domenica 24 gennaio 2021

Intervista al Cardinal Joseph Ratzinger - Profeti e Profezie



Profeti e profezie: intervista a Joseph Ratzinger

Intervista al Cardinale Joseph Ratzinger
di Niels Christian Hvidt,
1998

Quando si sente nominare la parola “profezia”, la maggior parte dei teologi pensa ai profeti dell’Antico Testamento, a Giovanni Battista, o alla dimensione profetica del Magistero. Così, nella Chiesa cristiana, il tema dei profeti viene solo raramente affrontato. E tuttavia la storia della Chiesa è costellata di figure profetiche di santi che spesso non verranno canonizzati se non molto più tardi, e che durante la loro vita avevano trasmesso un Messaggio, non come loro parola, ma come Parola proveniente da Dio. Quale sia la specificità dei profeti, che cosa li distingua dai rappresentanti della Chiesa istituzionale e come la Parola loro rivelata si rapporti alla Parola rivelata in Cristo e che ci è stata trasmessa dagli Apostoli, su tutto questo non si è mai riflettuto in modo sistematico. Effettivamente non è mai stata sviluppata una vera e propria teologia della profezia cristiana e di fatto esistono pochissimi studi riguardo a questo problema. Nella sua attività teologica, il card. Joseph Ratzinger si è già occupato da tempo e in modo approfondito del concetto di Rivelazione. La sua tesi di laurea sulla “Teologia della storia di san Bonaventura” aveva avuto un tale impatto innovativo che il suo lavoro era stato dapprima respinto. In quel tempo, la Rivelazione veniva ancora concepita come una raccolta di proposizioni divine. Essa era soprattutto, e prima di tutto, considerata una questione di conoscenze razionali. Tuttavia Ratzinger ha trovato, nelle sue ricerche, che in san Bonaventura la rivelazione si riferiva all’azione di Dio nella storia, nella quale la Verità si rivelava a poco a poco. La Rivelazione è una continua crescita della Chiesa verso la pienezza del Logos, della Parola di Dio. Solo dopo una notevole riduzione e una nuova elaborazione del testo, il suo lavoro venne accolto. Da allora il cardinale Ratzinger sostiene una comprensione dinamica della Rivelazione, alla luce della quale il Cristo, poiché è Parola di Dio, è sempre più grande di ogni altra parola di uomo che non potrà mai esprimerla pienamente. Al contrario le parole partecipano a questa pienezza inesauribile della Parola, si aprono a lei e crescono man mano di generazione in generazione. Una definizione teologica della profezia cristiana può essere raggiunta solo nel quadro di un simile concetto dinamico di Rivelazione. Già nel 1993 il cardinale Joseph Ratzinger affermava che era urgente una profonda ricerca per stabilire ciò che significava essere o non essere profeti, nel senso cristiano del termine. Ecco perché abbiamo chiesto al Cardinale un incontro per parlare sul tema della profezia cristiana. Il 16 marzo 1998 il cardinale ci ha gentilmente concesso questa conversazione.

1) Nella storia della rivelazione nell’Antico Testamento è essenzialmente la parola del profeta che ne apre il cammino con la sua critica e che l’accompagna per tutto il suo percorso. Secondo Lei che ne è della profezia nella vita della Chiesa?
Vogliamo soffermarci innanzitutto per un momento sulla profezia nel senso vetero testamentario del termine. Sarà utile stabilire con precisione chi sia veramente il profeta per eliminare ogni malinteso. Il profeta non è uno che predice l’avvenire. L’elemento essenziale del profeta non è quello di predire i futuri avvenimenti; il profeta è colui che dice la verità perché è in contatto con Dio e cioè si tratta della verità valida per oggi che naturalmente illumina anche il futuro. Pertanto non si tratta di predire l’avvenire nei suoi dettagli, ma di rendere presente in quel momento la verità divina e di indicare il cammino da prendere. Per quanto riguarda il popolo di Israele la parola del profeta ha una funzione particolare, nel senso che la fede di questo popolo è orientata essenzialmente verso l’avvenire. Di conseguenza la parola del profeta presenta una doppia particolarità: da una parte chiede di essere ascoltata e seguita, pur rimanendo parola umana, e dall’altra si appoggia alla fede e si inserisce nella struttura stessa del popolo di Israele, particolarmente in ciò che attende. È pure importante sottolineare che il profeta non è un apocalittico, anche se ne ha la parvenza, non descrive le realtà ultime, ma aiuta a capire e vivere la fede come speranza. Anche se il profeta deve proclamare la Parola di Dio come fosse una spada tagliente, tuttavia egli non è uno che cerchi di fare critiche sul culto e sulle istituzioni. Egli deve sempre fare presente il malinteso e l’abuso della Parola di Dio da parte delle istituzioni e ha il compito di esprimere le esigenze vitali di Dio; tuttavia sarebbe errato costruire l’Antico Testamento su una dialettica puramente antagonista tra i profeti e la Legge. Dato che tutt’e due provengono da Dio, hanno entrambi una funzione profetica. Questo è un punto per me molto importante perché ci porta nel Nuovo Testamento. Alla fine del Deuteronomio, Mosè viene presentato come profeta e si presenta lui stesso come tale. Egli annunzia a Israele: “Dio ti invierà un profeta come me”. Resta la domanda: che cosa significa: “un profeta come me”? Io ritengo che il punto decisivo, sempre secondo il Deuteronomio, consista nel fatto che Mosè parlava con Dio come con un amico. Qui vedrei il nocciolo o la radice della vera essenza profetica in questo “faccia a faccia con Dio”, il “conversare con Lui come con un amico”. Solo in virtù di questo diretto incontro con Dio, il profeta può parlare nella storia di Israele.

2) Come si può rapportare il concetto di profezia con il Cristo? Si può chiamare profeta il Cristo?
I Padri della Chiesa hanno concepito la profezia del Deuteronomio sopra menzionata come una promessa del Cristo, cosa che io condivido. Mosè dice: “Un profeta come me”. Egli ha trasmesso ad Israele la Parola e ne ha fatto un popolo, e con il suo “faccia a faccia con Dio” ha compiuto la sua missione profetica portando gli uomini al loro incontro con Dio. Tutti gli altri profeti seguono quel modello di profezia e dovranno sempre nuovamente liberare la legge mosaica dalla rigidità e trasformarla in un cammino vitale. Il vero e più grande Mosè è quindi il Cristo, che realmente vive “faccia a faccia” con Dio perché ne è il Figlio. In questo contesto tra il Deuteronomio e l’avvento del Cristo si intravede un punto molto importante per comprendere l’unità dei due Testamenti. Cristo è il definitivo e vero Mosè che realmente vive “faccia a faccia” con Dio perché è suo Figlio. Egli non solo ci conduce a Dio attraverso la Parola e la Legge, ma ci assume in sé con la sua vita e la sua Passione, e con l’Incarnazione fa di noi il suo Corpo Mistico. Ciò significa che nel Nuovo Testamento, nelle sue radici, la profezia è presente. Se Cristo è il Profeta definitivo perché è il Figlio di Dio, è nella comunione con il Figlio che discende la dimensione cristologica e profetica anche del Nuovo Testamento.

3) Secondo Lei, come si deve considerare tutto ciò concretamente nel Nuovo Testamento? Con la morte dell’ultimo apostolo non viene posto un limite definitivo ad ogni ulteriore profezia, non se ne esclude ogni possibilità?
Sì, esiste la tesi secondo la quale la fine dell’Apocalisse ponga termine ad ogni profezia. A me pare che questa tesi racchiuda un doppio malinteso. Anzitutto dietro a questa tesi può esserci il concetto che il profeta, che è essenzialmente finalizzato ad una dimensione di speranza, non abbia più ragione di essere, proprio perché ormai c’è il Cristo e la speranza si basa sulla sua presenza. Questo è un errore, perché il Cristo è venuto in carne e poi è risuscitato “in Spirito Santo”. Questa nuova presenza di Cristo nella storia, nel Sacramento, nella Parola, nella vita della Chiesa, nel cuore di ogni uomo, è l’espressione, ma anche l’inizio dell’Avvento definitivo del Cristo che prenderà possesso di tutto e in tutto. Ciò significa che il cristianesimo è di per sé un movimento perché va incontro ad un Signore risuscitato che è salito al Cielo e ritornerà. È questa la ragione per la quale il cristianesimo porta in sé sempre la struttura della speranza. L’Eucarestia è sempre stata concepita come un movimento da parte nostra verso il Signore che viene. Essa incorpora pure tutta la Chiesa. Il concetto che il cristianesimo sia una presenza già del tutto completa e non porti in sé alcuna struttura di speranza è il primo errore che va rigettato. Il Nuovo Testamento ha già in sé una struttura di speranza che è un po’ cambiata, ma che è pur sempre una struttura di speranza. Essere un servitore della speranza è essenziale per la fede del nuovo popolo di Dio. Il secondo malinteso è costituito da una comprensione intellettualistica e riduttiva della Rivelazione che viene considerata come un tesoro di verità rivelate assolutamente complete a cui non si può più aggiungere nulla. L’autentico avvenimento della Rivelazione consiste nel fatto che noi veniamo invitati a questo “faccia a faccia” con Dio. La Rivelazione è essenzialmente un Dio che si dona a noi, che costruisce con noi la storia e che ci riunisce e raccoglie tutti insieme. Si tratta di un incontro che ha in sé anche una dimensione comunicativa e una struttura cognitiva. Essa implica anche il riconoscimento delle verità rivelate. Se si accetta la Rivelazione sotto questo punto di vista, si può dire che la Rivelazione ha raggiunto il suo scopo con il Cristo, perché, secondo la bella espressione di San Giovanni della Croce, quando Dio ha parlato personalmente, non vi è più nulla da aggiungere. Non si può più dire nulla oltre il Logos. Egli è in mezzo a noi in modo completo e lo stesso Dio non può più darci, né dirci qualcosa di più di Sé stesso. Quanto a noi, non ci resta che penetrare, giorno dopo giorno, questo mistero della fede, proprio perché noi cristiani abbiamo ricevuto questo dono totale di sé che Dio ci ha fatto con il suo Verbo fatto carne. Ciò si ricollega alla struttura della speranza. La venuta di Cristo è l’inizio di una conoscenza sempre più profonda e di una graduale scoperta di ciò che il Verbo ci ha donato. Così si è aperto un nuovo modo di introdurre l’uomo nella Verità tutta intera, come dice Gesù nel Vangelo di San Giovanni, dove parla della discesa dello Spirito Santo. Ritengo che la cristologia pneumatologica dell’ultimo discorso di addio di Gesù nel Vangelo di San Giovanni sia molto importante per il nostro discorso, dato che Cristo vi spiega che la sua vita terrena in carne non era che un primo passo. La vera venuta del Cristo si realizza al momento in cui lui non è più legato a un luogo fisso o a un corpo fisico, ma come il Risuscitato nello Spirito capace di andare da tutti gli uomini di tutti i tempi, per introdurli nella verità in modo sempre più profondo. A me pare chiaro che – proprio quando questa cristologia pneumatologica determina il tempo della Chiesa, cioè il tempo in cui il Cristo viene a noi in Spirito – l’elemento profetico, come elemento di speranza e di attualizzazione del dono di Dio, non possa mancare né venire meno.

4) Se allora è così, la domanda è: in quale modo è presente questo elemento profetico e che cosa dice San Paolo a questo proposito?
In Paolo è particolarmente evidente che il suo apostolato, essendo un apostolato universale rivolto a tutto il mondo pagano, comprende anche la dimensione profetica. Grazie al suo incontro con il Cristo Risorto, San Paolo ha potuto penetrare nel mistero della Risurrezione e nella profondità del Vangelo. Grazie al suo incontro con il Cristo egli ha potuto capire in modo nuovo la sua Parola, mettendo in evidenza l’aspetto di speranza e facendo valere la sua capacità di discernimento. Essere un apostolo come San Paolo è naturalmente un fenomeno unico. Ci si può chiedere che cosa avvenga nella Chiesa dopo la fine dell’era apostolica. Per rispondere a questa domanda è molto importante un passo del secondo capitolo della lettera di San Paolo agli Efesini in cui egli scrive: la Chiesa è fondata “sugli apostoli e sui profeti”. Un tempo si pensava che si trattasse dei dodici apostoli e dei profeti dell’Antico Testamento. L’esegesi moderna ci dice che il termine di “apostolo” deve essere inteso in modo più ampio e che il concetto di “profeta” va riferito ai profeti della Chiesa. Dal capitolo dodicesimo della prima lettera ai Corinzi, si apprende che i profeti di allora si organizzavano come membri di un collegio. La stessa cosa viene menzionata dalla Didakhé, la qual cosa significa che questo collegio esisteva ancora quando l’opera fu scritta. Più tardi il collegio dei profeti si dissolse, e questo certamente non a caso, poiché l’Antico Testamento ci dimostra che la funzione del profeta non può essere istituzionalizzata, dato che la critica dei profeti non è diretta solo contro i preti, si dirige anche contro i profeti istituzionalizzati. Ciò appare in modo molto chiaro nel libro del profeta Amos, dove questi parla contro i profeti del regno di Israele. I profeti liberi parlano spesso contro i profeti che appartengono a un collegio, perché Dio trova, per così dire, più margine di manovra e più ampio spazio per agire presso i primi, presso i quali può intervenire e prendere iniziative liberamente, cosa che non potrebbe fare invece con una forma di profezia di tipo istituzionalizzato. A me pare tuttavia che questa dovrebbe sussistere sotto entrambe le forme, come del resto è avvenuto durante tutta la storia della Chiesa. Come gli stessi apostoli erano a loro modo anche profeti, così bisogna riconoscere che nel collegio apostolico istituzionalizzato esiste pur sempre un carattere profetico. Così la Chiesa affronta le sfide che le sono proprie grazie allo Spirito Santo che, nei momenti cruciali, apre una porta per intervenire. La storia della Chiesa ci ha fornito molti esempi di grandi personaggi quali Gregorio Magno e Sant’Agostino che erano anche profeti. Potremmo citare altri nomi di grandi personaggi della Chiesa che sono stati anche figure profetiche in quanto hanno saputo tenere aperta la porta allo Spirito Santo. Solo agendo così essi hanno saputo esercitare il potere in modo profetico, come viene detto molto bene nella Didakhé. Per quanto riguarda i profeti indipendenti, cioè non istituzionalizzati, occorre ricordare che Dio si riserva la libertà, attraverso i carismi, di intervenire direttamente nella sua Chiesa per risvegliarla, avvertirla, promuoverla e santificarla. Credo che nella storia della Chiesa questi personaggi carismatici e profetici si sono continuamente succeduti. Essi sorgono sempre nei momenti più critici e decisivi nella storia della Chiesa. Pensiamo ad esempio al nascere del movimento dei monaci, a Sant’Antonio che va nel deserto e in questo modo dà un forte impulso alla Chiesa. Sono i monaci che hanno salvato la cristologia dall’arianesimo e dal nestorianesimo. Anche San Basilio è una di queste figure, un grande vescovo, ma nello stesso tempo anche un vero profeta. In seguito non è difficile intravedere nel movimento degli ordini mendicanti un’origine carismatica. Né San Domenico né San Francesco hanno fatto profezie sul futuro, ma hanno saputo leggere il segno dei tempi e capire che era arrivato per la Chiesa il momento di liberarsi dal sistema feudale, di ridare valore all’universalità e della povertà del Vangelo, come pure alla “vita apostolica”. Così facendo hanno ridato alla Chiesa il suo vero aspetto, quello di una Chiesa animata dallo Spirito Santo e condotta dal Cristo stesso. Hanno così contribuito alla riforma della gerarchia ecclesiastica. Altri esempi sono Santa Caterina da Siena e Santa Brigida di Svezia, due grandi figure di donne. Penso sia importante sottolineare come in un momento particolarmente difficile per la Chiesa, quale fu quello della crisi di Avignone e lo scisma che ne seguì, si siano levate figure di donne per annunciare che il Cristo vivente è anche il Cristo che soffre nella sua Chiesa.

5) Quando si legge la storia della Chiesa, risulta chiaro che la maggior parte dei mistici profeti sono donne. Questo è un fatto molto interessante che potrebbe contribuire alla discussione sul sacerdozio delle donne. Che cosa ne pensa Lei?
C’è un’antica tradizione patristica che chiama Maria non sacerdotessa, ma profetessa. Il titolo di profetessa nella tradizione patristica è, per eccellenza, il titolo di Maria. È in Maria che il temine di profezia in senso cristiano viene meglio definito e cioè questa capacità interiore di ascolto, di percezione e di sensibilità spirituale che le consente di percepire il mormorio impercettibile dello Spirito Santo, assimilandolo e fecondandolo e offrendolo al mondo. Si potrebbe dire, in un certo senso, ma senza essere categorici, che di fatto la linea mariana incarna il carattere profetico della Chiesa. Maria è sempre stata vista dai Padri della Chiesa come l’archetipo dei profeti cristiani e da lei parte la linea profetica che entra poi nella storia della Chiesa. A questa linea appartengono pure le sorelle dei grandi santi. Sant’Ambrogio deve alla sua santa sorella il cammino spirituale che ha percorso. La stessa cosa vale per San Basilio e San Gregorio di Nysse, come pure per San Benedetto. Più avanti nel tardo Medioevo, incontriamo grandi figure di mistiche, tra cui bisogna menzionare Santa Francesca Romana. Nel XVI secolo troviamo Santa Teresa d’Avila che ha avuto un ruolo molto importante nell’evoluzione spirituale e dottrinale di San Giovanni della Croce. La linea profetica legata alle donne ha avuto una grande importanza nella storia della Chiesa. Santa Caterina da Siena e Santa Brigida di Svezia possono servire da modello come griglia di lettura. Entrambe hanno parlato ad una Chiesa in cui esisteva ancora il collegio apostolico e dove i sacramenti venivano amministrati. Dunque l’essenziale esisteva ancora pur tuttavia, a causa delle lotte interne, rischiava di decadere. Questa Chiesa è stata da loro ravvivata, riportando al suo antico valore il carisma dell’unità e introducendo nuovamente l’umiltà, il coraggio evangelico e il valore dell’evangelizzazione.

6) Lei ha detto che la Rivelazione nel Cristo è avvenuta in modo “definitivo”, ciò che non significa chiusura assoluta, non si identifica con l’ultima parola delle dottrine rivelate. Questa affermazione è di grande interesse per la nostra tesi sulla profezia cristiana. Ora la domanda più urgente è naturalmente questa: in quale misura i profeti, nella storia della Chiesa e anche per la teologia stessa, possono dire qualcosa di radicalmente nuovo? È verificabile che gli ultimi grandi dogmi sono da mettere direttamente in relazione con le rivelazioni di grandi santi profeti, come ad esempio le rivelazioni di Santa Caterina Laburé per quanto concerne il dogma dell’Immacolata Concezione. Questo è un tema assai poco esplorato nei libri di teologia.
Sì, questo tema potrebbe essere veramente trattato a fondo. Mi pare che Hans Urs von Balthasar abbia trovato, nelle sue ricerche, che dietro ad ogni grande teologo vi sia sempre prima un profeta. Un Sant’Agostino è impensabile senza l’incontro con il monachesimo e soprattutto con sant’Antonio. E la stessa cosa vale per Sant’Athanasio; e San Tommaso d’Aquino non sarebbe concepibile senza San Domenico e il carisma dell’evangelizzazione che gli era proprio. Leggendo gli scritti di quest’ultimo, si nota quanto importante sia stato per lui questo tema dell’evangelizzazione. Questo stesso tema ha svolto un ruolo importante nella sua disputa con il clero e con l’università di Parigi, e costrinse San Tommaso a ripensare lo statuto dell’ordine domenicano. Egli qui afferma che la vera regola del suo ordine si trova nelle Sacre Scritture e che è costituita dal quarto capitolo degli Atti degli Apostoli (aveva un cuore solo e un’anima sola) e dal decimo capitolo del Vangelo di San Matteo (annunciare il Vangelo senza pretendere nulla per sé). Questa è per San Tommaso la regola di tutte le regole religiose. Ogni forma monastica non può essere che la realizzazione di questo primo modello che aveva naturalmente un carattere apostolico, ma che la figura profetica di San Domenico gli ha fatto riscoprire in modo nuovo. A partire da questo modello prototipo San Tommaso sviluppa la sua teologia come evangelizzazione, cioè un muoversi con e per il Vangelo, un essere radicato nel concetto di “un cuore solo e un’anima sola” della comunità dei credenti. Lo stesso si potrebbe dire di San Bonaventura e di San Francesco d’Assisi: la stessa cosa avviene per Hans Urs von Balthasar impensabile senza Adrienne von Speyr. Credo che si possa dimostrare come in tutte le figure dei grandi teologi sia possibile una nuova evoluzione teologica solo nel rapporto tra teologia e profezia. Finché si procede solo in modo razionale, non accadrà mai nulla di nuovo. Si riuscirà forse a sistemare meglio le verità conosciute, a rilevare aspetti più sottili, ma i nuovi veri progressi che portano a nuove grandi teologie non provengono dal lavoro razionale della teologia, bensì da una spinta carismatica e profetica. Ed è in questo senso, ritengo, che la profezia e la teologia vanno sempre di pari passo. La teologia, in senso stretto, non è profetica, ma può diventare realmente teologia viva quando viene nutrita e illuminata da un impulso profetico.

7) Nel Credo si dice dello Spirito Santo che “ha parlato per mezzo dei profeti”. La domanda è: i profeti qui menzionati sono solo quelli dell’Antico Testamento, o ci si riferisce anche a quelli del Nuovo Testamento?
Per rispondere a questa domanda bisognerebbe studiare a fondo la storia del Credo di Nicea. Indubbiamente, qui si tratta solo dei profeti dell’Antico Testamento (vedi l’uso del tempo passato: “ha parlato”) e quindi la dimensione pneumatologica della rivelazione viene messa fortemente in evidenza. Lo Spirito Santo precede il Cristo per preparagli la strada, per poi introdurre tutti gli uomini alla verità. Esistono vari tipi di simbolismo in cui questa dimensione viene messa in forte risalto. Nella tradizione della Chiesa Orientale i profeti vengono considerati come un’opera di preparazione dello Spirito Santo che parla già prima di Cristo e che parla attraverso i profeti. Sono convinto che l’accento primario è posto sul fatto che è lo Spirito Santo che apre la porta perché il Cristo possa essere accolto “ex Spiritu Sancto”. Ciò che è avvenuto in Maria per opera dello Spirito Santo (ex Spiritu Sancto) è un evento preparato accuratamente e a lungo. Maria raccoglie in sé tutta la profezia dell’Antico Testamento nel concepimento del Cristo “ex Spiritu Sancto”. Secondo me questo non esclude che si potrebbe continuare nella nostra prospettiva dicendo che il Cristo continua ad essere concepito “ex Spiritu Sancto”. Sembra chiaro che l’evangelista San Luca, a ragion veduta, abbia messo in parallelo il racconto dell’infanzia di Gesù nel suo Vangelo con la nascita della Chiesa nel secondo capitolo degli Atti degli Apostoli. Nei dodici apostoli, raccolti attorno a Maria, avviene una “Concepitio ex Spiritu Sancto” che si attualizza nella nascita della Chiesa. Concludendo si può dire che se anche il testo del Credo si riferisce ai soli profeti dell’Antico Testamento, ciò non significa che l’azione dello Spirito Santo si possa dichiarare con questo conclusa.

8 ) San Giovanni Battista viene spesso designato come l’ultimo dei profeti. Secondo Lei, come va intesa questa affermazione?
Penso che vi siano molte ragioni e contenuti in questa affermazione. Uno di questi è la parola stessa di Gesù: “La Legge e tutti i Profeti infatti hanno profetato fino a Giovanni”, dopo viene il regno di Dio. Qui Gesù stesso dichiara che Giovanni rappresenta la fine dell’Antico Testamento e che dopo verrà qualcuno più piccolo all’apparenza, ma più grande nel Regno di Dio, cioè Gesù stesso. In questo modo il Battista viene ancora inquadrato nell’Antico Testamento e tuttavia apre una Nuova Alleanza. In questo senso il Battista è l’ultimo dei profeti. Questo è pure il giusto senso del termine: Giovanni è l’ultimo prima di Cristo, colui che raccoglie la fiaccola di tutto il movimento profetico e la consegna nelle mani di Cristo. Egli conclude l’opera dei profeti perché indica la speranza del popolo di Israele: il Messia, cioè Gesù. È importante precisare che lui stesso non annuncia nulla che riguarda l’avvenire, ma si ritiene solo uno che chiama alla conversione e che rinnova e attualizza la promessa messianica della Antica Alleanza. Del Messia dice: “In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete”. Anche se in questo annuncio vi è una predizione, Giovanni Battista rimane fedele al modello profetico che non è quello di predire l’avvenire, ma di annunciare che è tempo di convertirsi. Il messaggio del Battista è quello di invitare il popolo di Israele a guardarsi dentro e a convertirsi per poter riconoscere, nell’ora della salvezza, Colui che Israele ha sempre atteso e che ora è presente. Giovanni impersonifica in questo senso l’ultimo dei profeti e l’economia specifica della speranza dell’Antica Alleanza. Quello che verrà dopo sarà un altro tipo di profezia. Per questo il Battista può essere chiamato l’ultimo dei profeti dell’Antico Testamento. Ciò non significa tuttavia che dopo di lui la profezia sia finita. Ci si troverebbe in contrasto con l’insegnamento di San Paolo che dice nella sua prima lettera ai Tessalonicesi: “Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie”.

9) In un certo senso esiste una differenza tra la profezia del Nuovo e dell’Antico Testamento perché Cristo è entrato nella storia. Ma se si guarda all’essenza stessa della profezia, che è quella di immettere nella Chiesa la Parola ascoltata da Dio, non sembra esserci alcuna differenza.
Sì, esiste effettivamente una comune struttura di base tra le due profezie, che varia solo per il rapporto con il Cristo che deve venire e il Cristo già venuto, ma che dovrà ancora ritornare. Questa questione teologica merita di essere studiata e approfondita maggiormente: il nocciolo di questa questione è sapere perché il tempo della Chiesa sul piano strutturale ha molte più affinità con l’Antico Testamento, o per lo meno a questo è molto simile, e in che cosa consiste la novità portata dalla prima venuta di Cristo.

10) Spesso nella teologia si nota la tendenza a volere assolutamente differenziare l’Antico e il Nuovo Testamento. Questa differenziazione appare spesso artificiale e basata su principi astratti piuttosto che concreti.
Il voler radicalizzare le differenze senza voler vedere l’unità interiore che esiste nella storia di Dio con gli uomini è un errore in cui i Padri della Chiesa non sono incorsi. Essi hanno proposto un triplice schema: “umbra, imago, veritas”, dove il Nuovo Testamento è “l’imago”, così l’Antico e il Nuovo Testamento non vengono contrapposti l’uno all’altro come ombra e realtà, ma nella triade di ombra, immagine e verità, si tiene aperta l’attesa verso il definitivo compimento e il tempo del Nuovo Testamento, il tempo della Chiesa, come un ulteriore piano più avanzato, ma sempre nel cammino della Promessa. Questo è un punto che fino ad oggi, secondo me, non è stato sufficientemente considerato. I Padri della Chiesa, invece, hanno sottolineato il carattere di incompletezza del Nuovo Testamento, in cui non tutte le promesse si sono ancora avverate. Cristo è sì venuto nella carne, ma la Chiesa attende ancora la sua Rivelazione nella pienezza della sua gloria.

11) Forse sarebbe questa la ragione che spiega perché molte figure profetiche hanno un carattere fortemente escatologico nella loro spiritualità?
Penso che l’aspetto escatologico – senza esaltazione apocalittica – appartenga essenzialmente alla natura profetica. I profeti sono coloro che esaltano la dimensione della speranza racchiusa nel cristianesimo. Essi sono gli strumenti che rendono sopportabile il presente invitando ad uscire dal tempo per quanto concerne l’essenziale e il definitivo. Questo carattere escatologico, questa spinta a superare il tempo presente, fa certamente parte della spiritualità profetica.

12) Se poniamo l’escatologia profetica in relazione alla speranza, il quadro cambia completamente. Non è più un messaggio che fa paura, ma che apre un orizzonte al compimento della promessa di Cristo per tutta la creazione.
Che la fede cristiana non ispiri paura, ma la superi è un fatto fondamentale. Questo principio deve costituire la base della nostra testimonianza e della nostra spiritualità. Ma ritorniamo un momento a quanto detto sopra. È estremamente importante precisare in che senso il cristianesimo è il compimento della Promessa fatta da Dio e in che senso non lo è. Ritengo che l’attuale crisi della fede sia strettamente legata ad un insufficiente chiarimento di tale questione. Qui si presentano tre pericoli. Il primo pericolo: la promessa dell’Antico Testamento e l’attesa della salvezza degli uomini sono visti solo in modo immanente nel senso di migliori strutture o di prestazioni sempre più perfette. Così concepito il cristianesimo risulta solo una sconfitta. Partendo da questa prospettiva si è tentato di sostituire il cristianesimo con ideologie di fede nel progresso e poi con ideologie di speranza, che altro non sono che varianti del marxismo. Il secondo pericolo è quello di proiettare il cristianesimo completamente nell’al di là, di volerlo solo in modo puramente spirituale e individualistico, negando la totalità della realtà umana. Il terzo pericolo, che è particolarmente minaccioso in tempi di crisi e di svolte storiche, è quello di rifugiarsi in esaltazioni apocalittiche. In opposizione a tutto ciò, diventa sempre più urgente presentare la vera struttura della promessa e del compimento della fede cristiana in modo più comprensibile e realizzabile.

13) Spesso si nota che tra il misticismo puramente contemplativo e senza parole e il misticismo profetico con le parole, esiste una grande tensione. Karl Rahner ha fatto notare questa tensione tra i due tipi di mistica. Alcuni pretendono che la mistica contemplativa e senza parole sia quella più elevata, più pura e spirituale. In tale senso vengono spiegati certi passaggi in San Giovanni della Croce. Altri pensano che tale mistica senza parole in fondo sia estranea al cristianesimo perché la fede cristiana è essenzialmente la religione della Parola.
Sì, direi che la mistica cristiana ha anche una dimensione missionaria. Essa non cerca solo di elevare l’individuo, ma gli conferisce una missione mettendolo in contatto con il Verbo, con il Cristo che parla attraverso lo Spirito Santo. Questo punto viene messo in forte rilievo da San Tommaso d’Aquino. Prima di san Tommaso si diceva: prima monaco e poi mistico; oppure prima prete e poi teologo. Tommaso non accetta questo, perché il dono mistico apre ad una missione. E la missione non è qualcosa di inferiore alla contemplazione, come invece pensava Aristotele che riteneva la contemplazione intellettuale il gradino più alto nella scala dei valori umani. Questo non è un concetto cristiano, dice San Tommaso, perché la forma più perfetta di vita è quella mista, cioè prima quella mistica e da questa poi quella apostolica a servizio del Vangelo. Santa Teresa d’Avila ha esposto questo concetto in modo molto chiaro. Essa mette in relazione la mistica con la cristologia, ottenendo così una struttura missionaria. Con ciò non voglio escludere che il Signore possa suscitare mistici autenticamente cristiani in seno alla Chiesa, ma vorrei precisare che la cristologia come base e misura di ogni mistica cristiana, indica un’altra struttura (Cristo e lo Spirito Santo sono inscindibili). Il “faccia a faccia” di Gesù con il Padre, include “l’essere per gli altri” contiene in sé “l’essere per tutti”. Se la mistica è essenzialmente un entrare in intimità con Cristo, questo “essere per gli altri” le verrà impresso nell’intimo.

14) Molti profeti cristiani, come Caterina da Siena, Brigida di Svezia e Faustina Kowalska attribuiscono a Cristo i loro discorsi profetici o rivelazioni. Queste rivelazioni vengono definite dalla teologia come rivelazioni private. Questo concetto appare molto riduttivo perché la profezia è sempre rivolta a tutta la Chiesa e non è mai privata.
In teologia il concetto di “privato” non significa che il messaggio riguardi solo la persona che lo riceve e non anche tutti gli altri. È un’espressione che riguarda piuttosto il grado di importanza come per esempio si ha nel concetto di “Messa privata”. Con questo si intende dire che le rivelazioni dei mistici cristiani o dei profeti, non potranno mai assurgere al rango della rivelazione biblica, potranno solo condurre a quella o con quella misurarsi. Questo non significa tuttavia che questo tipo di rivelazioni non sia importante per la Chiesa. Lourdes e Fatima provano il contrario. Esse in definitiva ci riportano alla rivelazione biblica. E appunto per questo rivestono una sicura importanza.

15) Nella storia della Chiesa si può constatare che non si possono evitare ferite reciproche, tanto da parte del profeta quanto da parte dei destinatari. Come spiega questo dilemma?
È sempre stato così: l’impatto profetico non può avvenire senza la reciproca sofferenza. Il profeta è chiamato a soffrire in un modo specifico: l’essere pronto a soffrire e a condividere la Croce di Cristo è la pietra di verifica della sua autenticità. Il profeta non cerca mai di imporre se stesso. Il suo messaggio viene verificato e reso fertile dalla Croce.

16) È veramente frustrante constatare che la maggior parte delle figure profetiche della Chiesa sono state respinte durante la loro vita. Esse sono state quasi sempre criticate o sottoposte al rifiuto da parte della Chiesa. Ciò è riscontrabile nella maggioranza dei profeti e delle profetesse.
Sì, è vero. Sant’Ignazio di Loyola è stato in prigione, la stessa cosa è accaduta a San Giovanni della Croce. Santa Brigida di Svezia è stata sul punto di essere condannata dal concilio di Basilea; del resto è tradizione della Congregazione per la Dottrina della Fede di essere in un primo momento molto cauti là dove si hanno affermazioni di mistici. Questo atteggiamento è del resto più che giustificato poiché esistono molti falsi mistici, molti casi patologici. Pertanto è necessario un atteggiamento molto critico per non rischiare di cadere nel sensazionale, nel fantasioso e nella superstizione. Il mistico si manifesta nella sofferenza, nell’obbedienza e nella sopportazione e così la sua voce dura nel tempo. Quanto alla Chiesa, essa deve guardarsi dall’emettere un giudizio prematuro per evitare di meritare il rimprovero di “avere ucciso i profeti”.

17) L’ultima domanda è forse un po’ imbarazzante. Essa riguarda una figura profetica contemporanea: la greco-ortodossa Vassula Rydén. Essa viene considerata da molti credenti, anche da molti teologi, sacerdoti e vescovi della Chiesa Cattolica come messaggera di Cristo. I suoi messaggi, che dal 1991 vengono tradotti in 34 lingue, sono ampiamente diffusi nel mondo. La Congregazione per la Dottrina della Fede si è pronunciata tuttavia in modo negativo al riguardo. La “Notificazione” del 1995, nella quale accanto ad aspetti positivi negli scritti di Vassula, intravede anche punti meno chiari, è stata interpretata da alcuni commentatori come una condanna. Non è vero?
Qui Lei tocca un tema piuttosto delicato. No, la “Notificazione” è un avvertimento, non una condanna. Da un punto di vista procedurale, nessuna persona potrebbe essere condannata senza processo e senza essere stata prima sentita. Ciò che viene detto è che molte cose sono ancora da chiarire. Vi sono elementi apocalittici che suscitano problemi e aspetti ecclesiologici ancora poco chiari. I suoi scritti contengono molte cose buone, ma il grano buono è misto al loglio. È per questo che abbiamo invitato i cristiani cattolici ad osservare il tutto con prudenza e misurarlo con il metro della fede trasmessa dalla Chiesa.

18) Esiste dunque ancora un processo in corso per chiarire la questione?
Sì, e, durante tale processo di chiarificazione, i fedeli devono rimanere prudenti e mantenere sveglio lo spirito di discernimento. Indubbiamente negli scritti si constata un’evoluzione che non sembra ancora conclusa. Non dobbiamo dimenticare che le espressioni e le immagini ispirate dall’incontro interiore con Dio, anche in caso di mistica autentica, dipendono sempre dalle possibilità dell’anima umana e dalla sua limitatezza. La fiducia illimitata va posta soltanto nella effettiva Parola della Rivelazione che incontriamo nella fede trasmessa dalla Chiesa.

[testo tratto dal Sito della Congregazione per il Clero]

 



Karl Rahner e le rivelazioni private in quanto ‘necessarie’


Chi nega la possibilità assoluta di rivelazioni particolari, va contro la fede e chi contesta che esse possano avvenire anche dopo il tempo degli Apostoli, si oppone ad una dottrina teologicamente sicura […] Ciascuno che voglia essere cristiano, deve chiedersi se egli non viva in un atteggiamento di pregiudiziale chiusura di una tale rivelazione di Dio. 

Ancora, il credente deve verificare se la sua apparente opposizione ai fenomeni visionari, che la Scrittura stessa attesta e crede, nasce dal fatto di esserci abituati e non piuttosto da una protesta razionalistica nei loro confronti […].
Chiamiamo visioni mistiche quelle che, per finalità e contenuto, si riferiscono esclusivamente alla vita religiosa ed al perfezionamento personale del veggente. Visioni profetiche sono quelle che, oltre a ciò, sollecitano ed incaricano il veggente di rivolgersi al proprio mondo circostante e ultimamente alla Chiesa, per rendere noto un messaggio, ammonire, sollecitare o predire il futuro. Sebbene diverse negli scopi, le due visioni possono presentarsi con le stesse caratteristiche psicologiche e tuttavia, nonostante la loro somiglianza psicologica, devono essere valutate diversamente, soprattutto per ciò che riguarda i criteri della loro autenticità, in quanto fanno valere pretese essenzialmente diverse nei confronti dell’ambiente che circonda il veggente.
Visioni mistiche sarebbero, per esempio, quelle di santa Gemma Galgani, perché riguardano unicamente la sua propria vita religiosa. Profetiche, invece, sarebbero quelle di santa Maria Margherita Alacoque, perché implicano delle indicazioni rivolte ad altri. La necessità di una diversa valutazione delle due visioni diventa particolarmente chiara quando si ponga attenzione al rischio completamente diverso che la fede in queste visioni comporta.
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Volendo ora dire qualcosa di più preciso sulle rivelazioni private, intendiamo riferirci alle “visioni profetiche”. Dobbiamo dunque parlare di quelle rivelazioni private che non riguardano soltanto il singolo e la sua vita personale, ma che attraverso colui che le riceve si rivolgono, benché siano private, alla Chiesa o a gran parte di essa. Rivelazioni private che raccomandano a molti una certa devozione, esortano alla penitenza, impartiscono determinati ordini, mettono in guardia contro certe dottrine, raccomandano un insegnamento spirituale ecc.             Senza dubbio, lungo la storia della Chiesa, si sono succedute continuamente rivelazioni private di questo genere ed hanno esercitato un grande influsso. Nei loro confronti si pongono questioni non solo psicologiche, ma anche teologiche.        Quando si parla di “rivelazioni private” fra cattolici, si pone generalmente la questione della psicologia di questi fenomeni e di qui la domanda relativa all’autenticità di queste rivelazioni e la verità del loro contenuto. […].  Tuttavia crediamo che un tale modo di considerare le cose sia unilaterale. 

Risulta necessario che esso venga integrato da considerazioni di natura propriamente teologica. 

Ora, […] da una parte, una certa teologia delle rivelazioni private è troppo “negativa”: assume soltanto il fondamento della compiutezza della rivelazione pubblica, per cui le rivelazioni posteriori vengono solo negativamente connotate come “private”, precludendo la possibilità di sviluppare una teoria strettamente teologica del loro significato e della loro necessità per la Chiesa come tale, un significato che esse certamente hanno avuto. Gli spunti contenuti nella Scrittura per una teologia della profezia nella Chiesa e per la Chiesa, non vengono adeguatamente sviluppati.

[…] Prima di Cristo, nella storia, senza però che essa venisse superata o tolta, poteva ancora verificarsi qualcosa di nuovo in vista della salvezza che ancora non c’era, qualche cosa che avrebbe cambiato essenzialmente la situazione dell’uomo di fronte a Dio: Dio poteva emanare una nuova legge, stipulare o annullare un’alleanza. La decisione di Dio, inaspettata e imprevedibile, poteva essere l’ira oppure la grazia (entrambe atti della libertà di Dio). In breve: dalle insondabili possibilità del Dio libero – del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, non del dio dei filosofi, poteva realizzarsi nella “rivelazione” questo oppure quello, e questo accadere dell’agire divino, essendo non determinabile dall’uomo, doveva essere accolto, in un atteggiamento di sempre rinnovata obbedienza, quale imprevedibile disposizione di Dio. L’uomo doveva essere pronto per una sempre nuova rivelazione di Dio, capace di ridefinire radicalmente la sua posizione salvifica […]. Ora, però, con Cristo e dopo Cristo è venuta la fine dei tempi,  [la fine dei tempi malvagi, ma non la fine del mondo]  l’agire salvifico di Dio verso l’umanità ha raggiunto in Cristo la sua fase decisiva, in linea di principio insuperabile e definitiva. Con Cristo è arrivato il tempo ultimo che non è provvisorio, ma è anzi così definitivo che nell’eone di Cristo non possiamo aspettarci più nulla in grado di cambiare essenzialmente la nostra situazione salvifica. Se prima di Cristo un tale cambiamento nell’uomo non solo poteva, ma doveva essere atteso, ora invece ciò che il cristiano può attendere ancora è solo l’ultimo giorno, la manifestazione definitiva del dramma dialogico fra Dio e l’uomo che in Cristo è già avvenuta. […] La teologia della rivelazione possiede a questo punto ormai soltanto un significato di retrospezione, senza alcuna tendenza prospettica: l’attesa della rivelazione di Dio nella storia è attesa dalla [della]  rivelazione di Dio che compie la storia.

E tuttavia anche in questo tempo ultimo si danno rivelazioni di Dio, non solo al singolo come tale, ma anche alla Chiesa, almeno nel senso che il carisma del singolo ritorna a beneficio dell’intero corpo ecclesiale. 

Ora, però, per quanto da un punto di vista puramente psicologico possano essere simili alla rivelazione di Dio prima di Cristo e in Cristo, queste rivelazioni devono non di meno manifestare una differenza essenziale, qualitativa, rispetto a quelle precristiane. E ciò al fine di mantenere quanto abbiamo detto sopra, a proposito del carattere particolare dell’ultimo tempo, nel quale non ci possono essere più rivelazioni costitutive per la situazione salvifica. -- Bisognerà determinare l’essenza di queste rivelazioni private postcristiane, potremmo dire ecclesiali e cioè significative ad un livello che non è puramente individuale, in modo che esse si inseriscano intimamente in questa situazione salvifica finale. 

Come è possibile questo?

Abbiamo già visto che non è sufficiente dire che le rivelazioni private non si rivolgono alla Chiesa o all’umanità nel suo complesso e che il loro contenuto non è positivamente garantito dal magistero ecclesiastico. Se ci si dicesse che il contenuto delle rivelazioni private, in confronto con quello della revelatio publica, non è così “significativo”, che è perciò inessenziale o qualcosa del genere, allora nascerebbe la domanda su come potrebbe essere “senza importanza” qualcosa che Dio rivela. E inoltre da dove si potrebbe sapere che quanto è stato rivelato, se aggiunto al depositum fidei divinae, non comporterebbe variazioni fondamentali nella situazione salvifica fino a questo punto. Se si dice, invece, che le rivelazioni private contengono sempre solo ciò che, indipendentemente da esse, può essere conosciuto dalla rivelazione generale come tale (per esempio la possibilità e l’utilità di una nuova devozione), allora sorge la questione perché Dio riveli ancora questo contenuto e non lasci più semplicemente una tale deduzione all’acume dei teologi. Se riflettiamo su tutto ciò, ci rimarrà quale risposta soddisfacente alla nostra domanda circa l’essenza teologica di una rivelazione ‘privata’ postcristiana alla Chiesa, soltanto questa: la sua essenza non consiste nella rivelazione di un contenuto materiale oggettivo – e cioè nel suo carattere assertorio – che quindi si aggiungerebbe alla rivelazione generale solo accidentalmente. 

Piuttosto: le rivelazioni private sono nella loro essenza un ‘imperativo’ sul modo in cui la comunità cristiana debba comportarsi in una determinata situazione storica. Esse non rappresentano, nella loro essenza, una nuova asserzione, ma un nuovo comando. A livello delle ‘asserzioni’, in fondo, esse dicono quanto già saputo dalla fede e dalla teologia. E tuttavia esse non sono superflue, una sorta di ‘corso celeste’ di ripetizione della rivelazione generale o una maieutica intellettuale per la conoscenza di qualcosa che, fondamentalmente, si potrebbe scoprire anche senza questo aiuto. Poiché ciò che è volontà di Dio in una determinata situazione, non può essere determinato logicamente in maniera univoca soltanto dai principi generali del dogma e della morale, neppure attraverso l’analisi della situazione concreta in cui ci si trova.

Queste riflessioni teoretiche possono dischiudere lo spazio dell’agire corretto e necessario dell’uomo – in molti casi così bene che risulta praticamente univoco comprendere come si debba agire – e sono quindi in ogni caso necessarie. Tuttavia, esse non [???] possono dire, in linea di principio, quale tra le diverse decisioni sempre ancora possibili dentro questo spazio, corrisponda effettivamente alla volontà di Dio e come debba essere presa. Una concezione contraria vorrebbe falsamente dissolvere nel ‘generale’ la concretezza ed indeducibilità dell’agire dell’uomo, riducendo ciò che è spiritualmente concreto ad un puro caso del generale. 

Secondo Ignazio, esistono dei tempi di elezione per la conoscenza della volontà di Dio circa una particolare ‘decisione’, i quali avvengono nella luce della fede al di fuori e ‘prima’ di ogni riflessione razionale. Poiché in essi l’uomo fa esperienza della volontà di Dio mosso da Dio stesso, la riflessione teologico-morale o logica rappresenta soltanto un ‘sostituto’ nel caso in cui il movimento divino si ferma o non viene conosciuto con sufficiente chiarezza, e comunque questo ‘sostituto’ non può essere visto come il caso normale di una decisione.

Ora deve esserci per la vita della Chiesa, nella ‘decisione’ della Chiesa, qualcosa di analogo, l’azione di un impulso divino che non può essere sostituita dalle riflessioni teoretiche e dalle deduzioni dei teologi e dei moralisti, o da una pura ‘assistentia Spiritus Sancti di per sé negativa’, in virtù della quale queste riflessioni possano certo essere preservate dal falso, ma le cui autentiche fonti rimangono pur sempre i puri principi fondamentali e la situazione concreta.

[…] In linea di principio, lo Spirito Santo può, attraverso ogni membro della Chiesa, operare su di essa e farle conoscere ciò che richiede da lei, cioè l’imperativo che in quella data ora le si impone. L’imperativo ispirato da Dio ad un membro della Chiesa per l’agire della Chiesa in una determinata situazione storica, questo ci sembra l’essenza di una data ‘rivelazione privata’ profetica di tipo postcristiano. ‘Come’ poi tale rivelazione privata si trasmetta dal singolo alla Chiesa o a gran parte di essa, se attraverso una proclamazione ufficiale: ‘haec dicit Dominus’, oppure seguendo la via di un metodo deduttivo o in qualsiasi altro modo, questa è una questione secondaria. Così come, secondo l’insegnamento classico degli antichi, il ‘singolo’, posto davanti alla sua decisione nel caso concreto non dovrebbe solamente chiedersi: che cosa è ‘ragionevole’ qui e ora secondo i principi generali del dogma e della morale, ma anche secondo ‘l’impulso dello Spirito Santo’, così nelle decisioni della Chiesa bisognerebbe domandarsi: ‘Non est propheta… ut interrogemus per eum?’ (1Re 22,7). Non si dovrebbe trattare troppo sbrigativamente il carisma della profezia più o meno come un privilegio ormai passato della Chiesa primitiva. Le forme sociologiche e psicologiche del carisma profetico e del suo intervento lungo il cammino della storia della Chiesa possono variare. Ma sempre dev’esserci nella Chiesa, accanto all’ufficio trasmesso per l’imposizione delle mani, anche la vocazione umanamente non trasferibile del profeta. Nessuno dei due doni può rimpiazzare l’altro […]”.

“Visioni e profezie: mistica ed esperienza della trascendenza” – di Karl Rahner (1952), ed. it. a cura di Vita e pensiero, Milano 1995, pp. 41-45.48-52.


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