FRANCESCO d'Assisi
e LE SUE CONVERSIONI
Il ritorno a casa dopo la notte insonne a Spoleto poteva inizialmente sembrare una
disfatta per Francesco e anche per suo padre, che avrebbe speso tanti soldi per dare il
migliore vestiario e la migliore cavalcatura a suo figlio, e dimostrare agli altri cittadini di
Assisi quanto fosse generoso e ricco. Non sappiamo come Francesco prese questa sua
apparente disfatta, anche se la L3C 6, come abbiamo visto, dice che lui ritornò ad Assisi
lieto ed esultante.
Sta di fatto che, dopo pochi giorni, si assimilò di nuovo nella
compagnia dei suoi amici, e continuò a sognare di fare grandi cose, questa volta, nel
contesto locale della sua città.
Una delle occasioni annuali di festa nella città di Assisi è, ancora oggi, la festa di
San Vittorino, martire, un santo che gli Assisani considerano come compatrono. I suoi
resti sono sepolti sotto l’altare della chiesa abbaziale di San Pietro, dei monaci
Benedettini.
La festa segnava l’inizio dell’estate, ed era una tradizione che i giovani della
città scegliessero uno di loro per fare la parte del principe della festa, consegnandogli uno
scettro come segno della sua autorità. Loro obbedivano a tutto quello che lui comandava
e, di solito, si alzarono da tavola mezzo ubriachi per andare per le vie della città a far
trambusto con i loro canti tutta la notte.
Era chiamata la festa dei tripudianti. Francesco
sembra che fosse stato scelto più di una volta come principe della festa, per il semplice
motivo che aveva un carattere gioviale e, oltretutto, poteva pagare tutte le spese della
festa. Quella volta, tuttavia, e cioè, la festa di giugno 1205, doveva essere la sua ultima
festa con gli amici.
Tornato che fu dunque ad Assisi, dopo alcuni giorni, i suoi amici lo elessero una
sera loro signore, perché organizzasse il trattenimento a suo piacere. Egli fece allestire,
come tante altre volte, una cena sontuosa.
Terminato il banchetto, uscirono da casa. Gli
amici gli camminavano innanzi; lui, tenendo in mano una specie di scettro, veniva per
ultimo, ma invece di cantare, era assorto nelle sue riflessioni. D’improvviso, il Signore
lo visitò, e n’ebbe il cuore riboccante di tanta dolcezza, che non poteva muoversi né
parlare, non percependo se non quella soavità, che lo estraniava da ogni sensazione, così
che (come poi ebbe a confidare lui stesso) non avrebbe potuto muoversi da quel posto,
anche se lo avessero fatto a pezzi.
Gli amici, voltandosi e scorgendolo rimasto così lontanto, lo raggiunsero e
restarono trasecolati nel vederlo mutato quasi in un altro uomo. Lo interrogarono: “A
cosa stavi pensando, che non ci hai seguito? Almanaccavi forse di prender moglie?”
Rispose con slancio: “È vero. Stavo sognando di prendermi in sposa la ragazza più
nobile, ricca e bella che mai abbiate visto”. I compagni si misero a ridere.
Francesco
disse questo non di sua iniziativa, ma ispirato da Dio.
E in verità la sua sposa fu la vita
religiosa, resa più nobile e ricca e bella dalla povertà (L3C 7).
Questa era la sua ultima serenata con gli amici. Era la notte in cui Francesco
s’innamorò con la ragazza misteriosa dei suoi sogni. Era la ragazza che sempre sognava
di conquistare. Solo che aveva sbagliato metodo. Prima pensava di conquistarla con le
ricchezze, con gli onori e la gloria che porta la vittoria della guerra, con i titoli
cavallereschi, con le canzoni della cultura cortese che conosceva a memoria. Adesso,
tutto ad un tratto, si accorse che quella ragazza irraggiungibile poteva essere conquistata in un modo nuovo, diverso.
Cominciava a cercare, nel buio della sua anima angosciata,
la luce che lo avrebbe portato fuori dalle sue incertezze nella luce della gioia della
conquista.
Ma doveva faticare molto prima di raggiungere il traguardo.
Non fu così
facile scoprire chi era quella ragazza.
Anche se i Tre Compagni portano subito il
significato dell’esperienza di Francesco sul piano spirituale teologico (la ragazza era la
vita religiosa, o anche Madonna Povertà), a questo punto della sua vita questi ideali
rimanevano ancora irraggiungibili.
Francesco passò attraverso un periodo di grande
incertezza spirituale, che si delinea come periodo di conversioni e che, come abbiamo già
notato, va dal 1205 fino al 1208 circa. Francesco scoprì la sua chiamata come a tentoni,
pian piano, scorgendo in ogni esperienza che fece una scintilla di quella fiamma che
doveva riscaldare il suo cuore per innamorarsi una volta per tutte di quella ragazza dei
suoi sogni.
Cercava la solitudine. Egli, che prima era sempre con gli amici, che non poteva
rimanere a casa senza correre fuori appena lo chiamavano, tanto che saltava i pasti per
raggiungerli al più presto, cominciò adesso a sentire noia delle solite feste. Si tirava in
disparte, e cominciò a scorgere che le mura della sua città nascondevano altre facce,
meno note, ma non meno belle. Le facce dei poveri.
Aveva sempre beneficato i bisognosi, ma da quel momento si propose fermamente
di non rifiutare mai l’elemosina al povero che la chiedesse per amore di Dio, e anzi di
fare elargizioni spontanee e generose.
A ogni misero che gli domandasse la carità,
quando Francesco era fuori casa, provvedeva con denaro; se ne era sprovvisto, gli
regalava il cappello o la cintura, pur di non rimandarlo a mani vuote.
O essendo privo
di questi, si ritirava in disparte, si toglieva la camicia e la faceva avere di nascosto
all’indigente, pregandolo di prenderla per amore di Dio.
Comperava utensili di cui
abbisognano le chiese, e segretamente li donava ai sacerdoti poveri (L3C 8).
Il cuore grande e generoso di Francesco si apriva, come dice questo passo, verso
tutti i mendicanti, ma anche a donare la carità ai sacerdoti poveri che stavano nelle
piccole chiese della campagna.
Al tempo di Francesco, anche la gerarchia della Chiesa
risentiva della struttura delle classi sociali dei ricchi e dei poveri. I vescovi, i monaci
nelle loro abbazie, i canonici nelle cattedrali, erano l’alto clero, con rendite fisse e
benefici che erano sempre il motivo di contese a non finire riguardo a terreni e proprietà.
Il clero incolto, ignorante, povero e senza rendite, doveva vivere alla meno peggio nelle
chiese povere della campagna, molte volte sprovviste del necessario, e cercare di
guadagnarsi da vivere in tutti i modi. La mancanza di formazione del clero era la ragione
di molti guai, come la simonia e il concubinaggio, che erano abbastanza comuni e si
vedevano pubblicamente nel caso dei poveri preti. Francesco, come dice nel Testamento,
aveva sempre una predilezione particolare per i poveri sacerdoti e per le loro povere
chiese.
Nel frattempo, Francesco decise di intraprendere un pellegrinaggio a Roma, per
visitare le tombe degli apostoli Pietro e Paolo. Nel medioevo era considerato un atto di
penitenza e di devozione il compiere pellegrinaggi a santuari famosi, tra cui le tombe
degli apostoli a Roma, il santuario dell’arcangelo San Michele sul Monte Gargano, il
santuario di San Giacomo di Compostella nella Galizia, la cattedrale di Canterbury, in
Inghilterra, dove si venerava San Tommaso Becket, arcivescovo e martire (1170) e, per i
più avventurosi e fortunati, la Terra Santa.
Sappiamo, per esempio, che Ortolana, la
mamma di Santa Chiara, per devozione si recò oltremare in pellegrinaggio e visitò quei luoghi eccezionali, che Dio fatto uomo ha santificato con le sue sacre orme, ritornandone
infine indietro nella gioia (Leggenda di Santa Chiara, 1).
Ecco allora che si capisce
come il giovane Francesco, in cerca di una identità spirituale più chiara, si reca a Roma
per compiere un atto di venerazione verso gli apostoli Pietro e Paolo. Ed fu proprio a
Roma, la città che doveva poi visitare più volte per andare dal Papa, che Francesco venne
in contatto di nuovo con i poveri.
Avvenne in quel torno di tempo che Francesco si recasse a Roma in
pellegrinaggio. Entrato nella basilica di San Pietro notò la spilorceria di alcuni
offerenti, e disse fra sé: “Il principe degli Apostoli deve essere onorato con splendidezza,
mentre questi taccagni non lasciano che offerte striminzite in questa basilica, dove riposa
il suo corpo”. E in uno scatto di fervore, mise mano alla borsa, la estrasse piena di
monete di argento che, gettate oltre la grata dell’altare, fecero un tintinnio così vivace,
da rendere attoniti tutti gli astanti per quella generosità così magnifica.
Uscito, si fermò davanti alle porte della basilica, dove stavano molti poveri a
mendicare, scambiò di nascosto i suoi vestiti con quelli di un accattone. E sulla
gradinata della chiesa, in mezzo agli altri mendichi, chiedeva l’elemosina in lingua
francese (L3C 10).
Francesco aveva fatto una nuova vittoria su sé stesso. Aveva sperimentato che
cosa significa esser povero e chiedere l’elemosina.
Forse il suo era un gesto eccentrico di
un giovane pieno di entusiasmo, ma era un gesto che non dimenticò mai più, tanto che molti anni più tardi, nella Regola non bollata del 1221, scrive ai suoi frati: "E devono
essere lieti, quando vivono tra persone di poco conto e disprezzate, tra poveri e deboli,
tra infermi e lebbrosi e tra i mendicanti lungo la strada" (cap. IX,2).
Il gesto di stare da povero con i mendicanti era certamente coraggioso, ma non
così incisivo da lasciare un forte cambiamento nel cuore di Francesco.
Invece, l’incontro
con il lebbroso, che avvenne probabilmente nell’autunno del 1205, lasciò un marchio nel
suo animo che non si cancellò mai più. Perfino, prima di morire nel 1226, quando dettò il
suo Testamento, disse ai frati queste parole:
"Il Signore dette a me, frate Francesco,
d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo
amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi
misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in
dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo".
Lasciamo ai Tre Compagni il racconto di quello che accadde nella pianura sotto
Assisi, vicino all’ospedale dei lebbrosi, chiamato San Lazzaro dell’Arce. Oggi non esiste
più nulla di questo posto, se non una piccola cappellina tra la Porziuncola e Rivotorto,
dedicata a Santa Maria Maddalena. Era uno dei vari posti di rifugio dei lebbrosi, di
coloro che erano il terrore di tutti, e che perciò dovevano restare isolati lontano dal
mondo civile.
Francesco, mentre un giorno cavalcava nei paraggi di Assisi, incontrò sulla
strada un lebbroso. Di questi infelici egli provava un invincibile ribrezzo; ma stavolta,
facendo violenza al proprio istinto, smontò da cavallo e offrì al lebbroso un denaro
baciandogli la mano. E ricevendone un bacio di pace, risalì a cavallo e seguitò il suo
cammino. Da quel giorno cominciò a svincolarsi dal proprio egoismo, fino al punto di
sapersi vincere perfettamente, con l’aiuto di Dio. Trascorsi pochi giorni, prese con sé molto denaro e si recò all’ospizio dei
lebbrosi; li riunì e distribuì a ciascuno l’elemosina, baciandogli la mano. Nel ritorno, il
contatto che dianzi gli riusciva repellente, quel vedere cioè e toccare dei lebbrosi, gli si
trasformò veramente in dolcezza.
Confidava lui stesso che guardare i lebbrosi gli era
talmente increscioso, che non solo si rifiutava di vederli, ma nemmeno sopportava di
avvicinarsi alle loro abitazioni. Capitandogli di transitare presso le loro dimore o di
vederne qualcuno, sebbene la compassione lo stimolasse a far l’elemosina per mezzo di
qualche altra persona, lui voltava però sempre la faccia dall’altra parte e si turava le
narici. Ma per grazia di Dio diventò compagno e amico dei lebbrosi così che, come
afferma nel suo Testamento, stava in mezzo a loro e li serviva umilmente (L3C 11).
San Bonaventura, nella LM I,6, dà una motivazione teologica all’amore che
Francesco ebbe per i lebbrosi: Mentre prima aborriva non solo la compagnia dei
lebbrosi, ma perfino il vederli da lontano, ora, a causa di Cristo crocifisso, che, secondo
le parole del profeta, ha assunto l’aspetto spregevole di un lebbroso (Is 53,3-4), li
serviva con umiltà e gentilezza. Il lebbroso diventa segno di Cristo Servo sofferente di
Jahvè, che sulla croce, pieno di lividure e percosse, guarisce l’umanità. L’amaro della
sofferenza diventò per Francesco una dolcezza nel suo cuore che non lo lasciò mai più.
Quel giorno Francesco cominciò a trovare Cristo, a convertirsi.
Il contatto con il lebbroso portava Francesco a cercare momenti intensi di
preghiera.
*
Francesco! Va' e ripara la mia Chiesa!
Le Fonti parlano di un fatto singolare nella vita del giovane Francesco,
quando con un suo amico e confidente, di cui non conosciamo il nome, Egli usciva
in campagna e si ritirava in una grotta. Il termine latino originale è crypta, e perciò si
deve pensare ad una cripta (forse quella di San Damiano, oppure quella romanica di San
Masseo, a poca distanza, che ancora esiste), dove sfogava la sua angoscia nella ricerca
del suo futuro. Anche la compagnia di un amico era importante in questo momento
delicato della vita di Francesco, e forse lo preparava all’esperienza molto più profonda
della vita con i fratelli che avrebbero seguito il suo cammino.
Queste visite ai lebbrosi accrebbero la sua bontà.
Conducendo un suo
compagno, che aveva molto amato, in località fuori mano, gli diceva di avere scoperto
un grande e prezioso tesoro. Quello ne fu tutto felice e volentieri si univa a Francesco
quando era invitato. Spesso lo conduceva in una grotta, presso Assisi, ci entrava da
solo, lasciando fuori l’amico, impaziente di impadronirsi del tesoro. Francesco, animato
da un nuovo straordinario spirito, pregava in segreto il Padre; però non confidava a
nessuno cosa faceva nella grotta. Dio solo lo sapeva, e a lui incessantemente chiedeva
come impadronirsi del tesoro celeste (L3C 12).
L’esperienza della grotta era molto importante nella psicologia del giovane
Francesco. Il buio dell’incertezza, dell’angoscia, della paura, lo teneva prigioniero di
brutti sogni e suggestioni che le fonti non esitano ad attribuire al diavolo. L’esempio più
noto è quello della donna contratta che Francesco conobbe ad Assisi, e che diventò per lui
un ossessione. Aveva paura di diventare deformato come lei, se continuava nella sua
ricerca di Dio. I peccati della sua giovinezza cominciarono a pesargli addosso, e non
poteva più trovare la luce per uscirne da quel buio. All’uscire dalla grotta, all’amico egli
appariva divenuto un altro uomo (L3C 12). Così parlano i Tre Compagni.
Forse
Tommaso da Celano è più realista: Si comprende perciò come, facendo ritorno al suo
compagno, fosse tanto spossato da apparire irriconoscibile (1C 6).
L’autunno del 1205 volse verso la fine. Francesco, sempre più solo e
angoscioso, passava le poche ore di luce del giorno girando qua e là per la campagna
intorno ad Assisi.
Non gli rimaneva più alcun gusto per le cose di prima e, peggio
ancora, non si sentiva più lo stesso.
Suo padre cominciò a impazientirsi, a brontolare con
la moglie che lei aveva coccolato troppo il figlio, fino a renderlo un buono a niente.
In
quei giorni Francesco aveva scoperto una piccola chiesa diroccata sotto le mura della
città. Era la chiesetta di San Damiano, dal 1103 proprietà del priore di San Rufino. Una
chiesa che si diceva costruita in tempi antichissimi da monaci siriani che avevano lasciato
lì un’immagine bizantina di Cristo crocifisso, con occhi grandi pieni di vita. Una icona di
Cristo glorioso sulla croce, con le figure tipiche della passione ai lati: la Vergine, San
Giovanni, Maria di Magdala, il centurione.
Ai piedi del crocifisso le teste di santi sulle
quali scende il sangue del Redentore, tra cui certamente è raffigurato San Damiano.
Sopra la testa di Cristo un medaglione dell’ascensione in cielo, con la mano benedicente
del Padre e il dito che simboleggia lo Spirito. Un crocifisso che doveva rimanere legato
per sempre all’avventura di Francesco di Assisi, e che tuttora si può ammirare in un
atteggiamento orante nella basilica di Santa Chiara in Assisi [ma da pochi mesi dopo il restauro in san Damiano sua culla antica].
Trascorsero pochi giorni. Mentre passava vicino alla chiesa di San Damiano, fu
ispirato a entrarvi. Andatoci, prese a fare orazione fervidamente davanti all’immagine
del Crocifisso, che gli parlò con commovente bontà: “Francesco, non vedi che la mia
casa sta crollando? Va dunque e restauramela” [Francesco! Va' e ripara la mia Chiesa!]. Tremante e stupefatto, il giovane
rispose: “Lo farò volentieri, Signore”.
Egli aveva però frainteso: pensava si trattasse di
quella chiesa che, per la sua antichità, minacciava prossima rovina. Per quelle parole
del Cristo egli si fece immensamente lieto e raggiante; sentì nell’anima ch’era stato
veramente il Crocifisso a rivolgergli il messaggio. Uscito dalla chiesa, trovò il sacerdote
seduto lì accanto, e mettendo mano alla borsa, gli offrì del denaro dicendo: “Messere, ti
prego di comprare l’olio per fare ardere una lampada dinanzi a quel Crocifisso. Finiti
questi soldi, te ne porterò degli altri, secondo il bisogno” (L3C 13).
I Tre Compagni continuano a spiegare lo slancio di Francesco nell'obbedire alla
voce che aveva intuito dal Crocifisso.
Gioioso per la visione e le parole del Crocifisso, Francesco si alzò, si fece il
segno della croce, poi, salito a cavallo, andò alla città di Foligno portando un pacco di
stoffe di diversi colori. Qui vendette cavallo e merce, e tornò subito a San Damiano.
Ritrovò qui il prete, che era molto povero, e dopo avergli baciato le mani con fede e
devozione, gli consegnò il denaro. Cominciò poi a raccontargli per ordine la sua vita. Il
prete, stupefatto, meravigliandosi per una conversione così improvvisa, ricusava di
credervi. E, temendo di essere preso in giro, non volle ricevere quei soldi. Francesco
insisteva, sforzandosi di dare credibilità al proprio racconto e supplicando il sacerdote
di lasciarlo abitare insieme con lui. Finalmente quello si arrese alla seconda richiesta,
ma, per timore dei parenti del giovane, non accettò il denaro. Allora Francesco, da
sincero disprezzatore della ricchezza, buttò sul davanzale d’una finestra quelle monete,
come non fossero che una manciata di polvere (L3C 16).
Francesco sapeva benissimo che questo suo atto eccentrico avrebbe attirato l’ira
di Pietro di Bernardone, suo padre, e forse aveva paura di andare a casa. Sta di fatto che,
stando alle parole di 1C 9, Francesco ... lo prega di accoglierlo con lui a servire il
Signore. È un’espressione che designa uno stato di vita penitenziale comune nel
medioevo, quello degli oblati mortui mundo (morti al mondo), persone che si consacravano al servizio di una chiesa come atto di penitenza.
Compiendo questo atto, Francesco inizia un nuovo
stato di vita, cioè, quella di un penitente laico, che verrà riconosciuta, tuttavia, soltanto
quando suo padre insiste di trascinarlo in tribunale davanti ai consoli di Assisi.
L’inverno del 1206 era un inverno rigido, stando ai documenti antichi. Una
grande neve cadde nei dintorni di Assisi. Francesco aveva avuto il permesso del prete di
San Damiano per rimanere in quel luogo appartato. Lui aveva paura che suo padre
certamente lo cercasse, per riavere i suoi soldi, e così decise di nascondersi.
Mentre prolungava il soggiorno in quel luogo, suo padre, preoccupato, andava
cercando dove mai fosse finito il figlio. Venne così a sapere che, completamente
trasformato, abitava presso San Damiano. L’uomo ne fu profondamente addolorato e,
sconvolto da quell’incredibile voltafaccia del figlio, chiamò amici e vicini e in tutta furia
si precipitò a San Damiano. Francesco, divenuto ormai cavaliere di Cristo, com’ebbe
appreso che i suoi lo minacciavano, presentendone l’irruzione, per shivare la violenta ira
paterna, andò a rifugiarsi in una caverna segreta, che aveva appositamente preparato, e
vi restò nascosto un mese intero. La caverna era conosciuta da un solo membro della
sua famiglia. Costui portava di quando in quando al sequestrato volontario del cibo, che
consumava senza farsi vedere. E pregava con abbondanti lacrime che il Signore lo
liberasse da quella persecuzione e amorevolmente lo aiutasse a realizzare le sue
aspirazioni (L3C 16).
In questo buco nascosto (occulta fovea) Francesco di nuovo cercò la luce per la
sua vita. Nel freddo invernale, durante le giornate corte e nebbiose, in cui un vento
gelido scendeva su Assisi dal monte Subasio, Francesco supplicava il Signore con
lacrime, tutto impaurito perché poteva immaginare la rabbia di suo padre.
Fu un mese di
ritiro, fatto di solitudine e preghiera incessante, che dava a Francesco il coraggio di
affrontare suo padre, e non soltanto suo padre, ma tutta intera Assisi.
Finché un giorno, infuocato di entusiasmo, lasciò la caverna e si mise in
cammino verso Assisi, vivace, lesto e gaio. Armato di fiducia in Cristo e acceso di amore
celeste, rinfacciava a se stesso la codardia e la vana trepidazione, e con audacia decise
di esporsi alle mani e ai colpi dei persecutori. Al primo vederlo, quelli che lo
conoscevano come era prima, presero a insultarlo, gridando che era un pazzo e un
insensato, gettandogli fango e sassi. Vedendolo così mutato, sfinito dalle penitenze,
attribuivano ad esaurimento e demenza il suo cambiamento. Ma il cavaliere di Cristo
passava in mezzo a quella tempesta senza farci caso, non lasciandosi colpire e agitare
dalle ingiurie, rendendo invece grazie a Dio.
Si diffuse per le piazze e le vie della città la
notizia di quanto succedeva, finché venne agli orecchi del padre. Sentito come lo
maltrattavano, egli uscì immediatamente a prenderlo, con l’intenzione non di liberarlo,
ma di finirla. Fuori di sé, gli si avventò contro come un lupo sulla pecora e, fissandolo
con occhio torvo e con la faccia contratta dal furore, lo afferrò e lo trascinò fino a casa.
Qui lo rinchiuse in un bugigattolo oscuro per più giorni, facendo di tutto, a parole e a
botte, per ricondurlo alla vanità mondana (L3C 17).
Francesco dovette stare agli arresti domiciliari, fino a quando suo padre andò via
da casa per affari di negozio. E qui entra la dolce figura di donna Pica, la mamma di Francesco.
Questa, non approvando il modo di fare del marito, rivolgeva al figlio discorsi affettuosi,
senza però riuscire a stornarlo dai suoi propositi. Vinta dall’amore materno, un giorno ella ruppe le catene e gli permise di andar via libero (L3C 18). Francesco tornò pieno di gioia dal prete di San Damiano, ed era persuaso che nessuno lo avrebbe mai più convinto
di lasciare la vita di penitente oblato in quella piccola chiesa.
Possiamo immaginare la furia di Pietro di Bernardone, quando ritornò e non trovò
più Francesco in casa. Se la prese con la moglie, con discorsi abusivi, ma ormai
Francesco era scappato. Lui si sentiva ferito doppiamente; c’era in mezzo la buona fama
della famiglia Bernardone, che Francesco aveva esposto al ridicolo di tutti in Assisi, e
c’erano i soldi che Francesco aveva rubato da casa, vendendo senza permesso i panni
pregiati e il cavallo.
Pietro di Bernardone non ne poteva più. Decise in cuor suo di
applicare la legge civile che sanciva l’esilio e l’esclusione dalla eredità familiare di quel
figlio che avesse agito da ribelle contro l’autorità paterna. Siccome Pietro non poteva
prendere la legge in mano, fece ricorso ai consoli della città, suoi amici.
Pietro andò di corsa al palazzo del comune a protestare contro il figlio davanti ai
consoli, chiedendo il loro intervento per obbligare Francesco a restituire il denaro preso
in casa.
I consoli, vedendolo così sottosopra, per mezzo di un araldo inviarono al
giovane un mandato di comparizione. Ma lui rispose all’araldo di essere libero, per
grazia di Dio, e di non essere più sotto la giurisdizione dei consoli, dal momento ch’era
servo del solo Dio altissimo. Non volendo ricorrere alla violenza, i consoli dissero a
Pietro: “Dato che tuo figlio si è consacrato al servizio di Dio, non è più sotto la nostra
giurisdizione” (L3C 19)
Di fatto, Francesco sapeva benissimo che lui era un oblato a servizio della Chiesa,
e che poteva usufruire del privilegio di cadere direttamente sotto la giurisdizione del
vescovo di Assisi. Anche i consoli sapevano questo, e certamente non volevano entrare
in una lite con il duro carattere del vescovo Guido, che rivendicava i diritti della Chiesa
con tutti i mezzi di cui disponeva.
Constatando che il suo ricorso ai consoli si concludeva in un nulla, egli andò a
sporgere querela davanti dal vescovo della città.
Questi, da persona discreta e saggia,
chiamò Francesco con i modi dovuti, affinché venisse a rispondere alla querela del
genitore. Il giovane rispose al messaggero: “Da messer vescovo ci vengo, poiché egli è
padre e signore delle anime” (L3C 19).
L’inverno si volgeva ormai a termine, e già si vedevano i primi segni della
primavera del 1206. Francesco va all’ora stabilita all’episcopio, accanto alla antica
cattedrale di Santa Maria Maggiore. Erano là Pietro di Bernardone e molti altri cittadini di
Assisi.
Il vescovo Guido si presentò e sedette in tribunale. A Francesco rivolse queste
parole: “Tuo padre è arrabbiato con te e molto alterato per causa tua. Se vuoi essere
servo di Dio, restituiscigli i soldi che hai; oltretutto è ricchezza forse di mal acquisto, e
Dio non vuole che tu spenda a beneficio della Chiesa i guadagni del padre tuo. La sua
collera sbollirà, se recupera il denaro. Abbi fiducia nel Signore, figlio mio, e agisci con
coraggio. Non temere, poiché l’Altissimo sarà tuo soccorritore, e ti elargirà in
abbondanza quanto sarà necessario per la sua Chiesa” (L3C 19).
Francesco vide davanti alla sua mente una luce sfolgorante. In quelle parole del
vescovo capiva quello che doveva fare. Il lungo e rigido inverno del buio della caverna
cedeva il posto alla gioia della primavera di una vita nuova, di un nuovo inizio.
L’uomo di Dio si alzò, lieto e confortato dalle parole del vescovo, e traendo fuori
i soldi, disse: “Messere, non soltanto il denaro ricavato vendendo la sua roba, ma gli
restituirò di tutto cuore anche i vestiti”. Entrò in una camera, si spogliò completamente,
depose sui vestiti il gruzzolo, e uscendo nudo alla presenza del vescovo, del padre e degli astanti, disse: “Ascoltate tutti e cercate di capirmi. Finora ho chiamato Pietro di
Bernardone padre mio. Ma dal momento che ho deciso di servire Dio, gli rendo il
denaro che tanto lo tormenta e tutti gli indumenti avuti da lui. D’ora in poi voglio dire:
‘Padre nostro, che sei nei cieli’, non più ‘padre mio Pietro di Bernardone’” (L3C 20).
Ormai la scelta era fatta. Francesco era diventato un uomo nuovo. I Tre
Compagni dicono che gli astanti potevano vedere sulla nuda carne un cilicio, segno di
penitenza. Pietro di Bernardone prese i vestiti e i soldi e andò via confuso e umiliato.
Guido prese Francesco sotto il suo mantello. Francesco adesso si sentiva convertito.
Aveva vinto il buio e l’incertezza.
Tommaso da Celano riassume bene il senso teologico
dello spogliamento di Francesco: Il nostro atleta ormai si lancia nudo nella lotta contro il
nemico nudo ... Si addestra così al disprezzo della propria vita, abbandonando ogni cura
di se stesso, affinché sia compagna della sua povertà la pace ... e solo il velo della carne
lo separi ormai dalla visione di Dio (1C 15).
Noel Muscat ofm
"Cumque lacrymosis oculis intenderet in dominicam crucem, vocem de ipsa cruce dilapsam (cfr. 1Pet
1,17) ad eum corporeis audivit auribus; ter dicentem:”Francisce, vade et repara domum meam, quae, ut
cernis, tota destruitur!”. " (s. Bonaventura)
AMDG et BVM
et Seraphici Patris Nostri Sancti Francisci
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