatire, ha detto una volta san Bernardo di Chiaravalle. Può compatire perché può amare. Questo potere della compassione, derivante dal potere dell’amore, è il potere che può revocare l’irrevocabile e rendere giustizia.
Cristo è risorto..questo significa che esiste la forza che è in grado di realizzare la giustizia e la realizza. Perciò il messaggio della risurrezione non è solo un inno a Dio, ma un inno alla potenza del suo amore e quindi un inno agli uomini, alla terra e alla materia. Il tutto viene redento.
Dio non lascia che neppure una parte della sua creazione scompaia nel silenzio di ciò che è passato. Egli ha creato tutto perché esista, come dice il Libro della Sapienza. Ha creato tutto perché sia una cosa sola e faccia parte di lui, perché sia davvero: Dio tutto in tutto.
Ma si pone allora la domanda: come possiamo aderire a questo messaggio di risurrezione? Come può avvenire tra di noi e divenire realtà? La Pasqua è appunto la luce che filtra dalla porta aperta che conduce fuori dall’ingiustizia del mondo, ed è al tempo stesso l’esortazione a seguire questo raggio di luce, a mostrarlo agli altri, sapendo che non è una fantasticheria ma la vera luce, la vera via d’uscita.
Come possiamo andarci? A ciò risponde la lettura della domenica di Pasqua, in cui Paolo scrive ai Colossesi:
“ Cristo è risorto, perciò cercate le cose di lassù, dove egli è!” Pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra” (Col 3,1–2).
Chi ascolta con orecchie moderne questa indicazione di san Paolo nel messaggio pasquale, nella realtà pasquale, sarà probabilmente tentato di dire:
rifugiamoci dunque nel cielo, fuggiamo il mondo. Ma questo sarebbe un grave malinteso. Per la vita umana vale infatti questa legge fondamentale: solo chi si perde trova se stesso. Chi vuole conservare se stesso, chi non si supera non potrà trovare se stesso. Chi desidera solo possedersi e non si dona, non potrà riceversi.
Questa legge fondamentale dell’umanità deriva dalla legge fondamentale dell’Amore trinitario, dell’essenza dell’essere di Dio stesso, il quale nel donarsi come amore è la vera realtà e il vero potere, e vale per l’intero ambito del nostro rapporto con la realtà.
Chi vuole solo la materia, la disonora, le toglie grandezza e dignità. Più che il materialista è il cristiano a dare dignità alla materia, perché rivela che anche in essa Dio è tutto in tutto. Chi cerca solo il corpo, lo svilisce. Chi vuole solo le cose di questo mondo, distrugge in questo modo la terra. Noi serviamo la terra superandola. La salviamo non lasciandola sola e non restando soli. Come la terra ha fisicamente bisogno del sole per rimanere un astro di vita, come ha bisogno della coesione con il tutto per percorrere la sua orbita, anche il cosmo spirituale della terra dell’uomo ha bisogno della luce dall’alto, della forza che tiene uniti, che sola lo libera. Non dobbiamo rinchiudere la terra per salvarla, non dobbiamo sprofondare in essa. Dobbiamo invece spalancarne le porte, affinché le vere energie di cui vive e che ci sono necessarie possano essere presenti in essa.
Cercate le cose di lassù! Questo è il mandato per la terra:
vivere verso l’alto, vivere elevatamente, rivolti a ciò che è alto e grande, e contrastare la gravità del basso, della rovina. Cioè significa seguire il Risorto, servire la giustizia, la salvezza di questo mondo.
Il primo messaggio del Risorto, che egli fa trasmettere agli apostoli dagli angeli e dalle donne, è questo: seguitemi, io vi precedo! La fede nella risurrezione è cammino. La fede nella risurrezione non può che esprimersi nel seguire Cristo, nella sequela di Cristo. Dove egli è andato, in quale modo e dove dobbiamo seguirlo, Giovanni lo esprime molto chiaramente nel suo Vangelo pasquale: “ Ascendo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro” (Gv 20,17). Dice alla Maddalena che non può trattenerlo in quel momento, ma solo quando sarà asceso in cielo. Non possiamo trattenerlo in modo da riportarlo in questo mondo, ma possiamo trattenerlo seguendolo,ascendendo insieme a lui.
Perciò la tradizione cristiana non parla semplicemente della sequela di Gesù, ma intenzionalmente della sequela di Cristo. Non seguiamo il morto, ma il vivo. Non cerchiamo di imitare una vita passata o di trasformarla in un programma con ogni genere di compromessi e interpretazioni. Non possiamo escludere dalla sequela l’essenziale, cioè la croce, la risurrezione, la figliolanza di Dio, l’essere con il Padre. E’ proprio questo l’importante.
Sequela significa che adesso possiamo andare là dove – sempre secondo Giovanni – inizialmente Pietro e i giudei non potevano andare, ma dove ora noi possiamo andare perché ci ha preceduto e da quando egli ci ha preceduto.
Sequela significa accettare l’intero cammino, penetrare in ciò che sta in alto, in ciò che è nascosto ma è l’essenziale: nella verità, nell’amore, nella figliolanza di Dio. Una tale sequela tuttavia è possibile solo attraverso la croce, in quel perdersi che dischiude i tesori di Dio e della terra, che fa sgorgare le fonti vive del profondo e introduce in questo mondo la forza della vera vita. E’ penetrare in ciò che è nascosto per trovare, nella vera perdita di se stessi, la propria umanità. E significa al tempo stesso trovare quella provvista di gioia di cui il mondo ha urgente bisogno. Non è solo nostro diritto, ma nostro dovere gioire, perché il Signore ci ha donato la gioia e perché il mondo l’attende.
Voglio citare a proposito un piccolo esempio.
La dottoressa britannica Sheila Cassidy, entrata nel 1978 nell’ordine di san Benedetto, fu torturata e imprigionata in Cile nel 1975 perché aveva prestato cure mediche a un rivoluzionario. Poco dopo la tortura fu trasferita in un’altra cella, nella quale trovò una vecchia Bibbia. L’aprì e lo sguardo le cadde su un’illustrazione raffigurante un uomo completamente annientato da tuoni, fulmini e grandine che si abbattevano su di lui. Si identificò immediatamente con quell’uomo, si riconobbe in lui. Poi guardò meglio e scoprì nella parte superiore dell’illustrazione una mano potente, la mano di Dio, e accanto a essa una citazione della Lettera ai Romani, con la professione di fede nella risurrezione: “Nulla potrà mai separarci dall’amore di Cristo” (Rm 8,39). Se dapprima aveva vissuto l’esperienza raffigurata nella parte inferiore dell’illustrazione, poiché si era abbattuto su di lei l’orrore che l’aveva prostrata indifesa come un verme, sperimentò in seguito sempre più la seconda metà dell’illustrazione, la mano potente, da cui “nulla ci potrà separare”:
E se all’inizio pregava ancora: Signore, liberami!, lo scuotere dentro di sé le sbarre della prigione si trasformò sempre di più nella calma realmente libera che prega insieme a Gesù Cristo: “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà”. E sentì così nascere nel suo cuore un sentimento di grande libertà e di bontà nei confronti di coloro che erano schiavi dell’odio. Ora poteva amarli perché riconosceva che il loro odio costituiva la loro pena e la loro prigionia.
In seguito, in cella con delle donne marxiste proponeva loro momenti di preghiera e funzioni religiose, e anch’esse, superato l’odio, scoprirono la grande libertà che ne derivava. Essa dice: “Sapevamo che la libertà di cui godevamo dietro alle spesse mura del carcere non era illusione ma una verità assolutamente reale”. Dopo otto settimane fu rilasciata, ma conservò da allora la capacità di trovare ogni giorno Cristo nelle persone, nelle cose; potè sperimentare la frase di Chesterton, secondo cui “le persone contraddistinte dalla croce di Cristo, avanzano lietamente nelle tenebre”.
Trovare la vita nascosta, cioè far sgorgare le fonti della forza per questo mondo; collegarlo alla Potenza che può salvarlo e può dargli le energie che cerca invano in se stesso! Questo significa far emergere la fonte della gioia che salva, trasforma e ha il potere di revocare l’irrevocabile.
Le cose di lassù, cercatele! Non è un protendersi nel vuoto, ma percorrere il grande cammino pasquale verso ciò che è veramente reale.
Mi hanno colpito anche le parole di una missionaria indiana . Essa afferma che non siamo ancora riusciti a mostrare veramente Cristo al suo popolo perché la maggior parte dei missionari, dediti all’attività esteriore, non hanno ancora imparato a pregare secondo i criteri indiani. Incapaci, e quindi impediti nel raggiungere nell’intimo il punto dell’unione spirituale tra Dio e l’uomo, non hanno potuto mostrare al mondo indiano il mistero dell’incarnazione e portarlo alla libertà.
In ciò sta la chiamata più profonda della Pasqua:
siamo esortati a muoverci verso l’interno e verso l’alto, verso la vera realtà nascosta, da scoprire come realtà. Possiamo credere al risorto solo dopo averlo incontrato. E possiamo incontrarlo solo se l’abbiamo seguito. Solo se l’abbiamo seguito e incontrato possiamo rendergli testimonianza e portare la sua luce in questo mondo.
Uno dei salmi di Israele, che la Chiesa interpreta come salmo della passione di Gesù Cristo, e che ha pregato per molto tempo all’inizio di ogni messa,
dice: “Rendimi giustizia, o Dio!”. E’ il grido di passione di un intero mondo. Fai giustizia, o Dio!.
Egli ha detto di si. Cristo è risorto! L’irrevocabile è revocabile. La forza della trasformazione è presente. Orientiamo a essa la nostra vita! Cerchiamo le cose di lassù!
-------------da Joseph Ratzinger-Benedetto XVI "Cercate le cose di lassù- Riflessioni per tutto l'anno", Edizioni Paoline, 2005.
Grazie alla sorella Gemma per il bellissimo testo dell'allora cardinale Ratzinger, pubblicato nella raccolta "Cercate le cose di lassù- Riflessioni per tutto l'anno".
Prepariamoci ogni giorno alla Santa Pasqua con questo brano.
AVE MARIA!
lunedì 16 aprile 2018
Un’esistenza che punta tutto sulla carta di Dio, e tralascia proprio quanto normalmente rende matura e promettente un’esistenza umana.
SACRO CELIBATO
Il celibato sacerdotale nelle risposte del card. Ratzinger a Peter Seewald nel libro-intervista "Il sale della terra" (1996)
Vedi anche:
Il celibato sacerdotale. Ecco come Papa Benedetto risponde a Seewald nel libro-intervista "Luce del mondo" (2010)
Da Joseph Ratzinger, "Il sale della terra: Cristianesimo e Chiesa cattolica nel XXI secolo" – Un colloquio con Peter Seewald, Edizioni San Paolo 2005
II. Problemi della Chiesa cattolica
Il celibato
D. Stranamente niente provoca più rabbia nella gente che il problema del celibato. Anche se questo riguarda solo una minima parte della popolazione della Chiesa. Perché esiste il celibato?
R. Esso è legato a una frase di Cristo: Ci sono coloro - si legge nel Vangelo- che per amore del regno dei cieli, rinunciano al matrimonio e, con tutta la loro esistenza, rendono testimonianza al regno dei cieli.
La Chiesa è arrivata molto presto alla convinzione che essere sacerdoti significa dare questa testimonianza per il regno dei cieli. Essa poteva riallacciarsi analogamente a un parallelo veterotestamentario di altra natura. Israele entra nella terra promessa, undici tribù ricevono ciascuna la propria porzione di territorio; solo la tribù di Levi, quella dei sacerdoti, non riceve territorio né eredità; la sua eredità è solo Dio.
Praticamente ciò significa che i suoi membri vivono solo dei doni del culto e non, come le altre famiglie, della coltivazione della terra. Il punto essenziale è che essi non hanno alcuna proprietà. Il salmo 16 dice: tu sei la mia parte di eredità e il mio calice, ti ho ricevuto in sorte, Dio è la mia terra. Questa figura, che cioè nell’Antico Testamento il sacerdote non ha terra e vive, per così dire, di Dio – e perciò lo testimonia davvero –in seguito, in riferimento alla parola di Gesù è stata interpretata così: la porzione di terra in cui vive il sacerdote è Dio stesso.
Oggi possiamo capire con difficoltà questa rinuncia, poiché il rapporto con il matrimonio e i figli si è modificato. Dover morire senza figli, un tempo voleva dire aver vissuto senza scopo: una volta dispersa la traccia della mia vita, io sono morto del tutto. Se invece ho dei figli, continuerò a vivere in loro, grazie a una specie di immortalità, ottenuta attraverso la discendenza. Perciò è una superiore condizione di vita l’aver eredi e restare, attraverso di loro, nella terra dei viventi.
La rinuncia al matrimonio e alla famiglia è quindi da intendersi nella seguente prospettiva: rinuncio a ciò che per gli uomini non solo è l’aspetto più normale, ma il più importante. Rinuncio a generare io stesso vita dall’albero della vita, ad avere una terra in cui vivere e vivo con la fiducia che Dio è davvero la mia terra. Così rendo credibile anche agli altri che c’è un regno dei cieli.
Non solo con le parole, ma con questo tipo di esistenza sono testimone di Gesù Cristo e del Vangelo e gli metto così a disposizione la mia vita.
Il celibato ha dunque un significato contemporaneamente cristologico e apostolico. Non si tratta solo di risparmiare tempo - ho un po’ di tempo a disposizione perchè non sono un padre di famiglia – il che sarebbe troppo banale e pragmatico. Si tratta di un’esistenza che punta tutto sulla carta di Dio, e tralascia proprio quanto normalmente rende matura e promettente un’esistenza umana.
D. D’altra parte qui non si tratta di un dogma. Il problema sarà forse, un giorno, aperto al dibattito, nel senso di una libera scelta tra una forma di vita celibataria e una non celibataria?
R. Si, certo, non si tratta di un dogma. E’ una consuetudine venutasi a creare assai presto nella Chiesa, a seguito di sicuri riferimenti biblici. Ricerche più recenti dimostrano che il celibato risale a molto prima di quanto permettono di riconoscere le fonti del diritto di solito conosciute, fino al secondo secolo.
Anche in Oriente era molto più diffuso di quanto potevamo sapere finora. Qui solo nel secolo VII le due strade si separano. Da sempre in Oriente il monachesimo rappresenta la base portante del sacerdozio e della gerarchia e, per questo, aanche lì il celibato ha davvero grande importanza.
Non è un dogma, è un modo di vivere che è cresciuto nella Chiesa e che naturalmente comporta sempre il pericolo di una caduta. Se si punta così in alto, ci possono essere delle cadute. Penso che ciò che oggi irrita la gente nei confronti del celibato è che essa vede quanti preti non sono interiormente d’accordo e lo vivono ipocritamente, male, o non lo vivono affatto o solo con tormento e dicono…
D. …che distrugge gli uomini…
R. Quanto più un’epoca è povera di fede, tanto più frequenti sono le cadute.
Così il celibato perde di credibilità e il suo vero messaggio non viene alla luce. Si deve chiarire che i periodi di crisi del celibato corrispondono sempre a periodi di crisi del matrimonio. Infatti oggi non viviamo solo la crisi del celibato, lo stesso matrimonio viene sempre più messo in discussione come fondamento della nostra società.
Nelle legislazioni degli Stati occidentali esso è sempre più messo allo stesso livello di altri stili di vita e viene così dissolto anche come forma giuridica. La fatica di vivere veramente il matrimonio non è in fondo da meno. In pratica, con l’abolizione del celibato assisteremmo solo alla nascita di un nuovo tipo di problematica, quella dei preti divorziati. La Chiesa evangelica conosce bene questo problema. Se ne deduce che le forme elevate di esistenza umana sono sempre soggette a qualcosa che le minaccia. La conseguenza che ne trarrei, non è, però, di perdere la speranza e dire: “non ci riusciamo più”, ma dobbiamo tornare a credere, ad avere più fede. E, ovviamente, dobbiamo essere ancora più cauti nella scelta degli aspiranti sacerdoti. L’importante è che uno scelga davvero liberamente e non dica: “ si, voglio diventare prete, e allora mi carico anche di questo”, oppure; “in fondo le ragazze non mi interessano più di tanto, quindi non sarà un gran problema”. Questo non è un corretto punto di partenza. L’aspirante sacerdote deve riconoscere nella sua vita la forza della fede e deve sapere che solo in essa può vivere il celibato. Allora il celibato può diventare una testimonianza che dice qualcosa agli uomini e che riesce anche a dar loro coraggio in relazione al matrimonio. Entrambe le istituzioni sono strettamente legate l’una all’altra. Se una fedeltà non è più possibile, anche l’altra non ha più senso: l’una sostiene l’altra.
D. Suppone quindi che esista una relazione tra la crisi del celibato e quella del matrimonio
R. Mi sembra molto evidente.
In entrambi i casi la persona singola si trova di fronte al problema di una scelta di vita definitiva: a 25 anni posso già disporre di tutta la mia vita? E’ qualcosa di commisurato all’uomo? C’è la possibilità di farcela, di crescere e di maturare in modo vivo oppure devo tenermi costantemente aperto per nuove possibilità? La domanda fondamentale è la seguente: può l’uomo prendere una decisione definitiva per quel che riguarda l’aspetto centrale della sua vita? Può egli sostenere per sempre un legame nella decisione circa il modo della sua vita? Al riguardo mi permetto due osservazioni: lo può solamente se è ancorato saldamente alla fede; secondo: solo in questo caso egli perviene alla piena dimensione dell’amore e della maturazione umana. Tutto ciò che resta al di sotto del matrimonio monogamico è comunque troppo poco per l’uomo.
D. Ma se i numeri sulle infrazioni del celibato sono esatti, allora, de facto, esso è già fallito da molto tempo. Per ripeterlo ancora una volta: forse un giorno si arriverà ad aprire il dibattito circa la possibilità di una libera scelta?
R. Libera deve esserlo in ogni caso. Infatti, prima dell’ordinazione si deve confermare con una promessa solenne che lo si fa e lo si vuole in tutta libertà. Ho sempre una brutta sensazione, quando in seguito si dice che si è trattato di un celibato forzato, che è stato imposto. Ciò va contro la parola che si è data all’inizio. Nell’educazione dei sacerdoti si deve far attenzione che questa promessa sia presa sul serio. Questo è il primo punto. Il secondo è che dove vive la fede e nella misura in cui una Chiesa vive la fede, allora vien fuori anche la forza di sostenere queste scelte.
Credo che, rinunciando a questa convinzione, non migliori nulla, ma si finisca per passare sopra a una crisi della fede. Naturalmente si tratta di una tragedia per una Chiesa, quando molti conducono, più o meno, una doppia vita.
Non sarebbe, purtroppo, la prima volta che accade. Nel tardo medioevo abbiamo avuto una situazione simile, che poi fu una delle cause che portarono alla Riforma protestante. Si tratta di un avvenimento tragico sul quale bisogna riflettere, anche per amore degli uomini che poi soffrono davvero molto profondamente. Ma credo, e stando ai risultati dell’ultimo sinodo questo è anche il convincimento della grande maggioranza dei vescovi, che il vero problema sia la crisi della fede, e che non si hanno preti migliori e più numerosi dissociando il ministero e lo stato di vita, perché in tal modo si finisce solo per ignorare una crisi di fede e per farsi ingannare da soluzioni solo apparenti.
D. Ritorniamo ancora alla mia domanda: crede che i preti forse un giorno potranno scegliere liberamente tra una vita celibataria ed una non celibataria?
R. Questo l’avevo già capito. Dovevo solo chiarire che, comunque, secondo quel che ciascuno dice prima di essere ordinato sacerdote, non ci sono persone costrette al celibato. Si viene accettati come prete solo se lo si vuole spontaneamente.
La domanda è allora: quanto profondamente sono legati tra loro sacerdozio e celibato? La volontà di optare soltanto per uno solo dei due termini non implica già di per sé una minore considerazione del sacerdozio? Credo che su questo punto non ci si possa richiamare semplicemente alle Chiese ortodosse e alla cristianità protestante. Quest’ultima ha una visione completamente diversa del ministero: è una funzione, un servizio derivato dalla comunità, ma non è un sacramento, non è il sacerdozio in senso proprio.
Nella Chiesa ortodossa, abbiamo, da un lato, la forma perfetta di sacerdozio, cioè i preti-monaci, gli unici che possono diventare vescovi. Accanto a loro ci sono i preti secolari che, se vogliono sposarsi, devono farlo prima della loro consacrazione; essi si occupano poco della cura delle anime, ma propriamente, sono solo ministri del culto.
Per questo aspetto è quasi un’altra concezione di sacerdozio. Noi, invece , riteniamo che chiunque sia sacerdote, deve esserlo nella maniera di un vescovo e che non deve esistere una tale divisione.
Nessuna consuetudine di vita della Chiesa deve essere interpretata come un assoluto, per quanto sia profondamente radicata e fondata. Sicuramente la Chiesa si dovrà porre ancora il problema, lo ha già fatto recentemente in due sinodi. Ma penso che a partire da tutta la storia della cristianità occidentale e anche dall’intima concezione che sta alla base di tutto ciò, la Chiesa non deve credere di ottenere molto orientandosi verso la dissociazione di sacerdozio e celibato; se lo facesse, finirebbe comunque per perdere qualcosa.
D. Si può quindi concludere che Lei non crede che un giorno ci saranno preti sposati nella Chiesa cattolica?
R. Comunque non in un futuro prevedibile. Per essere sincero, devo dire che abbiamo già dei preti sposati, arrivati a noi come convertiti dalla Chiesa anglicana o da diverse comunità evangeliche. Quindi, in casi eccezionali, questo è possibile, ma si tratta, appunto, di eccezioni. E penso che anche in futuro rimarranno tali.
D. Ma l’obbligo del celibato non dovrebbe venire meno, anche solo in considerazione del fatto che la Chiesa, diversamente, non avrà più preti?
R. Non credo che quest’argomento sia veramente adeguato.
Il problema delle vocazioni sacerdotali va visto sotto molti aspetti. Ha prima di tutto a che fare con il numero di bambini. Quando oggi il numero medio di bambini per famiglia è 1,5, il problema dei candidati al sacerdozio si pone in modo ben diverso dai periodi in cui le famiglie erano notevolmente più numerose.
Nelle famiglie, poi, ci sono ben altre aspettative. Oggi sperimentiamo che i maggiori ostacoli al sacerdozio frequentemente vengono dai genitori, che hanno ben altre attese per i loro figli. Questo è il primo punto. Il secondo è che il numero di cristiani praticanti è molto diminuito e perciò si è ridotta anche la base di selezione. Considerato il numero dei bambini e il numero dei praticanti, probabilmente il numero dei nuovi sacerdoti non è affatto diminuito. Quindi bisogna tener conto di questa proporzione. La prima domanda allora è: ci sono credenti? Solo dopo viene la seconda domanda: da essi escono dei sacerdoti?
Da Joseph Ratzinger, "Il sale della terra: Cristianesimo e Chiesa cattolica nel XXI secolo" – Un colloquio con Peter Seewald, Edizioni San Paolo 2005
E' pubblicato anche nel blog "Raccolta di testi di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI"
Il celibato sacerdotale. Ecco come Papa Benedetto risponde a Seewald nel libro-intervista "Luce del mondo" (2010)
Da Joseph Ratzinger, "Il sale della terra: Cristianesimo e Chiesa cattolica nel XXI secolo" – Un colloquio con Peter Seewald, Edizioni San Paolo 2005
II. Problemi della Chiesa cattolica
Il celibato
D. Stranamente niente provoca più rabbia nella gente che il problema del celibato. Anche se questo riguarda solo una minima parte della popolazione della Chiesa. Perché esiste il celibato?
R. Esso è legato a una frase di Cristo: Ci sono coloro - si legge nel Vangelo- che per amore del regno dei cieli, rinunciano al matrimonio e, con tutta la loro esistenza, rendono testimonianza al regno dei cieli.
La Chiesa è arrivata molto presto alla convinzione che essere sacerdoti significa dare questa testimonianza per il regno dei cieli. Essa poteva riallacciarsi analogamente a un parallelo veterotestamentario di altra natura. Israele entra nella terra promessa, undici tribù ricevono ciascuna la propria porzione di territorio; solo la tribù di Levi, quella dei sacerdoti, non riceve territorio né eredità; la sua eredità è solo Dio.
Praticamente ciò significa che i suoi membri vivono solo dei doni del culto e non, come le altre famiglie, della coltivazione della terra. Il punto essenziale è che essi non hanno alcuna proprietà. Il salmo 16 dice: tu sei la mia parte di eredità e il mio calice, ti ho ricevuto in sorte, Dio è la mia terra. Questa figura, che cioè nell’Antico Testamento il sacerdote non ha terra e vive, per così dire, di Dio – e perciò lo testimonia davvero –in seguito, in riferimento alla parola di Gesù è stata interpretata così: la porzione di terra in cui vive il sacerdote è Dio stesso.
Oggi possiamo capire con difficoltà questa rinuncia, poiché il rapporto con il matrimonio e i figli si è modificato. Dover morire senza figli, un tempo voleva dire aver vissuto senza scopo: una volta dispersa la traccia della mia vita, io sono morto del tutto. Se invece ho dei figli, continuerò a vivere in loro, grazie a una specie di immortalità, ottenuta attraverso la discendenza. Perciò è una superiore condizione di vita l’aver eredi e restare, attraverso di loro, nella terra dei viventi.
La rinuncia al matrimonio e alla famiglia è quindi da intendersi nella seguente prospettiva: rinuncio a ciò che per gli uomini non solo è l’aspetto più normale, ma il più importante. Rinuncio a generare io stesso vita dall’albero della vita, ad avere una terra in cui vivere e vivo con la fiducia che Dio è davvero la mia terra. Così rendo credibile anche agli altri che c’è un regno dei cieli.
Non solo con le parole, ma con questo tipo di esistenza sono testimone di Gesù Cristo e del Vangelo e gli metto così a disposizione la mia vita.
Il celibato ha dunque un significato contemporaneamente cristologico e apostolico. Non si tratta solo di risparmiare tempo - ho un po’ di tempo a disposizione perchè non sono un padre di famiglia – il che sarebbe troppo banale e pragmatico. Si tratta di un’esistenza che punta tutto sulla carta di Dio, e tralascia proprio quanto normalmente rende matura e promettente un’esistenza umana.
D. D’altra parte qui non si tratta di un dogma. Il problema sarà forse, un giorno, aperto al dibattito, nel senso di una libera scelta tra una forma di vita celibataria e una non celibataria?
R. Si, certo, non si tratta di un dogma. E’ una consuetudine venutasi a creare assai presto nella Chiesa, a seguito di sicuri riferimenti biblici. Ricerche più recenti dimostrano che il celibato risale a molto prima di quanto permettono di riconoscere le fonti del diritto di solito conosciute, fino al secondo secolo.
Anche in Oriente era molto più diffuso di quanto potevamo sapere finora. Qui solo nel secolo VII le due strade si separano. Da sempre in Oriente il monachesimo rappresenta la base portante del sacerdozio e della gerarchia e, per questo, aanche lì il celibato ha davvero grande importanza.
Non è un dogma, è un modo di vivere che è cresciuto nella Chiesa e che naturalmente comporta sempre il pericolo di una caduta. Se si punta così in alto, ci possono essere delle cadute. Penso che ciò che oggi irrita la gente nei confronti del celibato è che essa vede quanti preti non sono interiormente d’accordo e lo vivono ipocritamente, male, o non lo vivono affatto o solo con tormento e dicono…
D. …che distrugge gli uomini…
R. Quanto più un’epoca è povera di fede, tanto più frequenti sono le cadute.
Così il celibato perde di credibilità e il suo vero messaggio non viene alla luce. Si deve chiarire che i periodi di crisi del celibato corrispondono sempre a periodi di crisi del matrimonio. Infatti oggi non viviamo solo la crisi del celibato, lo stesso matrimonio viene sempre più messo in discussione come fondamento della nostra società.
Nelle legislazioni degli Stati occidentali esso è sempre più messo allo stesso livello di altri stili di vita e viene così dissolto anche come forma giuridica. La fatica di vivere veramente il matrimonio non è in fondo da meno. In pratica, con l’abolizione del celibato assisteremmo solo alla nascita di un nuovo tipo di problematica, quella dei preti divorziati. La Chiesa evangelica conosce bene questo problema. Se ne deduce che le forme elevate di esistenza umana sono sempre soggette a qualcosa che le minaccia. La conseguenza che ne trarrei, non è, però, di perdere la speranza e dire: “non ci riusciamo più”, ma dobbiamo tornare a credere, ad avere più fede. E, ovviamente, dobbiamo essere ancora più cauti nella scelta degli aspiranti sacerdoti. L’importante è che uno scelga davvero liberamente e non dica: “ si, voglio diventare prete, e allora mi carico anche di questo”, oppure; “in fondo le ragazze non mi interessano più di tanto, quindi non sarà un gran problema”. Questo non è un corretto punto di partenza. L’aspirante sacerdote deve riconoscere nella sua vita la forza della fede e deve sapere che solo in essa può vivere il celibato. Allora il celibato può diventare una testimonianza che dice qualcosa agli uomini e che riesce anche a dar loro coraggio in relazione al matrimonio. Entrambe le istituzioni sono strettamente legate l’una all’altra. Se una fedeltà non è più possibile, anche l’altra non ha più senso: l’una sostiene l’altra.
D. Suppone quindi che esista una relazione tra la crisi del celibato e quella del matrimonio
R. Mi sembra molto evidente.
In entrambi i casi la persona singola si trova di fronte al problema di una scelta di vita definitiva: a 25 anni posso già disporre di tutta la mia vita? E’ qualcosa di commisurato all’uomo? C’è la possibilità di farcela, di crescere e di maturare in modo vivo oppure devo tenermi costantemente aperto per nuove possibilità? La domanda fondamentale è la seguente: può l’uomo prendere una decisione definitiva per quel che riguarda l’aspetto centrale della sua vita? Può egli sostenere per sempre un legame nella decisione circa il modo della sua vita? Al riguardo mi permetto due osservazioni: lo può solamente se è ancorato saldamente alla fede; secondo: solo in questo caso egli perviene alla piena dimensione dell’amore e della maturazione umana. Tutto ciò che resta al di sotto del matrimonio monogamico è comunque troppo poco per l’uomo.
D. Ma se i numeri sulle infrazioni del celibato sono esatti, allora, de facto, esso è già fallito da molto tempo. Per ripeterlo ancora una volta: forse un giorno si arriverà ad aprire il dibattito circa la possibilità di una libera scelta?
R. Libera deve esserlo in ogni caso. Infatti, prima dell’ordinazione si deve confermare con una promessa solenne che lo si fa e lo si vuole in tutta libertà. Ho sempre una brutta sensazione, quando in seguito si dice che si è trattato di un celibato forzato, che è stato imposto. Ciò va contro la parola che si è data all’inizio. Nell’educazione dei sacerdoti si deve far attenzione che questa promessa sia presa sul serio. Questo è il primo punto. Il secondo è che dove vive la fede e nella misura in cui una Chiesa vive la fede, allora vien fuori anche la forza di sostenere queste scelte.
Credo che, rinunciando a questa convinzione, non migliori nulla, ma si finisca per passare sopra a una crisi della fede. Naturalmente si tratta di una tragedia per una Chiesa, quando molti conducono, più o meno, una doppia vita.
Non sarebbe, purtroppo, la prima volta che accade. Nel tardo medioevo abbiamo avuto una situazione simile, che poi fu una delle cause che portarono alla Riforma protestante. Si tratta di un avvenimento tragico sul quale bisogna riflettere, anche per amore degli uomini che poi soffrono davvero molto profondamente. Ma credo, e stando ai risultati dell’ultimo sinodo questo è anche il convincimento della grande maggioranza dei vescovi, che il vero problema sia la crisi della fede, e che non si hanno preti migliori e più numerosi dissociando il ministero e lo stato di vita, perché in tal modo si finisce solo per ignorare una crisi di fede e per farsi ingannare da soluzioni solo apparenti.
D. Ritorniamo ancora alla mia domanda: crede che i preti forse un giorno potranno scegliere liberamente tra una vita celibataria ed una non celibataria?
R. Questo l’avevo già capito. Dovevo solo chiarire che, comunque, secondo quel che ciascuno dice prima di essere ordinato sacerdote, non ci sono persone costrette al celibato. Si viene accettati come prete solo se lo si vuole spontaneamente.
La domanda è allora: quanto profondamente sono legati tra loro sacerdozio e celibato? La volontà di optare soltanto per uno solo dei due termini non implica già di per sé una minore considerazione del sacerdozio? Credo che su questo punto non ci si possa richiamare semplicemente alle Chiese ortodosse e alla cristianità protestante. Quest’ultima ha una visione completamente diversa del ministero: è una funzione, un servizio derivato dalla comunità, ma non è un sacramento, non è il sacerdozio in senso proprio.
Nella Chiesa ortodossa, abbiamo, da un lato, la forma perfetta di sacerdozio, cioè i preti-monaci, gli unici che possono diventare vescovi. Accanto a loro ci sono i preti secolari che, se vogliono sposarsi, devono farlo prima della loro consacrazione; essi si occupano poco della cura delle anime, ma propriamente, sono solo ministri del culto.
Per questo aspetto è quasi un’altra concezione di sacerdozio. Noi, invece , riteniamo che chiunque sia sacerdote, deve esserlo nella maniera di un vescovo e che non deve esistere una tale divisione.
Nessuna consuetudine di vita della Chiesa deve essere interpretata come un assoluto, per quanto sia profondamente radicata e fondata. Sicuramente la Chiesa si dovrà porre ancora il problema, lo ha già fatto recentemente in due sinodi. Ma penso che a partire da tutta la storia della cristianità occidentale e anche dall’intima concezione che sta alla base di tutto ciò, la Chiesa non deve credere di ottenere molto orientandosi verso la dissociazione di sacerdozio e celibato; se lo facesse, finirebbe comunque per perdere qualcosa.
D. Si può quindi concludere che Lei non crede che un giorno ci saranno preti sposati nella Chiesa cattolica?
R. Comunque non in un futuro prevedibile. Per essere sincero, devo dire che abbiamo già dei preti sposati, arrivati a noi come convertiti dalla Chiesa anglicana o da diverse comunità evangeliche. Quindi, in casi eccezionali, questo è possibile, ma si tratta, appunto, di eccezioni. E penso che anche in futuro rimarranno tali.
D. Ma l’obbligo del celibato non dovrebbe venire meno, anche solo in considerazione del fatto che la Chiesa, diversamente, non avrà più preti?
R. Non credo che quest’argomento sia veramente adeguato.
Il problema delle vocazioni sacerdotali va visto sotto molti aspetti. Ha prima di tutto a che fare con il numero di bambini. Quando oggi il numero medio di bambini per famiglia è 1,5, il problema dei candidati al sacerdozio si pone in modo ben diverso dai periodi in cui le famiglie erano notevolmente più numerose.
Nelle famiglie, poi, ci sono ben altre aspettative. Oggi sperimentiamo che i maggiori ostacoli al sacerdozio frequentemente vengono dai genitori, che hanno ben altre attese per i loro figli. Questo è il primo punto. Il secondo è che il numero di cristiani praticanti è molto diminuito e perciò si è ridotta anche la base di selezione. Considerato il numero dei bambini e il numero dei praticanti, probabilmente il numero dei nuovi sacerdoti non è affatto diminuito. Quindi bisogna tener conto di questa proporzione. La prima domanda allora è: ci sono credenti? Solo dopo viene la seconda domanda: da essi escono dei sacerdoti?
Da Joseph Ratzinger, "Il sale della terra: Cristianesimo e Chiesa cattolica nel XXI secolo" – Un colloquio con Peter Seewald, Edizioni San Paolo 2005
E' pubblicato anche nel blog "Raccolta di testi di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI"
AMDG et DVM
martedì 10 aprile 2018
Quella straordinaria Omelia di tredici anni fa è rimasta nel cuore di tutti
domenica 8 aprile 2018
Funerali di Giovanni Paolo. La straordinaria omelia del card. Joseph Ratzinger (YouTube)
LINK DIRETTO SU YOUTUBE
L'8 aprile 2005, esattamente tredici anni fa, l'allora cardinale Ratzinger presiedette i funerali di Giovanni Paolo II.
La straordinaria omelia è rimasta nel cuore di tutti.
Clicca qui per il testo integrale.
R.
Clicca qui per il testo integrale.
R.
OREMUS PRO PONTIFICE NOSTRO
giovedì 6 luglio 2017
Raccolta di testi di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI: Card. Ratzinger: "Il Battesimo è l'arcobaleno di D...
Raccolta di testi di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI: Card. Ratzinger: "Il Battesimo è l'arcobaleno di D...: Grazie al grande lavoro del nostro Marco, possiamo leggere il testo della bellissima omelia che l'allora cardinale Ratzinger pronuncio&...
BELLISSIMA OMELIA
La lingua latina, la bellezza della liturgia, la preghiera 'ad Orientem'
La lingua latina,
la bellezza della liturgia,
la preghiera 'ad Orientem'
Pubblichiamo tre importanti contributi di Padre Uwe Michael
Lang:
L'evoluzione storica della lingua liturgica nel rito romano,
La
bellezza materiale e concretissima della liturgia;
L'orientamento della
preghiera nella Messa.
Il latino vincolo di unità fra popoli e culture
di Uwe Michael Lang
L'
unità culturale e politica del mondo mediterraneo fu un fattore provvidenziale nella diffusione della fede cristiana. In particolare,
la diffusione della lingua greca nei centri urbani dell'Impero Romano favorì l'annuncio del Vangelo.
Il greco parlato a Oriente e Occidente non era l'idioma classico, bensì la koiné semplificata, il
linguaggio comune delle varie nazioni della parte orientale del mondo mediterraneo: Grecia, Asia Minore, Siria, Palestina ed Egitto.
La koiné greca era anche la lingua del proletariato urbano in Occidente che vi era emigrato dai territori orientali dell'Impero. Roma era divenuta una città multi-etnica e multi-culturale. In essa
viveva anche una consistente popolazione ebraica, che sembra parlasse principalmente il greco.
La lingua delle prime comunità cristiane a Roma era il greco. Ciò risulta evidente dalla Lettera ai
Romani di Paolo e dalle prime opere letterarie cristiane che videro la luce a Roma, per esempio la Prima Lettera di Clemente, il Pastore di Erma e gli scritti di Giustino.
Nei primi due secoli si avvicendarono parecchi papi con nomi greci e le iscrizioni tombali cristiane erano composte in greco. Durante questo periodo, greca era anche la lingua comune della
liturgia romana.
Lo spostamento verso il latino non cominciò a Roma, ma nell'Africa settentrionale, dove i convertiti al cristianesimo erano in maggioranza nativi di lingua madre latina piuttosto che immigrati
greco parlanti. Verso la metà del terzo secolo questa transizione era molto avanzata: membri del clero romano scrivevano a Cipriano di Cartagine in latino; latina era anche la lingua in cui
Novaziano compose il suo De trinitate e altre opere, citando una versione latina esistente della Bibbia. Nessun riferimento si fa qui alla cosiddetta Traditio Apostolica, attribuita a Ippolito da
Roma, a causa dell'incertezza sulla data, sull'origine e sul vero autore.
Sembrerebbe che nella seconda metà del terzo secolo il flusso immigratorio dall'Oriente verso Roma diminuisse. Questo cambio demografico comportò un peso crescente dei nativi latino parlanti
nella vita della Chiesa di Roma. Ciò nonostante il greco continuò ad essere usato nella liturgia romana, almeno a un certo livello, fino alla seconda metà del IV secolo; questo si evince da una
citazione greca della preghiera eucaristica nell'autore latino Mario Vittorino, risalente al 360.
Intorno a quell'epoca, comunque, la transizione al latino era in fase molto avanzata; ciò risulta molto evidente da un autore altrimenti sconosciuto che scrive fra il 374 e il 382, il quale sostiene che
la preghiera eucaristica a Roma si riferisce a Melchisedek come summus sacerdos - un titolo che ci suona familiare dal più tardo Canone della messa.
La più importante risorsa per la storia della prima liturgia latina è Ambrogio di Milano. Nel suo De sacramentis, una serie di catechesi per i neo battezzati tenute intorno al 390, egli cita
estesamente la preghiera eucaristica usata a quell'epoca a Milano. I passaggi citati sono le forme più antiche delle preghiere Quam oblationem, Qui pridie, Unde et memores, Supra quae, e
Supplices te rogamus del Canone Romano.
Altrove, nel De sacramentis, Ambrogio sottolinea il suo desiderio di seguire l'uso della Chiesa romana in tutto; per questa ragione, possiamo ritenere
con certezza che questa preghiera eucaristica fosse di origine romana. Anche nei sermoni di Zeno, vescovo di Verona dal 362 al 372, ci sono tracce che attestano la diffusione geografica di questa
forma originaria del Canone Romano.
La formulazione letterale delle preghiere citate da Ambrogio non è sempre identica al Canone che Gregorio Magno promulgò alla fine del VI secolo ed è giunto fino a noi con poche modifiche di
scarso rilievo rispetto ai libri liturgici più antichi, specialmente il vecchio Sacramentario Gelasiano, risalente alla metà dell'VIII secolo, ma ritenuto eco di usi liturgici più antichi.
In ogni caso le differenze fra questi due testi sono di gran lunga inferiori alle loro somiglianze, dato che i quasi trecento anni intercorrenti fra di essi furono un periodo di intenso sviluppo
liturgico.
Il passaggio dal greco al latino nella liturgia romana avvenne gradualmente e fu completato sotto il pontificato di Damaso I (366-384). Da allora in poi la liturgia a Roma fu celebrata in latino, con
l'eccezione di poche reminiscenze dell'uso più antico, come il Kyrie eleison nell'Ordo e le letture in greco nella messa papale.
Stando a Ottato di Milevi, che scrive intorno al 360, c'erano più di quaranta chiese a Roma prima dell'editto di Costantino. Se questa informazione è vera, sarebbe ragionevole opinare che ci
fossero comunità latino parlanti nel III secolo, se non prima, che celebravano la liturgia in latino, in particolare la lettura della Sacra Scrittura.
I Salmi erano stati cantati in latino sin dalle origini e l'antica versione usata nella liturgia aveva acquisito una tale aura di sacralità che Girolamo la corresse soltanto con molta cautela. In seguito
egli tradusse il Salterio dall'ebraico non per uso liturgico, come disse, ma per fornire un testo agli studiosi e al dibattito.
Christine Mohrmann suggerisce che la liturgia battesimale fosse tradotta in
latino sin dal II secolo. Nessuna certezza si può avere su questi punti, ma è chiaro che ci fu un periodo di transizione e che esso fu lungo.
Mohrmann introduce una distinzione utile fra, primo, "testi di preghiera", dove la lingua è soprattutto un mezzo di espressione, secondo, testi "destinati a essere letti, l'Epistola e il Vangelo", e,
terzo, "testi confessionali", come il credo.
Nei testi di preghiera ci troviamo di fronte a modi di esprimersi; negli altri primariamente a forme di comunicazione.
Recenti ricerche su lingua e rito, come l'opera di Catherine Bell, confermano l'intuizione di Mohrmann che la lingua ha differenti funzioni in differenti parti della liturgia, che vanno oltre la mera
comunicazione o informazione. Queste riflessioni teoretiche ci aiutano a capire lo sviluppo della prima liturgia romana: quelle parti in cui gli elementi di comunicazione erano prevalenti, come la
lettura delle Scritture, furono tradotte prima, mentre la preghiera eucaristica continuò ad essere recitata in greco per un periodo molto più lungo.
La "sociolinguistica" - una disciplina accademica relativamente nuova - ci mette in guardia sul fatto che la scelta di una lingua rispetto a un'altra non è mai questione neutrale o trasparente. Di
conseguenza è importante considerare il cambio dal greco al latino nella liturgia romana nei suoi contesti storici, sociali e culturali.
Gli storici dell'antichità hanno indicato che la formazione di lingua latina liturgica fece parte di uno sforzo a largo raggio di cristianizzazione della cultura e della civiltà romana.
Nella seconda metà del IV secolo i vescovi più influenti in Italia, soprattutto Damaso a Roma e Ambrogio a Milano, erano impegnati a cristianizzare la cultura dominante dei loro giorni. Nella
città di Roma c'era una forte presenza pagana e specialmente l'aristocrazia continuava ad aderire ai vecchi costumi, anche se nominalmente erano divenuti cristiani. Roma non era più il centro del
potere politico, ma la sua cultura continuava ad avere radici nella mentalità delle sue elites.
Il IV secolo è ora considerato un periodo di rinascimento letterario, con un rinnovato interesse per i "classici" della poesia e della prosa romane. Gli imperatori del IV secolo coltivarono questa
Latinitas, e ci fu una riscoperta del latino anche ad Oriente.
Con tenacia caratteristica, Roma mantenne le sue antiche tradizioni.
In relazione a ciò, i papi del tardo IV secolo promossero un progetto consapevole e comprensivo di appropriazione dei simboli della civiltà romana da parte della fede cristiana. Parte di questo
tentativo fu l'appropriazione di spazio pubblico tramite impegnativi progetti edilizi. Dopo che gli Imperatori della dinastia di Costantino avevano dato il via con le monumentali basiliche del
Laterano e San Pietro, come pure con le basiliche dei cimiteri fuori delle mura urbane, i papi continuarono questo programma edilizio che avrebbe trasformato Roma in una città dominata da
chiese.
Il progetto più prestigioso fu la costruzione di una nuova basilica dedicata a San Paolo sulla Via Ostiense, sostituendo il piccolo edificio costantiniano con una nuova chiesa simile per dimensioni a
San Pietro.
Un altro aspetto importante fu l'appropriazione del tempo pubblico con un ciclo di feste cristiane lungo il corso dell'anno al posto delle celebrazioni pagane (vedi il calendario
Filocaliano dell'anno 354).
La formazione del latino liturgico fece parte di questo sforzo omnicomprensivo di evangelizzare la cultura classica.
Christine Mohrmann ravvisa in essa il fortuito combinarsi di un rinnovamento della lingua, ispirato dalla novità della rivelazione, e di un tradizionalismo stilistico fermamente radicato nel mondo
romano.
Il latino liturgico ha la gravitas romana ed evita l'esuberanza dello stile di preghiera dell'Oriente cristiano, che si ritrova anche nella tradizione gallicana.
Questa non fu un'adozione della
lingua "vernacola" nella liturgia, dato che il latino del Canone Romano, delle collette e dei prefazi della messa, fu rimosso dall'idioma della gente comune.
Essa era una lingua fortemente stilizzata
che difficilmente avrebbe capito un cristiano medio di Roma della tarda antichità, considerato specialmente che il livello di istruzione era molto basso rispetto ai nostri tempi.
Inoltre lo sviluppo
della Latinitas cristiana può avere reso la liturgia più accessibile alla gente di Milano o Roma, ma non necessariamente a coloro la cui lingua madre era il gotico, il celtico, l'iberico o il punico.
È possibile immaginare una Chiesa occidentale con lingue locali nella sua liturgia, come in Oriente, dove, in aggiunta al greco, erano usati il siriano, il copto, l'armeno, il georgiano e l'etiope.
Ad ogni modo la situazione in Occidente era fondamentalmente differente; la forza unificatrice del papato era tale che il latino divenne l'unica lingua liturgica. Questo fu un fattore importante per
favorire la coesione ecclesiastica, culturale e politica.
6/7/2017 diocesiportosantarufina.it: La lingua latina, la bellezza della liturgia, la preghiera 'ad Orientem'
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Il latino liturgico fu sin dai primordi una lingua sacra separata dalla lingua del popolo; tuttavia la distanza divenne maggiore con lo sviluppo delle culture e delle lingue nazionali in Europa, per
non menzionare i territori di missione.
"La prima opposizione al latino liturgico - ha scritto Christine Mohrmann - coincise con la fine del latino medievale come "seconda lingua viva", che fu rimpiazzato da una lingua veramente
"morta", il latino degli umanisti. E l'opposizione dei nostri giorni al latino liturgico ha qualcosa a che fare con l'indebolimento dello studio del latino - e con la tendenza al "secolarismo""
("The
Ever-Recurring Problem of Language in the Church", in Études sur le latin des chrétiens, IV, Roma, 1977).
Il Concilio Vaticano II volle risolvere la questione estendendo l'uso del vernacolo nella liturgia, soprattutto nelle letture (Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 2).
Allo stesso tempo, esso sottolineò che "l'uso della lingua latina ... sia conservato nei riti latini" (Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 1; cfr anche art. 54). I Padri conciliari non immaginavano che la
lingua sacra della Chiesa occidentale sarebbe stata rimpiazzata dal vernacolo.
La frammentazione linguistica del culto cattolico nel periodo post-conciliare si è spinta così oltre che la maggioranza dei fedeli oggi può a stento recitare un Pater noster insieme agli altri, come si
può notare nelle riunioni internazionali a Roma o a Lourdes.
In un'epoca contrassegnata da grande mobilità e globalizzazione, una lingua liturgica comune potrebbe servire come vincolo di unità fra popoli e culture, a parte il fatto che la liturgia latina è un
tesoro spirituale unico che ha alimentato la vita della Chiesa per molti secoli.
Infine, è necessario preservare il carattere sacro della lingua liturgica nella traduzione vernacola, come fa notare
l'istruzione della Santa Sede Liturgiam authenticam del 2001.
(©L'Osservatore Romano - 15 novembre 2007)
La bellezza materiale e
concretissima della liturgia
di Uwe Michael Lang
La tradizione sapienziale biblica acclama Dio come "lo stesso autore della bellezza" (Sapienza, 13, 3), glorificandolo per la grandezza e la bellezza delle opere della creazione.
Il pensiero
cristiano, prendendo spunto soprattutto dalla sacra Scrittura, ma anche dalla filosofia classica, ha sviluppato la concezione della bellezza come categoria ontologica, anzi teologica.
San Bonaventura è stato il primo teologo francescano a includere la bellezza tra le proprietà trascendentali, insieme all'essere, alla verità e alla bontà. I teologi domenicani sant'Alberto Magno e
san Tommaso d'Aquino, pur non annoverando la bellezza fra i trascendentali, intraprendono un simile discorso nei loro commentari sul trattato pseudo-dionisiano De divinis nominibus, dove
emerge l'universalità della bellezza, la cui prima causa è Dio stesso.
Nella condizione della modernità, ciò che è contestato è proprio la dimensione trascendente della bellezza, commutabile con la verità e la bontà. La bellezza è stata privata del suo valore
ontologico ed è stata ridotta a un'esperienza estetica, addirittura a un mero "sentimento".
Le conseguenze di questa svolta soggettivista si sentono non solo nel mondo dell'arte. Piuttosto, insieme
con la perdita della bellezza come trascendentale, si è persa anche l'evidenza della bontà e della verità.
Il bene è privo dalla sua forza di attrazione, come il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar
ha rilevato con esemplare chiarezza nel suo opus magnum sull'estetica teologica Herrlichkeit (La gloria del Signore).
Certamente la tradizione cristiana conosce anche un falso tipo di bellezza che non innalza verso Dio e il suo Regno, ma invece trascina lontano dalla verità e bontà e suscita desideri disordinati. Il
libro della Genesi rende chiaro che è stata una falsa bellezza a portare al peccato originale. Visto che il frutto dell'albero in mezzo al giardino era un vero piacere per gli occhi (Genesi, 3, 6), la
tentazione del serpente provoca Adamo ed Eva alla ribellione contro Dio.
Il dramma della caduta dei progenitori fa da sfondo a un passo, ne I Fratelli Karamazov (1880) dello scrittore russo Fëdor Dostoevskij (1821-1881), dove Mitia Karamazov, uno dei protagonisti del
romanzo, dice:
"La cosa paurosa è che la bellezza non solo è terribile, ma è anche un mistero. È qui che Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini".
Lo stesso Dostoevskij nel suo romanzo L'idiota (1869) mette sulla bocca del suo eroe, il principe Mishkin, le famose parole: "Il mondo sarà salvato dalla bellezza". Dostoevskij non intende
qualsiasi bellezza, anzi, si riferisce alla bellezza redentrice di Cristo.
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Nel suo messaggio magistrale per il Meeting di Rimini nel 2002, l'allora cardinale Joseph Ratzinger rifletteva su questo famoso detto di Dostoevskij, trattando l'argomento dalla prospettiva
biblico-patristica. Come punto di partenza, egli si serve del salmo 44, letto nella tradizione ecclesiale "come rappresentazione poetico-profetica del rapporto sponsale di Cristo con la Chiesa". In
Cristo, "il più bello tra gli uomini", appare la bellezza della Verità, la bellezza di Dio stesso.
Nell'esegesi di questo salmo, i Padri della Chiesa, come sant'Agostino e san Gregorio di Nissa, accoglievano anche gli elementi più nobili della filosofia greca del bello, mediante la lettura dei
platonici, ma non li ripetevano semplicemente, poiché con la rivelazione cristiana è entrato un nuovo fatto: è lo stesso Cristo, "il più bello tra gli uomini", al quale la Chiesa, ricordandolo come
sofferente, attribuisce anche la profezia di Isaia (53, 2 ) "non ha bellezza né apparenza; l'abbiamo veduto: un volto sfigurato dal dolore".
Nella passione di Cristo si incontra una bellezza che va al di là di quella esteriore e si apprende "che la bellezza della verità comprende offesa, dolore e (...) anche l'oscuro mistero della morte, e che
essa può essere trovata solo nell'accettazione del dolore, e non nell'ignorarlo", come accenna l'allora cardinale Ratzinger.
Perciò, ha parlato di una "paradossale bellezza", pur notando che il paradosso "è una contrapposizione, ma non una contraddizione", quindi è nella totalità che si rivela la bellezza di Cristo,
quando contempliamo l'immagine del Salvatore crocifisso, che mostra il suo "amore sino alla fine" (Giovanni, 13, 1).
La bellezza redentrice di Cristo si riflette soprattutto nei santi di ogni epoca, ma anche nelle opere d'arte che la fede ha generate: esse hanno la capacità di purificare e di sollevare i nostri cuori e,
così, di portarci al di là di noi stessi verso Dio, che è la Bellezza stessa.
Il teologo Joseph Ratzinger è convinto che questo incontro con la bellezza "che ferisce l'anima e in questo modo le apre gli
occhi" sia "la vera apologia della fede cristiana".
Da Papa, ha ribadito questi suoi pensieri nell'incontro con il clero di Bolzano-Bressanone dell' 8 agosto 2008 e nel suo messaggio in occasione della recente seduta pubblica delle Pontificie
Accademie del 24 novembre 2008:
"Questo" - ha detto il Santo Padre nella prima circostanza - "è in qualche modo la prova della verità del cristianesimo: cuore e ragione si incontrano, bellezza e
verità si toccano".
Occorre aggiungere che per Benedetto XVI la bellezza della verità si manifesta soprattutto nella sacra liturgia. Infatti, ha ripreso la sua riflessione sulla bellezza redentrice di Cristo nella sua
esortazione apostolica postsinodale Sacramentum Caritatis (22 febbraio 2007), dove riflette sulla gloria di Dio che si esprime nella celebrazione del mistero pasquale.
La liturgia "costituisce, in un
certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra. (...) elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba
avere perché l'azione liturgica risplenda secondo la sua natura propria" (n. 35).
La bellezza della liturgia si manifesta anche attraverso le cose materiali di cui l'uomo, fatto di anima e corpo, ha bisogno per raggiungere le realtà spirituali: l'edificio del culto, le suppellettili, le
immagini, la musica, la dignità delle cerimonie stesse. La liturgia esige il meglio delle nostre possibilità, per glorificare Dio Creatore e Redentore.
Nell'udienza generale del 6 maggio 2009,
dedicata a san Giovanni Damasceno, noto come difensore del culto delle immagini nel mondo bizantino, Benedetto XVI spiega "la grandissima dignità che la materia ha ricevuto
nell'Incarnazione, potendo divenire, nella fede, segno e sacramento efficace dell'incontro dell'uomo con Dio".
Va riletto in merito anche il capitolo sul "Decoro della celebrazione liturgica" nell'ultima enciclica Ecclesia de Eucharistia del Beato Giovanni Paolo II (17 aprile 2003), dove insegna che la
Chiesa, come la donna dell'unzione di Betania, identificata dall'evangelista Giovanni con Maria Maddalena sorella di Lazzaro (Giovanni, 12; cfr. Matteo, 26; Marco, 14), "non ha temuto di "sprecare",
investendo il meglio delle sue risorse per esprimere il suo stupore adorante di fronte al dono incommensurabile dell'Eucaristia" (47-48).
La questione liturgica è anche essenziale per la valorizzazione del grande patrimonio cristiano non soltanto in Europa, ma anche nell'America Latina e in altre parti del mondo, dove il Vangelo è
stato proclamato da secoli.
Nel 1904, lo scrittore Marcel Proust (1871-1922) pubblicò un celebre articolo su "Le Figaro", intitolato La mort des cathédrales, contro la progettata legislazione laicista che avrebbe portato a una
soppressione dei sussidi statali per la Chiesa e minacciava l'uso religioso delle cattedrali francesi.
Proust sostiene che l'impressione estetica di questi grandi monumenti sia inseparabile dai sacri riti per i quali sono state costruite. Se la liturgia non viene più celebrata in esse, saranno
trasformate in freddi musei e diventeranno proprio morte.
Una simile osservazione si trova negli scritti di Joseph Ratzinger, cioè che "la grande tradizione culturale della fede possiede una forza straordinaria che vale proprio per il presente: ciò che nei
musei può essere solo testimonianza del passato, ammirata con nostalgia, nella liturgia continua a diventare presente vivo" (Introduzione allo Spirito della Liturgia, p. 152).
Durante il suo recente viaggio in Francia, il Papa si è riferito a questa idea nella sua omelia per i vespri celebrati il 12 settembre 2008, nella splendida cattedrale Notre-Dame di Parigi, elogiandola
come "un inno vivente di pietra e di luce" a lode del mistero dell'Incarnazione del Figlio di Dio nella beata Vergine Maria. Era proprio lì, dove il poeta Paul Claudel (1868-1955) aveva avuto una
singolare esperienza della bellezza di Dio, durante il canto del Magnificat ai vespri di Natale 1886, la quale lo condusse alla conversione. È questa via pulchritudinis che può diventare strada
dell'annuncio di Dio anche all'uomo di oggi.
6/7/2017 diocesiportosantarufina.it: La lingua latina, la bellezza della liturgia, la preghiera 'ad Orientem'
http://www.diocesiportosantarufina.it/home/news_print.php?neid=822 5/7
(©L'Osservatore Romano - 8-9 giugno 2009)
Riorientare la Messa
Padre Lang spiega come si deve essere “rivolti al Signore”
L’
obiezione che solitamente viene sollevata rispetto alla forma antica di celebrare la Messa è che il sacerdote dà le spalle alla comunità, ma questo è un falso problema, secondo padre Uwe
Michael Lang.
La postura “ad orientem” - verso oriente - riguarda piuttosto la volontà di assumere una direzione comune (tra comunità e sacerdote) nella preghiera liturgica, aggiunge.
Padre Lang del London Oratory, recentemente nominato alla Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, è autore del libro “Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera
liturgica”.
Il libro è stato pubblicato inizialmente in Germania da Johannes Verlag e poi in inglese da Ignatius Press. Successivamente è apparso anche in italiano (ed. Cantagalli), francese,
ungherese e spagnolo.
In questa intervista rilasciata a ZENIT, padre Lang parla della postura “ad orientem” e della possibilità di riscoprire questa antica pratica liturgica.
Come si è sviluppata, nella Chiesa dei primi secoli, la pratica di celebrare la liturgia “ad orientem”, rivolti verso oriente?
Qual è il suo significato teologico?
Padre Lang: Nella maggior parte delle religioni, la posizione che si assume nella preghiera e nell’orientamento dei luoghi sacri è determinata da una “direzione sacra”. La direzione sacra
dell'ebraismo è verso Gerusalemme o più precisamente verso la presenza del Dio trascendente “shekinah” nel Sancta Sanctorum del Tempio, come si legge in Daniele 6,11.
Anche dopo la distruzione del Tempio, l’uso di rivolgersi verso Gerusalemme è rimasto nella liturgia della sinagoga. È così che gli ebrei hanno espresso la loro speranza escatologica per l’arrivo del
Messia, per la ricostruzione del Tempio e per il rientro del popolo di Dio dalla diaspora.
I primi cristiani non si volgevano più verso la Gerusalemme terrena, ma verso la nuova Gerusalemme celeste. La loro ferma convinzione era che con la seconda venuta, nella gloria, il Cristo risorto
avrebbe radunato il suo popolo per costituire questa città celeste.
Essi vedevano nel sorgere del sole un simbolo della Risurrezione e della seconda venuta. E questo simbolo è stato quindi trasposto anche nella preghiera.
Vi sono elementi che ampiamente
dimostrano che dal secondo secolo in poi, in gran parte del mondo cristiano, la preghiera era rivolta verso oriente.
Nel Nuovo Testamento, il significato della preghiera orientata (rivolta verso oriente) non è esplicito.
Ciò nonostante la Tradizione ha individuato molti riferimenti testuali a questo simbolismo, come ad esempio: il “sole di giustizia” in Malachia 3, 30; “verrà a visitarci dall'alto un sole che sorge” in
Luca 1, 78; l’angelo che sale dall’oriente con il sigillo del Dio vivente in Apocalisse 7, 2; e le immagini di luce nel Vangelo di san Giovanni.
In Matteo 24, 27-30 il segno della venuta del Figlio dell’Uomo con grande potenza e gloria, come la folgore che viene da oriente e brilla fino a occidente, è la croce.
Esiste una stretta relazione tra la preghiera orientata e la croce; questo risulta evidente sin dal quarto secolo, se non prima. Nelle sinagoghe di quel periodo, il punto in cui erano collocati i rotoli
della Torah indicava la direzione della preghiera “qibla” verso Gerusalemme.
Tra i cristiani divenne uso comune segnare la direzione della preghiera con una croce sul muro orientale nelle absidi delle basiliche e nei luoghi privati, per esempio, dei monaci e degli eremiti.
Verso la fine del primo millennio vi sono teologi di diverse tradizioni che osservano come la preghiera orientata sia una delle pratiche che distinguono il Cristianesimo dalle altre religioni del
Vicino Oriente: gli ebrei pregano verso Gerusalemme, i musulmani verso la Mecca, mentre i Cristiani verso oriente.
Anche gli altri riti della Chiesa cattolica adottano l’orientamento liturgico?
6/7/2017 diocesiportosantarufina.it: La lingua latina, la bellezza della liturgia, la preghiera 'ad Orientem'
http://www.diocesiportosantarufina.it/home/news_print.php?neid=822 6/7
Padre Lang: La preghiera liturgica orientata (rivolta verso oriente) fa parte anche delle tradizioni bizantina, siriaca, armena, copta ed etiope. Ancora oggi essa è in uso nella maggior parte dei riti
orientali, almeno per quanto riguarda la preghiera eucaristica.
Alcune Chiese cattoliche orientali, come ad esempio quella maronita e quella siro-malabarese, hanno adottato in tempi recenti la Messa rivolta “versus populum”, ma questo è dovuto all’influenza
moderna occidentale e non deriva dalle proprie tradizioni.
Per questo motivo la Congregazione vaticana per le Chiese orientali ha dichiarato nel 1996 che l’antica tradizione di pregare rivolti verso oriente ha un profondo valore liturgico e spirituale e deve
essere preservata nei riti orientali.
Spesso sentiamo dire che “ad orientem” significa che il sacerdote sta celebrando con le spalle rivolte alla comunità. Ma qual è il significato vero di questo
orientamento?
Padre Lang: Il luogo comune secondo cui il prete dà le spalle alla gente è un falso problema in quanto il punto essenziale è che la Messa è un atto di culto comune, in cui il sacerdote insieme alla
comunità - che rappresentano la Chiesa pellegrina - protendono verso il Dio trascendente.
La questione non è se la celebrazione è rivolta “verso” o “contro” la comunità, ma è la comune direzione della preghiera liturgica che conta. E ciò si può avere a prescindere dall’orientamento
dell’altare.
In Occidente molte chiese costruite dopo il XVI secolo non sono più orientate.
Il sacerdote all’altare, rivolto nella stessa direzione dei fedeli, guida il popolo di Dio nel cammino della fede. Questo movimento verso il Signore trova la sua massima espressione nei santuari di
molte chiese del primo millennio, in cui la rappresentazione della croce o del Cristo glorificato indica la meta del pellegrinaggio terreno dell’assemblea.
Essere rivolti verso il Signore significa mantenere vivo il senso escatologico dell’Eucaristia e ci ricorda che la celebrazione del Sacramento è una partecipazione alla liturgia celeste e la promessa
della futura gloria nella presenza del Dio vivente.
Questo dà all’Eucaristia la sua grandezza, evitando che la singola comunità si chiuda in se stessa, aprendola verso l’assemblea degli angeli e dei santi nella città celeste.
In che modo può una liturgia orientata promuovere il dialogo con il Signore nella preghiera?
Padre Lang: L’elemento principale del culto cristiano è il dialogo tra il popolo di Dio nel suo complesso, compreso il celebrante, e Dio verso il quale è rivolta la preghiera.
È per questo che il liturgista Marcel Metzger sostiene che la diatriba sul verso in cui è rivolto il celebrante rispetto alla comunità esclude del tutto colui verso il quale tutte le preghiere sono dirette,
ovvero Dio stesso.
L’Eucaristia non è celebrata con il sacerdote rivolto verso i fedeli o dando loro le spalle. Piuttosto è l’intera assemblea che celebra rivolta verso Dio, attraverso Gesù Cristo, nello Spirito Santo.
Nella premessa al suo libro, l’allora cardinale Ratzinger osserva che nessuno dei documenti del Concilio Vaticano II indica di dover rivolgere l’altare verso i fedeli.
Come si è verificato allora il cambiamento? Qual è la base per tale importante modifica della liturgia?
Padre Lang: Solitamente si citano due argomenti principali per sostenere la posizione del celebrante rivolto verso i fedeli.
Il primo è che tale pratica corrisponde a quella della Chiesa dei primi secoli e che pertanto deve essere adottata come la norma anche ai tempi nostri. Tuttavia, un’attenta analisi dei documenti
non dà conferma a questa ipotesi.
Il secondo è che la “attiva partecipazione” dei fedeli, un principio introdotto da Papa Pio X e diventato centrale nella “Sacrosanctum Concilium”, impone che il celebrante sia rivolto verso la
comunità.
Ma una riflessione critica sul concetto di “attiva partecipazione” ha di recente rivelato la necessità di una nuova valutazione teologica di questo importante principio.
Nel suo libro “Lo spirito della liturgia”, l’allora cardinale Ratzinger compie una utile distinzione tra la partecipazione alla liturgia della Parola, che comprende azioni esterne, e la partecipazione
alla liturgia eucaristica, in cui le azioni esterne sono del tutto secondarie, poiché è la partecipazione interiore della preghiera che costituisce l’elemento centrale.
La recente esortazione apostolica post-sinodale del Santo Padre “Sacramentum Caritatis” contiene una importante trattazione di questo argomento al paragrafo 52.
Il nuovo ordinamento della Messa promulgato da Papa Paolo VI nel 1970 vieta al sacerdote di rivolgersi ad oriente? Esiste qualche ostacolo giuridico che vieta l’uso più
ampio di questa antica pratica?
6/7/2017 diocesiportosantarufina.it: La lingua latina, la bellezza della liturgia, la preghiera 'ad Orientem'
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Padre Lang: Il Messale di Papa Paolo VI considera come un’opzione legittima quella di combinare la posizione del sacerdote rivolto verso i fedeli durante la liturgia della Parola e la posizione di
entrambi rivolti verso l’altare durante la liturgia eucaristica e in particolare per il Canone.
La versione revisionata delle Istruzioni generali del Messale romano, che sono state pubblicate inizialmente per motivi accademici nel 2000, affronta la questione dell’altare al paragrafo 299, che
sembra considerare la posizione del celebrante rivolto “ad orientem” come non opportuna o persino vietata.
Tuttavia, la Congregazione per il culto divino e i sacramenti ha rigettato questa interpretazione in risposta ad una domanda sottoposta dal cardinale Christoph Schönborn, Arcivescovo di Vienna.
Ovviamente il paragrafo delle Istruzioni generali deve essere letto alla luce di questa riposta, datata 25 settembre 2000.
La recente lettera apostolica di Benedetto XVI “Summorum Pontificum” (7-7-2007), che liberalizza l’uso del Messale di Giovanni XXIII, consentirà un più profondo
apprezzamento della posizione “rivolti verso il Signore” durante la Messa?
Padre Lang: Io credo che molte riserve o persino timori sulla Messa “ad orientem” derivino da una scarsa familiarità con essa e che la diffusione dell’ “uso straordinario” del rito romano antico
aiuterà molte persone a riscoprire e apprezzare questa forma di celebrazione.
fonte: Zenit, giovedì, 25 ottobre 2007
(01/12/2010)
di di p. Uwe Michael Lang
AMDG et BVM
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