Profeti e profezie: intervista a Joseph Ratzinger
Intervista al Cardinale Joseph Ratzinger
di Niels Christian Hvidt,
1998
Quando si sente nominare la parola “profezia”, la maggior parte dei teologi
pensa ai profeti dell’Antico Testamento, a Giovanni Battista, o alla dimensione
profetica del Magistero. Così, nella Chiesa cristiana, il tema dei profeti
viene solo raramente affrontato. E tuttavia la storia della Chiesa è costellata
di figure profetiche di santi che spesso non verranno canonizzati se non molto
più tardi, e che durante la loro vita avevano trasmesso un Messaggio, non come
loro parola, ma come Parola proveniente da Dio. Quale sia la specificità dei
profeti, che cosa li distingua dai rappresentanti della Chiesa istituzionale e
come la Parola loro rivelata si rapporti alla Parola rivelata in Cristo e che
ci è stata trasmessa dagli Apostoli, su tutto questo non si è mai riflettuto in
modo sistematico. Effettivamente non è mai stata sviluppata una vera e propria
teologia della profezia cristiana e di fatto esistono pochissimi studi riguardo
a questo problema. Nella sua attività teologica, il card. Joseph Ratzinger si è
già occupato da tempo e in modo approfondito del concetto di Rivelazione. La
sua tesi di laurea sulla “Teologia della storia di san Bonaventura” aveva avuto
un tale impatto innovativo che il suo lavoro era stato dapprima respinto. In
quel tempo, la Rivelazione veniva ancora concepita come una raccolta di
proposizioni divine. Essa era soprattutto, e prima di tutto, considerata una
questione di conoscenze razionali. Tuttavia Ratzinger ha trovato, nelle sue
ricerche, che in san Bonaventura la rivelazione si riferiva all’azione di Dio
nella storia, nella quale la Verità si rivelava a poco a poco. La Rivelazione è
una continua crescita della Chiesa verso la pienezza del Logos, della Parola di
Dio. Solo dopo una notevole riduzione e una nuova elaborazione del testo, il
suo lavoro venne accolto. Da allora il cardinale Ratzinger sostiene una
comprensione dinamica della Rivelazione, alla luce della quale il Cristo,
poiché è Parola di Dio, è sempre più grande di ogni altra parola di uomo che
non potrà mai esprimerla pienamente. Al contrario le parole partecipano a
questa pienezza inesauribile della Parola, si aprono a lei e crescono man mano
di generazione in generazione. Una definizione teologica della profezia
cristiana può essere raggiunta solo nel quadro di un simile concetto dinamico
di Rivelazione. Già nel 1993 il cardinale Joseph Ratzinger affermava che era
urgente una profonda ricerca per stabilire ciò che significava essere o non
essere profeti, nel senso cristiano del termine. Ecco perché abbiamo chiesto al
Cardinale un incontro per parlare sul tema della profezia cristiana. Il 16
marzo 1998 il cardinale ci ha gentilmente concesso questa conversazione.
1) Nella storia della
rivelazione nell’Antico Testamento è essenzialmente la parola del profeta che
ne apre il cammino con la sua critica e che l’accompagna per tutto il suo
percorso. Secondo Lei che ne è della profezia nella vita della Chiesa?
Vogliamo soffermarci innanzitutto per un momento sulla profezia nel senso
vetero testamentario del termine. Sarà utile stabilire con precisione chi sia
veramente il profeta per eliminare ogni malinteso. Il profeta non è uno che
predice l’avvenire. L’elemento essenziale del profeta non è quello di predire i
futuri avvenimenti; il profeta è colui che dice la verità perché è in contatto
con Dio e cioè si tratta della verità valida per oggi che naturalmente illumina
anche il futuro. Pertanto non si tratta di predire l’avvenire nei suoi
dettagli, ma di rendere presente in quel momento la verità divina e di indicare
il cammino da prendere. Per quanto riguarda il popolo di Israele la parola del
profeta ha una funzione particolare, nel senso che la fede di questo popolo è
orientata essenzialmente verso l’avvenire. Di conseguenza la parola del profeta
presenta una doppia particolarità: da una parte chiede di essere ascoltata e
seguita, pur rimanendo parola umana, e dall’altra si appoggia alla fede e si
inserisce nella struttura stessa del popolo di Israele, particolarmente in ciò
che attende. È pure importante sottolineare che il profeta non è un
apocalittico, anche se ne ha la parvenza, non descrive le realtà ultime, ma
aiuta a capire e vivere la fede come speranza. Anche se il profeta deve
proclamare la Parola di Dio come fosse una spada tagliente, tuttavia egli non è
uno che cerchi di fare critiche sul culto e sulle istituzioni. Egli deve sempre
fare presente il malinteso e l’abuso della Parola di Dio da parte delle
istituzioni e ha il compito di esprimere le esigenze vitali di Dio; tuttavia
sarebbe errato costruire l’Antico Testamento su una dialettica puramente
antagonista tra i profeti e la Legge. Dato che tutt’e due provengono da Dio,
hanno entrambi una funzione profetica. Questo è un punto per me molto
importante perché ci porta nel Nuovo Testamento. Alla fine del Deuteronomio,
Mosè viene presentato come profeta e si presenta lui stesso come tale. Egli
annunzia a Israele: “Dio ti invierà un profeta come me”. Resta la domanda: che
cosa significa: “un profeta come me”? Io ritengo che il punto decisivo, sempre
secondo il Deuteronomio, consista nel fatto che Mosè parlava con Dio come con
un amico. Qui vedrei il nocciolo o la radice della vera essenza profetica in
questo “faccia a faccia con Dio”, il “conversare con Lui come con un amico”.
Solo in virtù di questo diretto incontro con Dio, il profeta può parlare nella
storia di Israele.
2) Come si può
rapportare il concetto di profezia con il Cristo? Si può chiamare profeta il
Cristo?
I Padri della Chiesa hanno concepito la profezia del Deuteronomio sopra
menzionata come una promessa del Cristo, cosa che io condivido. Mosè dice: “Un
profeta come me”. Egli ha trasmesso ad Israele la Parola e ne ha fatto un
popolo, e con il suo “faccia a faccia con Dio” ha compiuto la sua missione
profetica portando gli uomini al loro incontro con Dio. Tutti gli altri profeti
seguono quel modello di profezia e dovranno sempre nuovamente liberare la legge
mosaica dalla rigidità e trasformarla in un cammino vitale. Il vero e più
grande Mosè è quindi il Cristo, che realmente vive “faccia a faccia” con Dio
perché ne è il Figlio. In questo contesto tra il Deuteronomio e l’avvento del
Cristo si intravede un punto molto importante per comprendere l’unità dei due
Testamenti. Cristo è il definitivo e vero Mosè che realmente vive “faccia a
faccia” con Dio perché è suo Figlio. Egli non solo ci conduce a Dio attraverso
la Parola e la Legge, ma ci assume in sé con la sua vita e la sua Passione, e
con l’Incarnazione fa di noi il suo Corpo Mistico. Ciò significa che nel Nuovo
Testamento, nelle sue radici, la profezia è presente. Se Cristo è il Profeta
definitivo perché è il Figlio di Dio, è nella comunione con il Figlio che
discende la dimensione cristologica e profetica anche del Nuovo Testamento.
3) Secondo Lei, come
si deve considerare tutto ciò concretamente nel Nuovo Testamento? Con la morte
dell’ultimo apostolo non viene posto un limite definitivo ad ogni ulteriore
profezia, non se ne esclude ogni possibilità?
Sì, esiste la tesi secondo la quale la fine dell’Apocalisse ponga termine ad
ogni profezia. A me pare che questa tesi racchiuda un doppio malinteso.
Anzitutto dietro a questa tesi può esserci il concetto che il profeta, che è
essenzialmente finalizzato ad una dimensione di speranza, non abbia più ragione
di essere, proprio perché ormai c’è il Cristo e la speranza si basa sulla sua
presenza. Questo è un errore, perché il Cristo è venuto in carne e poi è
risuscitato “in Spirito Santo”. Questa nuova presenza di Cristo nella storia,
nel Sacramento, nella Parola, nella vita della Chiesa, nel cuore di ogni uomo,
è l’espressione, ma anche l’inizio dell’Avvento definitivo del Cristo che
prenderà possesso di tutto e in tutto. Ciò significa che il cristianesimo è di
per sé un movimento perché va incontro ad un Signore risuscitato che è salito
al Cielo e ritornerà. È questa la ragione per la quale il cristianesimo porta
in sé sempre la struttura della speranza. L’Eucarestia è sempre stata concepita
come un movimento da parte nostra verso il Signore che viene. Essa incorpora
pure tutta la Chiesa. Il concetto che il cristianesimo sia una presenza già del
tutto completa e non porti in sé alcuna struttura di speranza è il primo errore
che va rigettato. Il Nuovo Testamento ha già in sé una struttura di speranza
che è un po’ cambiata, ma che è pur sempre una struttura di speranza. Essere un
servitore della speranza è essenziale per la fede del nuovo popolo di Dio. Il
secondo malinteso è costituito da una comprensione intellettualistica e
riduttiva della Rivelazione che viene considerata come un tesoro di verità
rivelate assolutamente complete a cui non si può più aggiungere nulla.
L’autentico avvenimento della Rivelazione consiste nel fatto che noi veniamo
invitati a questo “faccia a faccia” con Dio. La Rivelazione è essenzialmente un
Dio che si dona a noi, che costruisce con noi la storia e che ci riunisce e
raccoglie tutti insieme. Si tratta di un incontro che ha in sé anche una
dimensione comunicativa e una struttura cognitiva. Essa implica anche il
riconoscimento delle verità rivelate. Se si accetta la Rivelazione sotto questo
punto di vista, si può dire che la Rivelazione ha raggiunto il suo scopo con il
Cristo, perché, secondo la bella espressione di San Giovanni della Croce,
quando Dio ha parlato personalmente, non vi è più nulla da aggiungere. Non si
può più dire nulla oltre il Logos. Egli è in mezzo a noi in modo completo e lo
stesso Dio non può più darci, né dirci qualcosa di più di Sé stesso. Quanto a
noi, non ci resta che penetrare, giorno dopo giorno, questo mistero della fede,
proprio perché noi cristiani abbiamo ricevuto questo dono totale di sé che Dio
ci ha fatto con il suo Verbo fatto carne. Ciò si ricollega alla struttura della
speranza. La venuta di Cristo è l’inizio di una conoscenza sempre più profonda
e di una graduale scoperta di ciò che il Verbo ci ha donato. Così si è aperto
un nuovo modo di introdurre l’uomo nella Verità tutta intera, come dice Gesù
nel Vangelo di San Giovanni, dove parla della discesa dello Spirito Santo.
Ritengo che la cristologia pneumatologica dell’ultimo discorso di addio di Gesù
nel Vangelo di San Giovanni sia molto importante per il nostro discorso, dato
che Cristo vi spiega che la sua vita terrena in carne non era che un primo
passo. La vera venuta del Cristo si realizza al momento in cui lui non è più
legato a un luogo fisso o a un corpo fisico, ma come il Risuscitato nello
Spirito capace di andare da tutti gli uomini di tutti i tempi, per introdurli
nella verità in modo sempre più profondo. A me pare chiaro che – proprio quando
questa cristologia pneumatologica determina il tempo della Chiesa, cioè il
tempo in cui il Cristo viene a noi in Spirito – l’elemento profetico, come
elemento di speranza e di attualizzazione del dono di Dio, non possa mancare né
venire meno.
4) Se allora è così,
la domanda è: in quale modo è presente questo elemento profetico e che cosa
dice San Paolo a questo proposito?
In Paolo è particolarmente evidente che il suo apostolato, essendo un
apostolato universale rivolto a tutto il mondo pagano, comprende anche la
dimensione profetica. Grazie al suo incontro con il Cristo Risorto, San Paolo
ha potuto penetrare nel mistero della Risurrezione e nella profondità del
Vangelo. Grazie al suo incontro con il Cristo egli ha potuto capire in modo
nuovo la sua Parola, mettendo in evidenza l’aspetto di speranza e facendo
valere la sua capacità di discernimento. Essere un apostolo come San Paolo è
naturalmente un fenomeno unico. Ci si può chiedere che cosa avvenga nella
Chiesa dopo la fine dell’era apostolica. Per rispondere a questa domanda è
molto importante un passo del secondo capitolo della lettera di San Paolo agli
Efesini in cui egli scrive: la Chiesa è fondata “sugli apostoli e sui profeti”.
Un tempo si pensava che si trattasse dei dodici apostoli e dei profeti
dell’Antico Testamento. L’esegesi moderna ci dice che il termine di “apostolo”
deve essere inteso in modo più ampio e che il concetto di “profeta” va riferito
ai profeti della Chiesa. Dal capitolo dodicesimo della prima lettera ai
Corinzi, si apprende che i profeti di allora si organizzavano come membri di un
collegio. La stessa cosa viene menzionata dalla Didakhé, la qual cosa significa
che questo collegio esisteva ancora quando l’opera fu scritta. Più tardi il
collegio dei profeti si dissolse, e questo certamente non a caso, poiché
l’Antico Testamento ci dimostra che la funzione del profeta non può essere
istituzionalizzata, dato che la critica dei profeti non è diretta solo contro i
preti, si dirige anche contro i profeti istituzionalizzati. Ciò appare in modo
molto chiaro nel libro del profeta Amos, dove questi parla contro i profeti del
regno di Israele. I profeti liberi parlano spesso contro i profeti che
appartengono a un collegio, perché Dio trova, per così dire, più margine di
manovra e più ampio spazio per agire presso i primi, presso i quali può
intervenire e prendere iniziative liberamente, cosa che non potrebbe fare
invece con una forma di profezia di tipo istituzionalizzato. A me pare tuttavia
che questa dovrebbe sussistere sotto entrambe le forme, come del resto è
avvenuto durante tutta la storia della Chiesa. Come gli stessi apostoli erano a
loro modo anche profeti, così bisogna riconoscere che nel collegio apostolico
istituzionalizzato esiste pur sempre un carattere profetico. Così la Chiesa
affronta le sfide che le sono proprie grazie allo Spirito Santo che, nei momenti
cruciali, apre una porta per intervenire. La storia della Chiesa ci ha fornito
molti esempi di grandi personaggi quali Gregorio Magno e Sant’Agostino che
erano anche profeti. Potremmo citare altri nomi di grandi personaggi della
Chiesa che sono stati anche figure profetiche in quanto hanno saputo tenere
aperta la porta allo Spirito Santo. Solo agendo così essi hanno saputo
esercitare il potere in modo profetico, come viene detto molto bene nella
Didakhé. Per quanto riguarda i profeti indipendenti, cioè non
istituzionalizzati, occorre ricordare che Dio si riserva la libertà, attraverso
i carismi, di intervenire direttamente nella sua Chiesa per risvegliarla,
avvertirla, promuoverla e santificarla. Credo che nella storia della Chiesa
questi personaggi carismatici e profetici si sono continuamente succeduti. Essi
sorgono sempre nei momenti più critici e decisivi nella storia della Chiesa.
Pensiamo ad esempio al nascere del movimento dei monaci, a Sant’Antonio che va
nel deserto e in questo modo dà un forte impulso alla Chiesa. Sono i monaci che
hanno salvato la cristologia dall’arianesimo e dal nestorianesimo. Anche San
Basilio è una di queste figure, un grande vescovo, ma nello stesso tempo anche
un vero profeta. In seguito non è difficile intravedere nel movimento degli
ordini mendicanti un’origine carismatica. Né San Domenico né San Francesco
hanno fatto profezie sul futuro, ma hanno saputo leggere il segno dei tempi e
capire che era arrivato per la Chiesa il momento di liberarsi dal sistema
feudale, di ridare valore all’universalità e della povertà del Vangelo, come
pure alla “vita apostolica”. Così facendo hanno ridato alla Chiesa il suo vero
aspetto, quello di una Chiesa animata dallo Spirito Santo e condotta dal Cristo
stesso. Hanno così contribuito alla riforma della gerarchia ecclesiastica.
Altri esempi sono Santa Caterina da Siena e Santa Brigida di Svezia, due grandi
figure di donne. Penso sia importante sottolineare come in un momento
particolarmente difficile per la Chiesa, quale fu quello della crisi di
Avignone e lo scisma che ne seguì, si siano levate figure di donne per
annunciare che il Cristo vivente è anche il Cristo che soffre nella sua Chiesa.
5) Quando si legge la
storia della Chiesa, risulta chiaro che la maggior parte dei mistici profeti sono
donne. Questo è un fatto molto interessante che potrebbe contribuire alla
discussione sul sacerdozio delle donne. Che cosa ne pensa Lei?
C’è un’antica tradizione patristica che chiama Maria non sacerdotessa, ma
profetessa. Il titolo di profetessa nella tradizione patristica è, per
eccellenza, il titolo di Maria. È in Maria che il temine di profezia in senso
cristiano viene meglio definito e cioè questa capacità interiore di ascolto, di
percezione e di sensibilità spirituale che le consente di percepire il mormorio
impercettibile dello Spirito Santo, assimilandolo e fecondandolo e offrendolo
al mondo. Si potrebbe dire, in un certo senso, ma senza essere categorici, che
di fatto la linea mariana incarna il carattere profetico della Chiesa. Maria è
sempre stata vista dai Padri della Chiesa come l’archetipo dei profeti
cristiani e da lei parte la linea profetica che entra poi nella storia della
Chiesa. A questa linea appartengono pure le sorelle dei grandi santi.
Sant’Ambrogio deve alla sua santa sorella il cammino spirituale che ha
percorso. La stessa cosa vale per San Basilio e San Gregorio di Nysse, come
pure per San Benedetto. Più avanti nel tardo Medioevo, incontriamo grandi
figure di mistiche, tra cui bisogna menzionare Santa Francesca Romana. Nel XVI
secolo troviamo Santa Teresa d’Avila che ha avuto un ruolo molto importante
nell’evoluzione spirituale e dottrinale di San Giovanni della Croce. La linea
profetica legata alle donne ha avuto una grande importanza nella storia della
Chiesa. Santa Caterina da Siena e Santa Brigida di Svezia possono servire da
modello come griglia di lettura. Entrambe hanno parlato ad una Chiesa in cui
esisteva ancora il collegio apostolico e dove i sacramenti venivano
amministrati. Dunque l’essenziale esisteva ancora pur tuttavia, a causa delle
lotte interne, rischiava di decadere. Questa Chiesa è stata da loro ravvivata,
riportando al suo antico valore il carisma dell’unità e introducendo nuovamente
l’umiltà, il coraggio evangelico e il valore dell’evangelizzazione.
6) Lei ha detto che la
Rivelazione nel Cristo è avvenuta in modo “definitivo”, ciò che non significa
chiusura assoluta, non si identifica con l’ultima parola delle dottrine
rivelate. Questa affermazione è di grande interesse per la nostra tesi sulla
profezia cristiana. Ora la domanda più urgente è naturalmente questa: in quale
misura i profeti, nella storia della Chiesa e anche per la teologia stessa,
possono dire qualcosa di radicalmente nuovo? È verificabile che gli ultimi
grandi dogmi sono da mettere direttamente in relazione con le rivelazioni di
grandi santi profeti, come ad esempio le rivelazioni di Santa Caterina Laburé
per quanto concerne il dogma dell’Immacolata Concezione. Questo è un tema assai
poco esplorato nei libri di teologia.
Sì, questo tema potrebbe essere veramente trattato a fondo. Mi pare che Hans
Urs von Balthasar abbia trovato, nelle sue ricerche, che dietro ad ogni grande
teologo vi sia sempre prima un profeta. Un Sant’Agostino è impensabile senza
l’incontro con il monachesimo e soprattutto con sant’Antonio. E la stessa cosa
vale per Sant’Athanasio; e San Tommaso d’Aquino non sarebbe concepibile senza
San Domenico e il carisma dell’evangelizzazione che gli era proprio. Leggendo
gli scritti di quest’ultimo, si nota quanto importante sia stato per lui questo
tema dell’evangelizzazione. Questo stesso tema ha svolto un ruolo importante
nella sua disputa con il clero e con l’università di Parigi, e costrinse San
Tommaso a ripensare lo statuto dell’ordine domenicano. Egli qui afferma che la
vera regola del suo ordine si trova nelle Sacre Scritture e che è costituita
dal quarto capitolo degli Atti degli Apostoli (aveva un cuore solo e un’anima
sola) e dal decimo capitolo del Vangelo di San Matteo (annunciare il Vangelo
senza pretendere nulla per sé). Questa è per San Tommaso la regola di tutte le
regole religiose. Ogni forma monastica non può essere che la realizzazione di
questo primo modello che aveva naturalmente un carattere apostolico, ma che la
figura profetica di San Domenico gli ha fatto riscoprire in modo nuovo. A
partire da questo modello prototipo San Tommaso sviluppa la sua teologia come
evangelizzazione, cioè un muoversi con e per il Vangelo, un essere radicato nel
concetto di “un cuore solo e un’anima sola” della comunità dei credenti. Lo stesso
si potrebbe dire di San Bonaventura e di San Francesco d’Assisi: la stessa cosa
avviene per Hans Urs von Balthasar impensabile senza Adrienne von Speyr. Credo
che si possa dimostrare come in tutte le figure dei grandi teologi sia
possibile una nuova evoluzione teologica solo nel rapporto tra teologia e
profezia. Finché si procede solo in modo razionale, non accadrà mai nulla di
nuovo. Si riuscirà forse a sistemare meglio le verità conosciute, a rilevare
aspetti più sottili, ma i nuovi veri progressi che portano a nuove grandi
teologie non provengono dal lavoro razionale della teologia, bensì da una
spinta carismatica e profetica. Ed è in questo senso, ritengo, che la profezia
e la teologia vanno sempre di pari passo. La teologia, in senso stretto, non è
profetica, ma può diventare realmente teologia viva quando viene nutrita e
illuminata da un impulso profetico.
7) Nel Credo si dice
dello Spirito Santo che “ha parlato per mezzo dei profeti”. La domanda è: i
profeti qui menzionati sono solo quelli dell’Antico Testamento, o ci si
riferisce anche a quelli del Nuovo Testamento?
Per rispondere a questa domanda bisognerebbe studiare a fondo la storia del
Credo di Nicea. Indubbiamente, qui si tratta solo dei profeti dell’Antico
Testamento (vedi l’uso del tempo passato: “ha parlato”) e quindi la dimensione
pneumatologica della rivelazione viene messa fortemente in evidenza. Lo Spirito
Santo precede il Cristo per preparagli la strada, per poi introdurre tutti gli
uomini alla verità. Esistono vari tipi di simbolismo in cui questa dimensione
viene messa in forte risalto. Nella tradizione della Chiesa Orientale i profeti
vengono considerati come un’opera di preparazione dello Spirito Santo che parla
già prima di Cristo e che parla attraverso i profeti. Sono convinto che l’accento
primario è posto sul fatto che è lo Spirito Santo che apre la porta perché il
Cristo possa essere accolto “ex Spiritu Sancto”. Ciò che è avvenuto in Maria
per opera dello Spirito Santo (ex Spiritu Sancto) è un evento preparato
accuratamente e a lungo. Maria raccoglie in sé tutta la profezia dell’Antico
Testamento nel concepimento del Cristo “ex Spiritu Sancto”. Secondo me questo
non esclude che si potrebbe continuare nella nostra prospettiva dicendo che il
Cristo continua ad essere concepito “ex Spiritu Sancto”. Sembra chiaro che
l’evangelista San Luca, a ragion veduta, abbia messo in parallelo il racconto
dell’infanzia di Gesù nel suo Vangelo con la nascita della Chiesa nel secondo
capitolo degli Atti degli Apostoli. Nei dodici apostoli, raccolti attorno a
Maria, avviene una “Concepitio ex Spiritu Sancto” che si attualizza nella
nascita della Chiesa. Concludendo si può dire che se anche il testo del Credo
si riferisce ai soli profeti dell’Antico Testamento, ciò non significa che
l’azione dello Spirito Santo si possa dichiarare con questo conclusa.
8 ) San Giovanni
Battista viene spesso designato come l’ultimo dei profeti. Secondo Lei, come va
intesa questa affermazione?
Penso che vi siano molte ragioni e contenuti in questa affermazione. Uno di
questi è la parola stessa di Gesù: “La Legge e tutti i Profeti infatti hanno
profetato fino a Giovanni”, dopo viene il regno di Dio. Qui Gesù stesso
dichiara che Giovanni rappresenta la fine dell’Antico Testamento e che dopo
verrà qualcuno più piccolo all’apparenza, ma più grande nel Regno di Dio, cioè
Gesù stesso. In questo modo il Battista viene ancora inquadrato nell’Antico
Testamento e tuttavia apre una Nuova Alleanza. In questo senso il Battista è
l’ultimo dei profeti. Questo è pure il giusto senso del termine: Giovanni è
l’ultimo prima di Cristo, colui che raccoglie la fiaccola di tutto il movimento
profetico e la consegna nelle mani di Cristo. Egli conclude l’opera dei profeti
perché indica la speranza del popolo di Israele: il Messia, cioè Gesù. È importante
precisare che lui stesso non annuncia nulla che riguarda l’avvenire, ma si
ritiene solo uno che chiama alla conversione e che rinnova e attualizza la
promessa messianica della Antica Alleanza. Del Messia dice: “In mezzo a voi sta
uno che voi non conoscete”. Anche se in questo annuncio vi è una predizione,
Giovanni Battista rimane fedele al modello profetico che non è quello di
predire l’avvenire, ma di annunciare che è tempo di convertirsi. Il messaggio
del Battista è quello di invitare il popolo di Israele a guardarsi dentro e a
convertirsi per poter riconoscere, nell’ora della salvezza, Colui che Israele
ha sempre atteso e che ora è presente. Giovanni impersonifica in questo senso
l’ultimo dei profeti e l’economia specifica della speranza dell’Antica Alleanza.
Quello che verrà dopo sarà un altro tipo di profezia. Per questo il Battista
può essere chiamato l’ultimo dei profeti dell’Antico Testamento. Ciò non
significa tuttavia che dopo di lui la profezia sia finita. Ci si troverebbe in
contrasto con l’insegnamento di San Paolo che dice nella sua prima lettera ai
Tessalonicesi: “Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie”.
9) In un certo senso
esiste una differenza tra la profezia del Nuovo e dell’Antico Testamento perché
Cristo è entrato nella storia. Ma se si guarda all’essenza stessa della
profezia, che è quella di immettere nella Chiesa la Parola ascoltata da Dio,
non sembra esserci alcuna differenza.
Sì, esiste effettivamente una comune struttura di base tra le due profezie, che
varia solo per il rapporto con il Cristo che deve venire e il Cristo già
venuto, ma che dovrà ancora ritornare. Questa questione teologica merita di
essere studiata e approfondita maggiormente: il nocciolo di questa questione è
sapere perché il tempo della Chiesa sul piano strutturale ha molte più affinità
con l’Antico Testamento, o per lo meno a questo è molto simile, e in che cosa
consiste la novità portata dalla prima venuta di Cristo.
10) Spesso nella
teologia si nota la tendenza a volere assolutamente differenziare l’Antico e il
Nuovo Testamento. Questa differenziazione appare spesso artificiale e basata su
principi astratti piuttosto che concreti.
Il voler radicalizzare le differenze senza voler vedere l’unità interiore che
esiste nella storia di Dio con gli uomini è un errore in cui i Padri della
Chiesa non sono incorsi. Essi hanno proposto un triplice schema: “umbra, imago,
veritas”, dove il Nuovo Testamento è “l’imago”, così l’Antico e il Nuovo
Testamento non vengono contrapposti l’uno all’altro come ombra e realtà, ma
nella triade di ombra, immagine e verità, si tiene aperta l’attesa verso il
definitivo compimento e il tempo del Nuovo Testamento, il tempo della Chiesa,
come un ulteriore piano più avanzato, ma sempre nel cammino della Promessa.
Questo è un punto che fino ad oggi, secondo me, non è stato sufficientemente
considerato. I Padri della Chiesa, invece, hanno sottolineato il carattere di
incompletezza del Nuovo Testamento, in cui non tutte le promesse si sono ancora
avverate. Cristo è sì venuto nella carne, ma la Chiesa attende ancora la sua
Rivelazione nella pienezza della sua gloria.
11) Forse sarebbe
questa la ragione che spiega perché molte figure profetiche hanno un carattere
fortemente escatologico nella loro spiritualità?
Penso che l’aspetto escatologico – senza esaltazione apocalittica – appartenga
essenzialmente alla natura profetica. I profeti sono coloro che esaltano la
dimensione della speranza racchiusa nel cristianesimo. Essi sono gli strumenti
che rendono sopportabile il presente invitando ad uscire dal tempo per quanto
concerne l’essenziale e il definitivo. Questo carattere escatologico, questa
spinta a superare il tempo presente, fa certamente parte della spiritualità
profetica.
12) Se poniamo
l’escatologia profetica in relazione alla speranza, il quadro cambia
completamente. Non è più un messaggio che fa paura, ma che apre un orizzonte al
compimento della promessa di Cristo per tutta la creazione.
Che la fede cristiana non ispiri paura, ma la superi è un fatto fondamentale.
Questo principio deve costituire la base della nostra testimonianza e della
nostra spiritualità. Ma ritorniamo un momento a quanto detto sopra. È
estremamente importante precisare in che senso il cristianesimo è il compimento
della Promessa fatta da Dio e in che senso non lo è. Ritengo che l’attuale
crisi della fede sia strettamente legata ad un insufficiente chiarimento di
tale questione. Qui si presentano tre pericoli. Il primo pericolo: la promessa
dell’Antico Testamento e l’attesa della salvezza degli uomini sono visti solo
in modo immanente nel senso di migliori strutture o di prestazioni sempre più
perfette. Così concepito il cristianesimo risulta solo una sconfitta. Partendo
da questa prospettiva si è tentato di sostituire il cristianesimo con ideologie
di fede nel progresso e poi con ideologie di speranza, che altro non sono che
varianti del marxismo. Il secondo pericolo è quello di proiettare il
cristianesimo completamente nell’al di là, di volerlo solo in modo puramente
spirituale e individualistico, negando la totalità della realtà umana. Il terzo
pericolo, che è particolarmente minaccioso in tempi di crisi e di svolte
storiche, è quello di rifugiarsi in esaltazioni apocalittiche. In opposizione a
tutto ciò, diventa sempre più urgente presentare la vera struttura della
promessa e del compimento della fede cristiana in modo più comprensibile e
realizzabile.
13) Spesso si nota che
tra il misticismo puramente contemplativo e senza parole e il misticismo
profetico con le parole, esiste una grande tensione. Karl Rahner ha fatto
notare questa tensione tra i due tipi di mistica. Alcuni pretendono che la
mistica contemplativa e senza parole sia quella più elevata, più pura e
spirituale. In tale senso vengono spiegati certi passaggi in San Giovanni della
Croce. Altri pensano che tale mistica senza parole in fondo sia estranea al
cristianesimo perché la fede cristiana è essenzialmente la religione della
Parola.
Sì, direi che la mistica cristiana ha anche una dimensione missionaria. Essa
non cerca solo di elevare l’individuo, ma gli conferisce una missione
mettendolo in contatto con il Verbo, con il Cristo che parla attraverso lo
Spirito Santo. Questo punto viene messo in forte rilievo da San Tommaso
d’Aquino. Prima di san Tommaso si diceva: prima monaco e poi mistico; oppure
prima prete e poi teologo. Tommaso non accetta questo, perché il dono mistico
apre ad una missione. E la missione non è qualcosa di inferiore alla
contemplazione, come invece pensava Aristotele che riteneva la contemplazione
intellettuale il gradino più alto nella scala dei valori umani. Questo non è un
concetto cristiano, dice San Tommaso, perché la forma più perfetta di vita è
quella mista, cioè prima quella mistica e da questa poi quella apostolica a
servizio del Vangelo. Santa Teresa d’Avila ha esposto questo concetto in modo
molto chiaro. Essa mette in relazione la mistica con la cristologia, ottenendo
così una struttura missionaria. Con ciò non voglio escludere che il Signore
possa suscitare mistici autenticamente cristiani in seno alla Chiesa, ma vorrei
precisare che la cristologia come base e misura di ogni mistica cristiana,
indica un’altra struttura (Cristo e lo Spirito Santo sono inscindibili). Il
“faccia a faccia” di Gesù con il Padre, include “l’essere per gli altri”
contiene in sé “l’essere per tutti”. Se la mistica è essenzialmente un entrare
in intimità con Cristo, questo “essere per gli altri” le verrà impresso
nell’intimo.
14) Molti profeti
cristiani, come Caterina da Siena, Brigida di Svezia e Faustina Kowalska
attribuiscono a Cristo i loro discorsi profetici o rivelazioni. Queste
rivelazioni vengono definite dalla teologia come rivelazioni private. Questo
concetto appare molto riduttivo perché la profezia è sempre rivolta a tutta la
Chiesa e non è mai privata.
In teologia il concetto di “privato” non significa che il messaggio riguardi
solo la persona che lo riceve e non anche tutti gli altri. È un’espressione che
riguarda piuttosto il grado di importanza come per esempio si ha nel concetto
di “Messa privata”. Con questo si intende dire che le rivelazioni dei mistici
cristiani o dei profeti, non potranno mai assurgere al rango della rivelazione
biblica, potranno solo condurre a quella o con quella misurarsi. Questo non
significa tuttavia che questo tipo di rivelazioni non sia importante per la
Chiesa. Lourdes e Fatima provano il contrario. Esse in definitiva ci riportano
alla rivelazione biblica. E appunto per questo rivestono una sicura importanza.
15) Nella storia della
Chiesa si può constatare che non si possono evitare ferite reciproche, tanto da
parte del profeta quanto da parte dei destinatari. Come spiega questo dilemma?
È sempre stato così: l’impatto profetico non può avvenire senza la
reciproca sofferenza. Il profeta è chiamato a soffrire in un modo specifico:
l’essere pronto a soffrire e a condividere la Croce di Cristo è la pietra di
verifica della sua autenticità. Il profeta non cerca mai di imporre se stesso.
Il suo messaggio viene verificato e reso fertile dalla Croce.
16) È veramente
frustrante constatare che la maggior parte delle figure profetiche della Chiesa
sono state respinte durante la loro vita. Esse sono state quasi sempre
criticate o sottoposte al rifiuto da parte della Chiesa. Ciò è riscontrabile
nella maggioranza dei profeti e delle profetesse.
Sì, è vero. Sant’Ignazio di Loyola è stato in prigione, la stessa cosa è
accaduta a San Giovanni della Croce. Santa Brigida di Svezia è stata sul punto
di essere condannata dal concilio di Basilea; del resto è tradizione della
Congregazione per la Dottrina della Fede di essere in un primo momento molto
cauti là dove si hanno affermazioni di mistici. Questo atteggiamento è del
resto più che giustificato poiché esistono molti falsi mistici, molti casi
patologici. Pertanto è necessario un atteggiamento molto critico per non
rischiare di cadere nel sensazionale, nel fantasioso e nella superstizione. Il
mistico si manifesta nella sofferenza, nell’obbedienza e nella sopportazione e
così la sua voce dura nel tempo. Quanto alla Chiesa, essa deve guardarsi
dall’emettere un giudizio prematuro per evitare di meritare il rimprovero di
“avere ucciso i profeti”.
17) L’ultima domanda è
forse un po’ imbarazzante. Essa riguarda una figura profetica contemporanea: la
greco-ortodossa Vassula Rydén. Essa viene considerata da molti credenti, anche
da molti teologi, sacerdoti e vescovi della Chiesa Cattolica come messaggera di
Cristo. I suoi messaggi, che dal 1991 vengono tradotti in 34 lingue, sono
ampiamente diffusi nel mondo. La Congregazione per la Dottrina della Fede si è
pronunciata tuttavia in modo negativo al riguardo. La “Notificazione” del 1995,
nella quale accanto ad aspetti positivi negli scritti di Vassula, intravede
anche punti meno chiari, è stata interpretata da alcuni commentatori come una
condanna. Non è vero?
Qui Lei tocca un tema piuttosto delicato. No, la “Notificazione” è un
avvertimento, non una condanna. Da un punto di vista procedurale, nessuna
persona potrebbe essere condannata senza processo e senza essere stata prima
sentita. Ciò che viene detto è che molte cose sono ancora da chiarire. Vi sono
elementi apocalittici che suscitano problemi e aspetti ecclesiologici ancora
poco chiari. I suoi scritti contengono molte cose buone, ma il grano buono è
misto al loglio. È per questo che abbiamo invitato i cristiani cattolici ad
osservare il tutto con prudenza e misurarlo con il metro della fede trasmessa
dalla Chiesa.
18) Esiste dunque
ancora un processo in corso per chiarire la questione?
Sì, e, durante tale processo di chiarificazione, i fedeli devono rimanere
prudenti e mantenere sveglio lo spirito di discernimento. Indubbiamente negli
scritti si constata un’evoluzione che non sembra ancora conclusa. Non dobbiamo
dimenticare che le espressioni e le immagini ispirate dall’incontro interiore
con Dio, anche in caso di mistica autentica, dipendono sempre dalle possibilità
dell’anima umana e dalla sua limitatezza. La fiducia illimitata va posta
soltanto nella effettiva Parola della Rivelazione che incontriamo nella fede
trasmessa dalla Chiesa.
[testo tratto dal Sito della
Congregazione per il Clero]
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