domenica 29 marzo 2015

584. Il sabato avanti l’entrata in Gerusalemme.



584. Il sabato avanti l’entrata in Gerusalemme. Parabola dei due lumi e parabola vivente del piccolo deforme risanato. Il dolore nel futuro dell’Umanità. 

 Il tempo, ristabilito dopo le piogge dei giorni passati, mostra un cielo tersissimo e un fulgido sole. La terra, mondata dalle piogge, è tersa come l’atmosfera. Sembra creata da poche ore, tanto è fresca e monda. Tutto splende e tutto canta nel mattino sereno. Gesù passeggia lentamente lungo i sentieri più remoti del giardino. Solo qualche servo giardiniere osserva questa solitaria passeggiata nelle prime ore del mattino. Ma nessuno disturba il Maestro. Anzi si ritirano silenziosamente per lasciarlo in pace. Del resto è sabato, giorno di riposo, e i servi giardinieri non sono al lavoro. 

Ma, per consuetudine lunga quanto la loro vita, sono fuori, ad osservare le piante, gli alveari, i fiori per i quali non c’è il sabato e che odorano, frusciano e ronzano al sole e al venticello d’aprile. Poi il giardino si anima lentamente. Prima i servi di casa e le ancelle, poi gli apostoli e le discepole, ultimo Lazzaro. Gesù li raggiunge salutandoli col suo saluto. 

«Da quando sei qui, Maestro?», chiede Lazzaro scuotendo dalle ciocche dei capelli di Gesù delle gocce di rugiada. 
«Dall’aurora. Mi hanno chiamato a lodare Iddio i tuoi uccelli. E sono venuto qui fuori. Contemplare Dio nelle bellezze del creato è onorarlo e pregare con commosso spirito. È bella la Terra. E in queste prime ore del giorno, in un giorno pari a questo, ci appare fresca come lo era nei primi dì del suo vivere». 
«Proprio tempo di Pasqua. E si è aggiustato. Durerà perché si è aggiustato alla prima epoca lunare con vento propizio», sentenzia Pietro. 
«Ne sono ben lieto. La Pasqua con l’acqua è triste». 
«Più ancora, è dannosa alle messi. Richiede sole il grano, ora che si avvia alla mietitura», dice Bartolomeo. 
«Io sono felice di essere qui in pace. Oggi è sabato e non verrà nessuno. Nessun estraneo fra noi», dice Andrea. 

«Ti sbagli. C’è un ospite, un piccolo ospite. Dorme ancora, Maestro. Il letto morbido e lo stomaco sazio gli danno lungo sonno. Sono passato a vederlo. Noemi lo veglia», dice Lazzaro. «Ma chi è? Quando è venuto? Chi lo ha portato? Perché tu parli come fosse un fanciullo», chiedono uomini e donne. «È un fanciullo. Un povero fanciullo. Lo ha portato qui il suo dolore. Era là, contro le sbarre del cancello a guardare verso la casa. E il Maestro lo ha accolto». «Non si sapeva nulla... Perché?». «Perché la creatura aveva bisogno di pace», risponde Gesù e il suo viso si assorbe in un pensiero profondo mentre termina: «E in casa di Lazzaro si sa tacere». Un servo viene a dire qualcosa a Marta e poi si ritira per tornare con altri che portano vassoi con anfore di latte e tazze, e pane con burro e miele. Si servono tutti, sedendo qua e là sugli sparsi sedili. Ma poi vogliono riunirsi di nuovo intorno al Maestro e chiedono una parabola, «una bella parabola», dicono, «serena come questo giorno di nisam». 

«Non una, ma due ve ne darò. 
Udite. Un uomo volle un giorno accendere due lumi per onorare il Signore in una sua festa. Prese dunque due vasi di uguale larghezza, vi mise la stessa quantità e qualità d’olio, uno stoppino uguale, e li accese alla stessa ora, perché pregassero per lui mentre egli lavorava come era concesso. Tornò dopo qualche tempo e vide che un lume fiammeggiava fortemente, mentre l’altro aveva una fiammolina quieta quieta, che appena metteva un punto di luce nell’angolo dove ardevano i lumi. L’uomo pensò che fosse malfatto lo stoppino. Lo osservò. No, andava bene. Ma non voleva ardere così giocondamente come l’altro lume, che vibrava la sua fiamma come fosse una lingua e pareva proprio mormorasse parole tanto era gioconda e tanto, nell’agitarsi divampando, aveva persino un lieve mormorio. “Questo lume veramente canta le lodi del Signore altissimo!”, disse fra sé. “Mentre questo! Guardalo anima mia! Sembra che gli pesi dover onorare il Signore, tanto lo fa con poco ardore!”, e se ne tornò ai suoi lavori. 
Tornò dopo qualche tempo. Una fiamma si era ancor più alzata e l’altra si era ancor più abbassata, e ardeva sempre più ferma e quieta quanto più l’altra vibrava splendendo. 
Tornò una seconda volta. La stessa cosa. 
Una terza, la stessa cosa. Ma, venendo la quarta volta, vide la stanza piena di fumo maleolente e scuro, e una sola fiammolina splendere attraverso i veli del fumo spesso. Andò alla mensola dove erano i lumi e vide che quello che tanto fiammeggiava prima si era totalmente consumato e annerito, e aveva anche sporcato, con la sua lingua, la parete bianca. L’altro, invece, continuava con la sua costante luce ad onorare il Signore. 

Stava per riparare all’accaduto quando una voce gli risuonò vicino: “Non mutare le cose di come stanno. Ma medita su esse che sono un simbolo. Io sono il Signore”. L’uomo si gettò col volto al suolo adorando, e con grande tremore osò dire: “Io sono stolto. Spiegami, o Sapienza, il simbolo dei lumi, dei quali quello che pareva il più attivo nell’onorarti ha fatto danno e l’altro dura nella sua luce”. 
“Sì che lo farò. Così è dei cuori degli uomini come di questi due lumi. Vi sono quelli che al principio ardono e splendono e sono di ammirazione agli uomini, tanto sembra perfetta e costante la loro fiamma. E vi sono quelli che hanno uno splendere mite, che non attira l’attenzione e può parere tiepidezza nell’onorare il Signore. Ma, passata la prima fiammata (è detto dei primi, quelli cioè che sono di ammirazione agli uomini e fanno danno), o la seconda o la terza, fra la terza e la quarta fanno danno, e poi si spengono, con rovina, perché il loro non era un lume sicuro. Hanno voluto splendere più per gli uomini che per il Signore, e la superbia li ha consumati in breve ora, fra un fumo nero e pesante che ha ottenebrato anche l’aria. Gli altri hanno avuto una volontà unica e costante: onorare Dio solo; e, senza curarsi se l’uomo li lodava, hanno consumato se stessi con lunga, nitida fiamma, priva di fumo e fetore. Sappi imitare il lume costante, perché esso solo è gradito al Signore”. 

L’uomo rialzò il capo... L’aria si era mondata dal fumo e la stella del lume fedele splendeva ora da sola, pura, ferma, in onore di Dio, facendo lucere il metallo del lume come fosse d’oro puro. E lo guardò splendere, sempre uguale, per ore e ore, sinché dolcemente, senza fumo o fetore, senza sporcare la sua veste, la fiamma si esalò in un guizzo, parendo salire al cielo a fissarsi fra le stelle, avendo degnamente onorato il Signore sino all’ultimo umore e all’ultimo stame della sua vita. 

In verità, in verità vi dico che molti sono coloro che dànno grande fiamma all’inizio e attirano l’ammirazione del mondo, che non vede che la superficie delle azioni umane, ma poscia periscono carbonizzandosi e affumicando dei loro acri fumi. E in verità vi dico che il loro fiammeggiare non è osservato da Dio, perché Egli vede che è orgoglioso ardere per fine umano. Beati quelli che sanno imitare il secondo lume e non carbonizzarsi, ma salire al Cielo con l’ultimo palpito del loro costante amore». 
«Che parabola strana! Ma vera! Bella! Mi piace! Io vorrei sapere se noi siamo i lumi che salgono al Cielo». Gli apostoli si scambiano le loro espressioni. 
Giuda trova modo di mordere. E il suo morso va a Maria di Magdala e Giovanni di Zebedeo: «Attenta Maria e tu, Giovanni. Voi siete i fiammeggianti lumi fra noi... Che non vi avvenga male!». Maria di Magdala sta per rispondere, ma si morde le labbra per non dire le parole che le erano salite dal cuore. Guarda Giuda. Si limita a guardarlo. Ma quello sguardo è così ardente che Giuda cessa di ridere e di fissarla. 
Giovanni, mite di cuore sebbene ardente di carità, risponde dolcemente: «E per la mia capacità ciò potrebbe avvenire. Ma io confido nell’aiuto del Signore e spero di potermi consumare sino all’ultima stilla e all’ultimo stame per onorare il Signore Dio nostro». 
«E l’altra parabola? Ne hai promesse due», ricorda Giacomo di Alfeo. 

«Eccola, la mia seconda parabola. Sta per venire...», e accenna la porta della casa, velata dalla tenda che si smuove lentamente al vento e che poi si scosta, spostata dalla mano di un servo per dare il passo alla vecchia Noemi, che si precipita ai piedi di Gesù dicendo: «Ma il fanciullo è sano! Non è più deforme! Tu lo hai guarito nella notte. Si era svegliato e io preparavo il bagno per lavarlo prima di mettergli la tunica e la veste, che avevo cucita nella notte prendendo una veste smessa da Lazzaro. Ma quando gli ho detto: “Vieni, fanciullo” e ho scostate le coperte, ho visto che il suo piccolo corpo, così storto ieri, non era più tale. E ho gridato. Sono accorse Sara e Marcella, che neppure sapevano del fanciullo dormente nel mio letto, e le ho lasciate là per correre a dirti...». La curiosità prende tutti. Domande, ansia di vedere. 

Gesù placa il brusio con un gesto. Ordina a Noemi: «Torna dal fanciullo. Lavalo, vestilo e conducimelo qui». E poi si volge ai suoi discepoli: «Ecco la seconda parabola, e può essere detta: “La vera giustizia non fa vendette e distinzioni”. Un uomo, anzi, l’Uomo, il Figlio dell’uomo, ha nemici e amici. 
Pochi amici, molti nemici. E nemici dei quali non ignora l’odio, né i pensieri, e dei quali conosce la volontà, che non fletterà davanti a nessuna azione, per orrenda che sia. In questo più forti dei suoi amici, nei quali lo sgomento o la delusione o un’eccessiva fiducia fanno da arieti sgretolatori della loro fortezza. 
Questo Figlio dell’uomo dai molti nemici, e al quale si rimproverano tante cose non vere, incontrò ieri un povero fanciullo, il più desolato dei fanciulli, figlio di uno che gli è nemico. E il fanciullo era deforme e storpio, e chiedeva una grazia strana, quella di morire. Tutti chiedono onori e gioie al Figlio dell’uomo, chiedono salute, chiedono vita. Questo povero bambino chiedeva di morire per non soffrire più. Ha già conosciuto tutto il dolore della carne e del cuore, perché colui che lo ha generato, e che mi odia senza ragione, odia pure l’innocente infelice che ha generato. E Io l’ho guarito perché non soffra più, perché oltre che la salute fisica possa raggiungere la salute spirituale. Anche la sua piccola anima è malata. L’odio del padre e lo scherno degli uomini gliel’hanno piagata e fatta spoglia d’amore. Solo gli è rimasta la fede nel Cielo e nel Figlio dell’uomo, al quale, anzi, ai quali chiede di morire. Eccolo. Ora lo sentirete parlare». 
Il fanciullo, ravviato e pulito nella vesticciuola di lana bianca che Noemi gli ha cucito svelta nella notte, viene avanti per mano della vecchia nutrice. È piccolo, per quanto, non essendo più curvato e sciancato, sembri già più alto di ieri. Ha il visetto irregolare e un poco vizzo di creatura che il dolore ha fatto precocemente adulto. Ma non è più deforme. I piedini scalzi calpestano sicuri il suolo, con un passo che non ha più quel claudicare degli sciancati, e le spalle magre sono ben diritte nella loro magrezza. Il collo esile le sovrasta e sembra lungo rispetto a ieri, quando gli sprofondava fra le clavicole asimmetriche. 

«Ma... ma questo è il figlio di Anna di Nahum! Che miracolo sciupato! Credi con questo di renderti amico suo padre Nahum? Più astiosi li farai! Perché essi si auguravano soltanto la morte di questo fanciullo, frutto di un infelice matrimonio», esclama Giuda di Keriot. 
«Non opero miracoli per farmi degli amici, ma per pietà delle creature e per dare onore al Padre mio. Non faccio distinzione e calcolo, mai, quando mi curvo pietoso su una miseria umana. Non mi vendico di chi mi perseguita...». 
«Nahum prenderà questo tuo atto per una vendetta». 
«Io non sapevo neppure di questo fanciullo. Ne ignoro ancora il nome». 
«Matusala, o Matusalem, è detto per spregio». (Forse perché la sua deformità richiamava alla mente la vecchiezza, divenuta proverbiale in Matusalem: Genesi 5, 27). 
«La mamma mi chiamava Scialem. Mi amava la mamma. Non era cattiva come tu sei e come sono quelli che mi odiano», dice il bambino con una luce negli occhi, la luce di impotente ira che hanno uomini e animali troppo a lungo seviziati. 

«Vieni qui, Salem. Qui con Me. Sei contento di essere sano?». 
«Sì... ma preferivo morire. Non sarò amato lo stesso. Se c’era ancora la mamma sarebbe stato bello. Ma così!... Sarò sempre infelice». 
«Ha ragione. Ieri incontrammo questo bambino. Ci chiese se Tu eri a Betania, da Lazzaro. Volevamo dargli un obolo perché lo credemmo un mendico. Ma non lo volle. Era al limitare di un campo...», dice lo Zelote. 
«Neppur tu lo conoscevi? È strano», dice Giuda di Keriot. 
«Più strano è che tu sappia tanto bene queste cose. Ti dimentichi che sono stato fra i perseguitati e poi fra i lebbrosi, sinché non venni col Maestro?». 
«E tu dimentichi che sono amico di Nahum, che è il fiduciario di Anna? Non ve l’ho mai nascosto». «Bene! Bene! Questo non ha importanza. Importanza ha sapere che ne facciamo adesso di questo fanciullo. Suo padre non lo ama, è vero. Ma ha sempre dei diritti su di lui. Non possiamo levargli il figlio, così, senza dirglielo. Bisogna essere cauti e non urtarli, giacché sembrano migliori verso di noi», dice Natanaele. 
Giuda ride forte, sarcastico, né dà spiegazione del suo ridere. 
Gesù, che si è messo fra i ginocchi il bambino, dice lentamente: «Affronterò Nahum... Non sarò odiato di più per questo. Non può crescere il suo odio. Non può. È già completo». 

Annalia, che non ha mai parlato, tutta assorta in un suo pensiero che la fa beata, apre la bocca per dire: «Se fossi rimasta, mi sarebbe piaciuto prenderlo con me. Sono giovane, ma ho cuore di madre...». 
«Vai via? Quando?», chiedono le donne. «Presto». «Per sempre? E dove vai? Fuor di Giudea?». 
«Sì. Lontano. Molto lontano. Per sempre. E sono tanto felice». 
«Quello che tu non puoi fare, altre potranno, se il padre lo cede». 
«Lo dirò io a Nahum, se ci tenete. È lui che conta. Più del padre vero. Domani lo dirò», promette Giuda di Keriot. 
«Se non era sabato... andavo da quel Giosia che lo aveva in consegna», dice Andrea. 
«Per vedere se sono afflitti di averlo perduto?», chiede Matteo. 
«Credo che, se si smarrisse una delle loro api, avrebbero più affanno...», brontola fra i denti Massimino che si è avvicinato da qualche tempo. 
Il fanciullo non parla. Sta stretto a Gesù, studiando i volti che ha dintorno con quell’acutezza di sguardi che hanno sovente le creature malaticce e vissute nel dolore. Sembra che scruti gli animi più che i volti e, quando Pietro gli chiede: «Che ti pare di noi?», il bambino risponde, mettendogli la mano nella mano, dicendo: «Tu sei buono», poi corregge: «Tutti buoni. Ma... vorrei non essere stato riconosciuto. Ho paura...», e guarda Giuda di Keriot. «Di me, non è vero? Che io parli a tuo padre? Certo che lo dovrò fare, se devo chiedergli se ti lascia a noi. Ma non ti leverà!». «Lo so. Ma è un’altra cosa... Vorrei essere lontano, lontano, come va quella donna... Nel paese di mia madre. C’è un mare azzurro in mezzo ai monti tutti verdi. Lo si vede giù in basso, con tante vele bianche che gli volano sopra e belle città intorno. E sui monti ci sono tante grotte dove le api selvatiche fanno il miele dolce dolce. Non ho più mangiato miele da quando è morta la mamma e sono stato dato a Giosia. Filippo, Giuseppe, Elisa e gli altri bambini, loro sì che lo mangiavano. Ma io no. Se avessero tenuto il vaso del miele in basso lo avrei rubato, tanto ne avevo voglia. Ma lo tenevano sulle assi alte, e io non potevo salire sui tavoli come faceva Filippo. Ho tanta voglia di miele io!». «Oh! povero figlio! Te ne vado a prendere quanto vuoi!», dice Marta commossa e se ne corre via lesta. 

«Ma di dove era sua madre?», chiede Pietro. 
«Aveva case e possessi presso Sefet. Unica figlia orfana e erede, vecchia già, brutta e lievemente sciancata. Ma ricca tanto. Pronubo il vecchio Sadoc, il figlio del beneamato di Anna la ottenne in moglie... Un contratto che fu un vero mercato indegno, tutto calcolo, nulla amore. Venduto l’avere della donna dicendolo troppo lontano da qui, meno una casetta che prima era del fattore e che lo stesso aveva avuta in dono dal vecchio padrone per tutta la vita sua e dei suoi eredi sino alla quarta generazione, consumò tutto in speculazioni sfortunate. Però… io non ci credo. Perché so che ha belle terre verso la sponda… che prima non aveva... Poi, dopo qualche anno di matrimonio, la donna essendo già al limitare del suo declino, nacque questo figlio... e fu pretesto per cacciare la donna e prenderne un’altra della pianura di Saron, giovane, bella e ricca... La divorziata si rifugiò presso il vecchio fattore e vi morì. Non so perché non tennero questo fanciullo. Il padre lo calcolava morto», spiega l’Iscariota. 
«Perché Giovanni era morto e morta Maria, e i figli andarono servi altrove. E chi mi doveva tenere, se figlio non ero e non ero buono al lavoro? Erano buoni, però, Micael e Isacco, e buona Ester e Giuditta. E sono buoni. Quando vengono per le feste mi portano roba, ma Giosia me la leva per i suoi figli». 
«Però non ti vogliono», gli ribatte Giuda. 
«Ora che sono diritto e forte mi vorranno. Sono servi loro! Non potevano, l’ho detto, dire al padrone: “Prendi questo storpio malato”. Ma ora possono». 
«Ma se tu sei fuggito da Giosia, come ti possono trovare?», lo fa riflettere Bartolomeo. 
Il bambino è colpito dalla giusta osservazione e riflette, perché l’infermità lo ha fatto precocemente riflessivo nel pensiero come precocemente adulto nel volto, e dice sconfortato: «È vero! Non ci avevo pensato». 
«Torna là. In questi giorni verranno...». 
«Là? No. Non torno là. Non voglio tornare là. Piuttosto mi uccido!». È selvaggio nella sua furia che lo stravolge, ma poi si rovescia in pianto sui ginocchi di Gesù dicendo: «Perché non mi hai fatto morire?». 
Marta, che sta tornando con un vaso di miele, resta stupita di quella desolazione, e Bartolomeo è afflitto di averla provocata e si scusa: «Credevo di dare un buon consiglio. Buono per tutti. Per il fanciullo, per Te, Maestro, per Lazzaro... Nessuno di voi, e di noi, ha bisogno di nuovo odio...». 

«È vero! Un vero guaio!», esclama Pietro e meditando sul caso ne tira interne conclusioni, che conclude con la sua caratteristica fischiatina, che è l’esponente per lui del suo stato d’animo davanti a problemi difficili, gravi a risolvere. Chi propone questo, chi quello. Andare da Nahum. Andare da Giosia e dirgli di mandare questi Micael e Isacco da Lazzaro, o altrove, dove sarà il fanciullo, perché è prudente non fare odiare Lazzaro più di quanto già non sia per la sua amicizia con Gesù. Non dire nulla a nessuno e far sparire il fanciullo, dandolo a qualche discepolo sicuro. 
Giuda di Keriot non parla. Sembra anzi estraneo alla discussione. Giocherella coi fiocchi della sua veste, pettinandoli e spettinandoli con le dita. Anche Gesù non parla. Carezza e calma il fanciullo e gli rialza il viso, mettendogli nelle mani il vasetto di miele. Scialem è un bambino, un povero bambino decenne che ha sempre sofferto, ma è sempre un bambino, anche se il dolore lo ha maturato, e davanti a tanto tesoro di miele cambia le ultime lacrime in uno stupore estatico. 
Chiede, alzando gli occhi, l’unica sua bellezza, così castani, grandi, intelligenti, e fissando Gesù e Marta alternativamente, chiede: «Quanto ne posso prendere? Uno di questi mestoli o due?», e accenna al tondo cucchiaio d’argento che sprofonda lentamente nel biondo miele. 
«Quanto ne vuoi, fanciullo. Quanto ti piace. Il resto te lo prenderai domani, e dopo. È tutto tuo!», dice Marta accarezzandolo. 
«Tutto mio!!! Oh! Non ho mai avuto tanto miele, io!! Tutto mio! Oh!». E si stringe con riverenza il vaso al petto come fosse un tesoro. Ma poi sente che, più che il vaso, è prezioso l’amore che glielo dona e depone il vasetto sulle ginocchia di Gesù, alzando poi le braccia per voler allacciare il collo di Marta curva su lui e baciarla. È tutto quello che può la sua riconoscenza, tutto quanto può dare, egli, il derelitto che non ha nulla da dare. Gli altri sospendono di far piani per osservare la scena. 
Pietro dice: «Questo è ancora più infelice di Marziam, che aveva almeno l’amore del nonno e degli altri contadini! È proprio vero che ci sono sempre dei dolori più grandi di quelli che abbiamo giudicato grandissimi!». 
«Sì. L’abisso del dolore umano non ha avuto ancora scandagliato il suo fondo. Chissà quanti segreti cela ancora... E che celerà per i secoli futuri?», dice Bartolomeo pensieroso. 
«Tu non hai fede nella Buona Novella, allora? Tu non credi che essa muterà il mondo? È detto dai profeti. E il Maestro lo ripete. Tu sei un incredulo, Bartolmai», dice l’Iscariota con lieve ironia. 
Lo Zelote gli risponde: «Non vedo in che sia l’incredulità di Bartolomeo. La dottrina del Maestro darà conforti a tutte le sventure, modificherà anche la ferocia degli usi e costumi, ma non eliminerà il dolore. Lo renderà sopportabile con le sue divine promesse di gioie future. Per essere abolito il dolore, o quanto meno molta parte di dolore, perché sempre resterebbero le malattie e le morti e i cataclismi naturali, necessiterebbe che tutti avessero il cuore che ha il Cristo, ma...». 

Lo interrompe l’Iscariota: «Così infatti deve avvenire. Altrimenti che sarebbe giovato che il Messia venisse sulla Terra?». 
«Così dovrebbe avvenire, diciamo. Ma dimmi, o Giuda, è forse questo avvenuto fra noi? Siamo dodici e da tre anni viviamo con Lui, assorbiamo la sua dottrina come l’aria che respiriamo. Ebbene? Siamo tutti santi, noi dodici? Che facciamo di diverso da quello che fa Lazzaro, da quello che fanno Stefano, Nicolai, Isacco, Mannaen, e Giuseppe e Nicodemo, e le donne, e i fanciulli? Parlo dei giusti di questa nostra Patria. Tutti questi, sia che siano sapienti e ricchi, o poveri e ignoranti, fanno ciò che noi facciamo: un po’ bene, un po’ male, ma senza rinnovarsi totalmente. Anzi ti dico che molti, molti ci superano. Sì. Molti seguaci superano noi, apostoli... E pretenderesti che tutto il mondo prenda il cuore che ha il Cristo, se noi, noi gli apostoli, non lo abbiamo preso? Siamo più o meno migliorati... almeno speriamo che ciò sia, perché difficilmente l’uomo si conosce e conosce il fratello che vive al suo fianco. È troppo opaco e spesso il velo della carne, e troppo attento il pensiero dell’uomo a non esser penetrato, perché l’uomo capisca l’uomo. Sempre, osservandosi oppure osservando, si resta alla superficie. Quando è per esame nostro, perché non ci vogliamo conoscere per non soffrire nell’orgoglio o della necessità di modificarsi. Quando è esame d’altri, perché il nostro orgoglio di esaminatori ci fa giudici ingiusti e l’orgoglio dell’esaminato si serra, come un’ostrica fa con le sue valve, su quanto ha nel suo interno», dice lo Zelote. 
«Ben detto! Simone, tu veramente hai detto parole di sapienza!», approva Giuda Taddeo. E gli altri gli fanno coro. 
«E allora a che è venuto, se nulla deve mutare?», ribatte l’Iscariota. 

Gesù prende la parola: «Molto si muterà. Non tutto. Perché contro la mia Dottrina sarà in futuro ciò che già è in atto: l’odio di coloro che non amano la Luce. Perché contro la forza dei miei seguaci sarà quella dei seguaci di Satana. Quanti! Di quanti aspetti! Alla mia immutabile, perché perfetta, Dottrina, quante dottrine di eresie sempre nuove saranno opposte! Quanto dolore germinerà da esse! Voi non conoscete il futuro. A voi sembra molto il dolore che è ora nel mondo... Ma Colui che sa, vede orrori che non sarebbero neppure compresi se ve li spiegassi... Guai se non fossi venuto! Venuto per dare ai futuri un codice, che frena gli istinti nei migliori, e una promessa di pace futura! Guai se l’uomo non avesse, per la mia venuta, degli elementi spirituali atti a tenerlo “vivo” nella vita dello spirito, a tenerlo sicuro di un premio!... Se non fossi venuto, con l’andare dei secoli la Terra sarebbe divenuta un vasto inferno terrestre, e la razza umana si sarebbe sbranata e sarebbe perita maledicendo il Creatore...». 

«L’Altissimo ha promesso di non mandare più castighi universali come il diluvio. (Genesi 9, 11.15). Promessa di Dio non falla», dice Giuda. 
«Sì, Giuda di Simone. È vero. E l’Altissimo non manderà più flagelli universali come il diluvio. Ma gli uomini se li creeranno da loro dei flagelli sempre più atroci, rispetto ai quali il diluvio e la pioggia di fuoco che sterilì Sodoma e Gomorra saranno aspetti di castighi ancora pietosi. (Genesi 19, 23-25). Oh!...». Gesù si alza in piedi con un gesto di angosciosa pietà per le genti avvenire. 

«Va bene! Tu sai... Ma intanto che facciamo per costui?», chiede l’Iscariota accennando il fanciullo che gusteggia a piccole dosi il suo miele ed è beato. 
«Ad ogni giorno il suo affanno. Il domani dirà. Preoccuparsi del domani è vano se non sappiamo neppure chi sarà ancor vivo domani» . 
«Io non penso come Te. E dico che bisognerebbe sapere dove andremo ad abitare, dove consumeremo la Cena. Tante cose. Se attendiamo, attendiamo, la città si empie. E dove andremo noi? Al Getsemani, no. Da Giuseppe di Sefori, no. Da Giovanna, no. Da Niche, no. Da Lazzaro, no. E dove allora?». 
«Dove il Padre preparerà un rifugio per il suo Verbo». 
«Credi che io voglia sapere per riferire?». 
«Tu lo dici. Io non ho detto nulla. Vieni, Scialem. Mia Madre sa di te, ma ancora non ti ha visto. Vieni, che ti conduco a Lei». 
«Ma è malata tua Madre?», chiede Tommaso. 
«No. Prega. Ha molto bisogno di preghiera». 
«Sì. Soffre molto. Piange molto. E Maria non ha che la preghiera che la consoli. Sempre l’ho vista molto pregare. Nei momenti di maggior dolore vive di preghiera, potrei dire...», spiega Maria d’Alfeo, mentre Gesù si allontana tenendo per mano il fanciullo e avendo dall’altro lato Annalia, che ha invitata ad andare con Lui da Maria. 

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