domenica 13 febbraio 2022

La parabola degli operai della vigna.

 


VOLUME V CAPITOLO 329



CCCXXIX. Al mercato di Alessandroscene. La parabola degli operai della vigna. Il milite Aquila.

   13 novembre 1945.

   329.1Il cortile dei tre fratelli è per metà in ombra, per metà luminoso di sole. Ed è pieno di gente che va e viene per i suoi acquisti, mentre fuori dal portone, sulla piazzetta, vocia il mercato di Alessandroscene in un confuso andare e venire di acquirenti e di compratori, di asini, di pecore, di agnelli, di pollame; perché si capisce che qui hanno meno storie, e anche i polli vengono portati al mercato senza temere contaminazioni di sorta. Ragli, belati, croccolio di galline e trionfali chicchirichì di galletti si mescolano alle voci degli uomini in un allegro coro, che ogni tanto prende note acute e drammatiche per qualche alterco.
   Anche nel cortile dei fratelli è brusio e non manca qualche alterco, o per il prezzo, o perché un avventore ha preso ciò che un altro aveva in cuor suo prescelto. Non manca il lamento querulo dei mendicanti che dalla piazza, presso il portone, fanno la litania delle loro miserie con una gorga cantante e triste come un ululo di morente.
   Soldati romani vanno e vengono da padroni per il fondaco e per la piazza. Suppongo in servizio d’ordine, perché li vedo armati, e mai da soli, fra i fenici tutti armati.
   Anche Gesù va e viene per il cortile, passeggiando coi sei apostoli come in attesa del momento buono per parlare. E poi esce un momento sulla piazza, passando presso ai mendicanti ai quali dà un obolo. La gente si distrae per qualche minuto a guardare il gruppo galileo e si domanda chi sono quegli uomini stranieri. E c’è chi informa, perché ha chiesto notizie ai tre fratelli, chi siano i loro ospiti.
   Un brusio segue i passi di Gesù che va tranquillo, accarezzando i bambini che trova sulla sua strada. Nel brusio non mancano i sogghigni e gli epiteti poco lusinghieri per gli ebrei, come non manca il desiderio onesto di sentire questo «Profeta», questo «Rabbi», questo «Santo», questo «Messia» d’Israele, ché con tali nomi se lo indicano, a seconda del loro grado di fede e della loro rettezza d’animo.

   329.2Sento due madri: «Ma è vero?».
   «Me lo ha detto Daniele, proprio a me. Lui ha parlato a Gerusalemme con gente che ha veduto i miracoli del Santo».
   «Sì, d’accordo! Ma sarà poi questo l’uomo?».
   «Oh! Mi ha detto Daniele che non può essere che Lui per quello che dice».
   «Allora… che dici? Mi farà grazia anche se sono soltanto proselite?».
   «Io direi di sì… Prova. Forse non tornerà più qui da noi. Prova, prova! Male non ti farà certo!».
   «Vado», dice la donnetta lasciando in asso un venditore di stoviglie col quale contrattava delle scodelle, il quale venditore, che ha sentito il discorso delle due, deluso, irritato del buon affare andato in fumo, si scaraventa sulla donna superstite, coprendola di improperi quali: «Maledetta proselite. Sangue d’ebrea. Donna venduta», ecc. ecc.
   Sento due uomini gravi e barbuti: «Mi piacerebbe sentirlo. Dicono che è un grande Rabbi».
   «Un Profeta, devi dire. Più grande del Battista. Mi ha detto Elia certe cose! Certe cose! Lui le sa perché ha una sorella sposata ad un servo di un grande ricco d’Israele e per sapere di lei va a chiederne ai conservi. Questo ricco è molto amico del Rabbi…».
   Un terzo, un fenicio forse, che essendo lì vicino ha sentito, insinua la sua faccia sottile, satirica, fra i due, e sghignazza:
   «Bella santità! Condita di ricchezze! Per quello che so, il santo dovrebbe vivere poveramente!».
   «Taci, Doro, lingua maledica. Non sei degno, tu, pagano, di giudicare queste cose».
   «Ah! ne siete degni voi, tu in specie, Samuele! Faresti meglio a pagarmi quel debito».
   «Toh! e non mi girare più attorno, vampiro dalla faccia di fauno!»…
   Sento un vecchio semicieco, accompagnato da una fanciullina, che chiede: «Dove è, dove è il Messia?»; e la bimba: «Fate largo al vecchio Marco! Vogliate dire dove è il Messia al vecchio Marco!».
   Le due voci — la senile, fioca e tremolante; la fanciulla, argentina e sicura — si spandono sulla piazza inutilmente, finché un altro uomo dice : «Volete andare dal Rabbi? È tornato verso la casa di Daniele. Eccolo là fermo, che parla coi mendicanti».

   329.3Sento due soldati romani: «Deve essere quello che perseguitano i giudei, buone pelli! Si vede solo a guardarlo che è migliore di loro».
   «Per quello che dà loro noia!».
   «Andiamo a dirlo all’alfiere. Questo è l’ordine».
   «Molto stolto, o Caio! Roma si guarda dagli agnelli e sopporta, direi carezza, le tigri» (Scipione)[52].
   «Non mi pare, Scipione! Ponzio è facile ad ammazzare!» (Caio).
   «Sì… ma non chiude la sua dimora alle striscianti iene che lo adulano» (Scipione).
   «Politica, Scipione! Politica!» (Caio).
   «Viltà, Caio, e stoltezza. Di questo dovrebbe farsi amico.
   Per avere un aiuto a tenere ubbidiente questa marmaglia asiatica. Non serve bene Roma, Ponzio, trascurando questo buono e adulando i malvagi» (Scipione).
   «Non criticare il Proconsole. Noi siamo soldati e il superiore è sacro come un dio. Abbiamo giurato ubbidienza al divo Cesare e il Proconsole è una rappresentanza di lui» (Caio).
   «Va bene ciò per quanto riguarda il dovere verso la Patria, sacra e immortale. Ma non per il giudizio interno» (Scipione).
   «Ma ubbidienza viene da giudizio. Se il tuo giudizio si ribella ad un ordine e lo critica, non ubbidirai più totalmente. Roma si appoggia sulla nostra ubbidienza cieca per tutelare le sue conquiste» (Caio).
   «Sembri un tribuno, e dici bene. Ma ti faccio osservare che se Roma è regina, noi schiavi non siamo. Ma sudditi. Roma non ha, non deve avere cittadini schiavi. È schiavitù imporre un silenzio alla ragione dei cittadini. Io dico che la mia ragione giudica che Ponzio fa male a non curare questo israelita, chiamalo Messia, Santo, Profeta, Rabbi, ciò che ti pare. E sento che lo posso dire perché con questo non viene meno la mia fede a Roma né il mio amore. Ma anzi questo vorrei, perché sento che Egli, insegnando rispetto alle leggi e ai Consoli, come fa, coopera al benessere di Roma» (Scipione).
   «Tu sei colto, Scipione… Farai strada. Già avanti sei! Io sono un povero soldato. Ma, intanto, vedi là? Vi è assembramento intorno all’Uomo. Andiamo dai capi militari a dirlo» (Caio)…

   329.4Infatti presso il portone dei tre fratelli vi è un mucchio di gente intorno a Gesù, che per la sua alta statura si vede bene. Poi tutto ad un tratto si leva un urlo e la gente si agita. Altri accorrono dal mercato, mentre alcuni del mucchio corrono verso la piazza e oltre. Domande… risposte…
   «Che è accaduto?».
   «Che c’è?».
   «L’Uomo di Israele ha guarito il vecchio Marco!».
   «Il velo dei suoi occhi si è dileguato».
   Gesù, intanto, è entrato nel cortile, seguito da un codazzo di gente. Arrancando, in coda, c’è uno dei mendicanti, uno sciancato che si trascina più con le mani che con le gambe. Ma se le gambe sono storte e senza forza, per cui senza i bastoni non verrebbe avanti, la voce è ben robusta! Sembra una sirena, lacerante l’aria solare del mattino: «Santo! Santo! Messia! Rabbi! Pietà di me!». Urla a perdifiato e senza tregua.
   Si voltano due o tre persone: «Serba il fiato! Marco è ebreo, tu no», «Grazie per gli israeliti veri fa, non per i nati da un cane!».
   «Era ebrea mia madre…».
   «E Dio l’ha percossa dandole te, mostro, per il suo peccato. Via, figlio d’una lupa! Torna al tuo posto, fango nel fango…».
   L’uomo si addossa al muro, avvilito, spaurito dalla minaccia dei pugni tesi…
   Gesù si ferma, si volge, guarda. Ordina: «Uomo, vieni qui!».
   L’uomo lo guarda, guarda coloro che lo minacciano… e non osa venire avanti.
   Gesù fende la piccola folla e va da lui. Lo prende per mano, ossia, gli posa la mano sulla spalla e dice: «Non avere paura. Vieni avanti con Me», e guardando i crudeli dice severo: «Dio è di tutti gli uomini che lo cercano e che sono misericordiosi».
   Quelli capiscono l’antifona e ora sono loro che restano in coda, anzi, che si arrestano dove sono.
   Gesù torna a voltarsi. Li vede là, confusi, prossimi ad andarsene, e dice loro: «No, venite voi pure. Farà bene anche a voi, raddrizzando e fortificando la vostra anima così come Io raddrizzo e fortifico costui perché ha saputo aver fede. Uomo, Io te lo dico, sii guarito dalla tua infermità». E lascia di tenere la mano sulla spalla dello sciancato, dopo che questo ha avuto come una scossa.
   L’uomo si raddrizza sicuro sulle sue gambe, getta le stampelle consumate dall’uso e grida: «Egli mi ha guarito! Sia lode al Dio di mia madre!», e poi si inginocchia a baciare gli orli della veste di Gesù.

   329.5Il tumulto di chi vuol vedere, o che ha visto e commenta, è al colmo. Nel fondo androne, che dalla piazza conduce al cortile, le voci risuonano con sonorità di pozzo e fanno eco contro le muraglie del Castro.
   Le milizie devono temere sia accaduta una rissa — deve essere facile in questi luoghi, con tanti contrasti di razze e fedi — e accorre un drappello che si fa largo rudemente chiedendo che avviene.
   «Un miracolo, un miracolo! Giona, lo storpio, è stato guarito. Eccolo là, vicino all’Uomo galileo».
   I soldati si guardano fra loro. Non parlano finché la folla non è tutta passata e dietro ad essa se ne è accatastata altra di quella che era nei magazzini o sulla piazza, nella quale si vedono rimasti solo i venditori pieni di stizza per l’impensato diversivo che fa fallire il mercato di quel giorno. Poi, vedendo passare uno dei tre fratelli, chiedono: «Filippo, sai cosa faccia ora il Rabbi?».
   «Parla, ammaestra, e nel mio cortile!», dice Filippo tutto gongolante.
   I soldati si consultano. Rimanere? Andare via?
   «L’alfiere ci ha detto di sorvegliare…».
   «Chi? L’Uomo? Ma per Lui potremmo andare a giocare ai dadi un’anfora di vino di Cipro», dice Scipione, il milite che prima difendeva Gesù presso il compagno.
   «Io direi che è Lui che ha bisogno di essere protetto, non il diritto di Roma! Lo vedete là? Fra i nostri dèi non c’è alcuno di così mite e pur di così virile aspetto. Non è degna la marmaglia di averlo. E gli indegni sempre cattivi sono. Rimaniamo a tutelarlo. All’occorrenza gli salveremo le spalle e le carezzeremo a questi galeotti», dice, mezzo sarcastico, mezzo ammirato, un altro.
   «Bene dici, Pudente. Anzi, acciò Procoro, l’alfiere, che sempre sogna complotti contro Roma e… promozioni per sé, in grazia e merito del suo acuto vegliare alla salute del divo Cesare e della dea Roma, madre e signora del mondo, si persuada che qui non acquisterà bracciale o corona, vallo a chiamare, Azio».

   329.6Un giovane milite parte di corsa e di corsa torna dicendo:
   «Procoro non viene. Manda il triario Aquila…».
   «Bene! Bene! Meglio lui dello stesso Cecilio Massimo. Aquila ha servito in Africa, in Gallia, e fu nelle foreste crudeli che ci tolsero Varo e le sue legioni. Conosce greci e britanni e ha fiuto buono a distinguere… Oh! Salve! Ecco qua il glorioso Aquila! Vieni, insegna a noi miserelli a comprendere il valore degli esseri!».
   «Viva Aquila, maestro delle milizie!», gridano tutti dando affettuose scrollate al vecchio soldato dal volto segnato di cicatrici, e come ha il volto così ha le braccia nude e i polpacci nudi.
   Egli sorride bonario ed esclama: «Viva Roma, maestra del mondo! Non io, povero soldato. Che c’è dunque?».
   «Da sorvegliare quell’uomo alto e biondo come il rame più chiaro».
   «Bene. Ma chi è?».
   «Lo dicono il Messia. Si chiama Gesù ed è di Nazaret. È quello, sai, per cui fu diramato l’ordine…».
   «Uhm! Sarà… Ma mi sembra che corriamo dietro alle nuvole».
   «Dicono che vuol farsi re e soppiantare Roma. Lo hanno denunciato il Sinedrio e i farisei, sadducei, erodiani, a Ponzio. Tu lo sai che hanno questo baco nella testa gli ebrei, e ogni tanto salta fuori un re…».
   «Sì, sì… Ma se è per questo!… Ad ogni modo ascoltiamo ciò che dice. Mi pare che si appresti a parlare».
   «Ho saputo dal milite che sta col centurione che Pubblio Quintilliano gliene ha parlato come di un filosofo divino… Le donne imperiali ne sono entusiaste…», dice un altro soldato, giovane.
   «Lo credo! Ne sarei entusiasta anche io se fossi una donna e lo vorrei nel mio letto…», dice ridendo di gusto un altro giovane milite.
   «Taci, impudico! La lussuria ti mangia!», scherza un altro.
   «E tu no, Fabio? Anna, Sira, Alba, Maria…».
   «Silenzio, Sabino. Egli parla e voglio ascoltare», ordina il triario. E tutti tacciono.

   329.7Gesù è salito su una cassa messa contro una parete. È perciò ben visibile a tutti. Il suo dolce saluto si è già sparso nell’aria ed è stato seguito dalle parole: «Figli di un unico Creatore, udite»; poi prosegue nel silenzio attento della gente.
   «Il tempo della Grazia per tutti è venuto non solo ad Israele ma per tutto il mondo. Uomini ebrei, qui per ragioni diverse, proseliti, fenici, gentili, tutti, udite la Parola di Dio, comprendete la Giustizia, conoscete la Carità. Avendo Sapienza, Giustizia e Carità, avrete i mezzi di giungere al Regno di Dio, a quel Regno che non è esclusività dei figli di Israele, ma è di tutti coloro che ameranno d’ora in poi il vero, unico Dio, e crederanno nella parola del suo Verbo.

   329.8Udite. Io sono venuto da tanto lontano non con mire di usurpatore né con violenza da conquistatore. Sono venuto solamente per essere il Salvatore delle anime vostre. I domìni, le ricchezze, le cariche non mi seducono. Sono nulla per Me e non le guardo neppure. Ossia le guardo per commiserarle, perché mi fanno compassione, essendo tante catene per tenere prigioniero il vostro spirito impedendogli di venire al Signore eterno, unico, universale, santo e benedetto. Le guardo e le avvicino come le più grandi miserie. E cerco di guarirle del loro affascinante e crudele inganno che seduce i figli dell’uomo, perché essi possano usarle con giustizia e santità, non come armi crudeli che feriscono e uccidono l’uomo, e per primo sempre lo spirito di chi non santamente le usa.
   Ma, in verità vi dico, mi è più facile guarire un corpo deforme che un’anima deforme; mi è più facile dare luce alle pupille spente, sanità ad un corpo morente, che non luce agli spiriti e salute alle anime malate. Perché ciò? Perché l’uomo ha perso di vista il vero fine della sua vita e si occupa di ciò che è transitorio.
   L’uomo non sa o non ricorda o, ricordando, non vuole ubbidire a questa santa ingiunzione del Signore e — dico anche per i gentili che mi ascoltano — del fare il bene, che è bene in Roma come in Atene, in Gallia come in Africa, perché la legge morale esiste sotto ogni cielo e in ogni religione, in ogni retto cuore. E le religioni, da quella di Dio a quella della morale singola, dicono che la parte migliore di noi sopravvive, e a seconda di come ha agito sulla Terra avrà sorte dall’altra parte. Fine dunque dell’uomo è la conquista della pace nell’altra vita, non la gozzoviglia, l’usura, la prepotenza, il piacere, qui, per poco tempo, scontabili per una eternità con tormenti ben duri. Ebbene l’uomo non sa, o non ricorda, o non vuole ricordare questa verità. Se non la sa, è meno colpevole. Se non la ricorda, è colpevole alquanto, perché la verità deve essere tenuta accesa come fiaccola santa nelle menti e nei cuori. Ma, se non la vuole ricordare, e quando essa fiammeggia egli chiude gli occhi per non vederla, avendola odiosa come la voce di un retore pedante, allora la sua colpa è grave, molto grave.

   329.9Eppure Dio la perdona, se l’anima ripudia il suo male agire e propone di perseguire, per il resto della vita, il fine vero dell’uomo, che è conquistarsi la pace eterna nel Regno del Dio vero. Avete fino ad ora seguito una mala strada? Avviliti, pensate che è tardi per prendere la via giusta? Desolati, dite: “Io non sapevo nulla di questo! Ed ora sono ignorante e non so fare”? No. Non pensate che sia come delle cose materiali e che occorra molto tempo e molta fatica per rifare il già fatto ma con santità. La bontà dell’eterno, vero Signore Iddio, è tale che non vi fa certo ripercorrere a ritroso la via fatta, per rimettervi al bivio dove voi, errando, avete lasciato il giusto sentiero per l’ingiusto. È tanta che, dal momento che voi dite: “Io voglio essere della Verità”, ossia di Dio perché Dio è Verità, Dio, per un miracolo tutto spirituale, infonde in voi la Sapienza, per cui voi da ignoranti divenite possessori della scienza soprannaturale, ugualmente a quelli che da anni la possiedono.
   Sapienza è volere Dio, amare Dio, coltivare lo spirito, tendere al Regno di Dio ripudiando tutto ciò che è carne, mondo e Satana. Sapienza è ubbidire alla legge di Dio che è legge di carità, di ubbidienza, di continenza, di onestà. Sapienza è amare Dio con tutti sé stessi, amare il prossimo come noi stessi. Questi sono i due indispensabili elementi per essere sapienti della Sapienza di Dio. E nel prossimo sono non solo quelli del nostro sangue o della nostra razza e religione, ma tutti gli uomini, ricchi o poveri, sapienti o ignoranti, ebrei, proseliti, fenici, greci, romani…».

   329.10Gesù è interrotto da un minaccioso urlo di certi scalmanati. Li guarda e dice: «Sì. Questo è l’amore. Io non sono un maestro servile. Io dico la verità perché così devo fare per seminare in voi il necessario alla Vita eterna. Vi piaccia o non vi piaccia, ve lo devo dire, per fare il mio dovere di Redentore. A voi fare il vostro di bisognosi di Redenzione. Amare il prossimo, dunque. Tutto il prossimo. Di un amore santo. Non di un losco concubinaggio di interessi, per cui è “anatema” il romano, il fenicio o il proselite, o viceversa, finché non c’è di mezzo il senso o il denaro, mentre, se brama di senso o utile di denaro sorgono in voi, “anatema” più non è…».
   Altro rumoreggiare della folla, mentre i romani, dal loro posto nell’atrio, esclamano: «Per Giove! Parla bene costui!».
   Gesù lascia calmare il rumore e riprende:
   «Amare il prossimo come vorremmo essere amati. Perché a noi non fa piacere essere maltrattati, vessati, derubati, oppressi, calunniati, insolentiti. La stessa suscettibilità nazionale o singola hanno gli altri. Non facciamoci dunque a vicenda il male che non vorremmo ci fosse fatto.
   Sapienza è ubbidire ai dieci comandi di Dio:
   “Io sono il Signore Iddio tuo. Non avere altro dio all’infuori di Me. Non avere idoli, non dare loro culto.
   Non usare il Nome di Dio invano. È il Nome del Signore Iddio tuo, e Dio punirà chi lo usa senza ragione o per imprecazione o per convalida ad un peccato.
   Ricordati di santificare le feste. Il sabato è sacro al Signore che in esso si riposò della Creazione e lo ha benedetto e santificato.
   Onora il padre e la madre affinché tu viva in pace lungamente sulla terra ed eternamente in Cielo.
   Non ammazzare. Non fare adulterio. Non rubare.
   Non dire il falso contro il tuo prossimo.
   Non desiderare la casa, la moglie, il servo, la serva, il bue, l’asino, né altra cosa che appartenga al tuo prossimo”.
   Questa è la Sapienza. Chi fa ciò è sapiente e conquista la Vita e il Regno senza fine. Da oggi, dunque, proponete di vivere secondo Sapienza, anteponendo questa alle povere cose della Terra.




   329.11Che dite? Parlate. Dite che è tardi? No. Udite una parabola. Un padrone, allo spuntare di un giorno, uscì per assoldare degli operai per la sua vigna e pattuì con loro un denaro al giorno.
   Uscito all’ora di terza nuovamente e pensando che i lavoratori presi ad opera erano pochi, vedendo sulla piazza altri sfaccendati in attesa di chi li prendesse, li prese e disse: “Andate nella mia vigna e vi darò quello che ho promesso agli altri”. E quelli andarono.
   Uscito a sesta e a nona, ne vide altri ancora e disse loro: “Volete lavorare alle mie dipendenze? Io do un denaro al giorno ai miei lavoratori”. Quelli accettarono e andarono.
   Uscito infine verso l’undecima ora, vide altri stare dimessi all’ultimo sole. “Che fate qui, così oziosi? Non vi fa vergogna stare senza fare nulla per tutto il giorno?”, chiese loro.
   “Nessuno ci ha presi a giornata. Avremmo voluto lavorare e guadagnarci il cibo. Ma nessuno ci chiamò alla sua vigna”.
   “Ebbene, io vi chiamo alla mia vigna. Andate e avrete la mercede degli altri”. Così disse, perché era un buon padrone ed aveva pietà dell’avvilimento del suo prossimo.
   Venuta la sera e finiti i lavori, l’uomo chiamò il suo fattore e disse: “Chiama i lavoratori e paga la loro mercede, secondo che ho fissato, cominciando dagli ultimi, che sono i più bisognosi non avendo avuto nel giorno il cibo che gli altri hanno una o più volte avuto e che, anche, sono quelli che per riconoscenza verso la mia pietà hanno più di tutti lavorato; io li osservavo, e licenziali, che vadano al riposo meritato, godendo con i famigliari i frutti del loro lavoro”. E il fattore fece come il padrone ordinava, dando ad ognuno un denaro.
   Venuti per ultimi quelli che lavoravano dalla prima ora del giorno, rimasero stupiti di avere essi pure un solo denaro e fecero delle lagnanze fra di loro e col fattore, il quale disse: “Ho avuto quest’ordine. Andate a lagnarvi dal padrone e non da me”. E quelli andarono e dissero: “Ecco, tu non sei giusto! Noi abbiamo lavorato dodici ore, prima fra la guazza e poi al sole cocente e poi da capo nell’umido della sera, e tu ci hai dato come a quei poltroni che hanno lavorato una sola ora!… Perché ciò?”. E uno specialmente alzava la voce, dicendosi tradito e sfruttato indegnamente.
   “Amico, e in che ti faccio torto? Cosa ho pattuito con te all’alba? Una giornata di continuo lavoro e per mercede di un denaro. Non è vero?”.
   “Sì. È vero. Ma tu lo stesso hai dato a quelli, per tanto lavoro di meno…”.
   “Tu hai acconsentito a quella mercede parendoti buona?”. “Sì. Ho acconsentito perché gli altri davano anche meno”. “Fosti seviziato qui da me?”.
   “No, in coscienza no”.
   “Ti ho concesso riposo lungo il giorno e cibo, non è vero? Tre pasti ti ho dato. E cibo e riposo non erano pattuiti. Non è vero?”.
   “Sì, non erano pattuiti”. “Perché allora li hai accettati?”.
   “Ma… Tu hai detto: ‘Preferisco così per non farvi stancare tornando alle case’. E a noi non parve vero… Il tuo cibo era buono, era un risparmio, era…”.
   “Era una grazia che vi davo gratuitamente e che nessuno poteva pretendere. Non è vero?”.
   “È vero”.
   “Dunque vi ho beneficati. Perché allora vi lamentate? Io dovrei lamentarmi di voi che, comprendendo di avere a che fare con un padrone buono, lavoravate pigramente, mentre costoro, venuti dopo di voi, con beneficio di un solo pasto, e gli ultimi di nessun pasto, lavorarono con più lena, facendo in meno tempo lo stesso lavoro fatto da voi in dodici ore. Traditi vi avrei se vi avessi dimezzata la mercede per pagare anche questi. Non così. Perciò piglia il tuo e vattene. Vorresti in casa mia venirmi ad imporre ciò che ti pare? Io faccio ciò che voglio e ciò che è giusto. Non volere essere maligno e tentarmi all’ingiustizia. Buono io sono”.

   329.12O voi tutti che mi ascoltate, in verità vi dico che il Padre Iddio a tutti gli uomini fa lo stesso patto e promette l’uguale mercede. Chi con solerzia si mette a servire il Signore sarà trattato da Lui con giustizia, anche se poco sarà il suo lavoro per prossima morte. In verità vi dico che non sempre i primi saranno i primi nel Regno dei Cieli, e che là vedremo degli ultimi essere primi e dei primi essere ultimi. Là vedremo uomini, non di Israele, santi più di molti di Israele. Io sono venuto a chiamare tutti, in nome di Dio. Ma se molti sono i chiamati pochi sono gli eletti, perché pochi sono coloro che vogliono la Sapienza. Non è sapiente chi vive del mondo e della carne e non di Dio. Non è sapiente né per la Terra, né per il Cielo. Perché sulla Terra si crea nemici, punizioni, rimorsi. E per il Cielo perde lo stesso in eterno.
   Ripeto: siate buoni col prossimo quale esso sia. Siate ubbidienti, rimettendo a Dio il compito di punire chi non è giusto nel comandare. Siate continenti nel sapere resistere al senso e onesti nel sapere resistere all’oro, e coerenti nel dire anatema a ciò che merita, non anatema quando vi pare, salvo poi stringere contatti con l’oggetto prima maledetto come idea. Non fate agli altri ciò che per voi non vorreste, e allora…».

   329.13«Ma va’ via, noioso profeta! Ci hai danneggiato il mercato!… Ci hai levato i clienti!…», urlano i venditori irrompendo nel cortile… E quelli che avevano rumoreggiato nel cortile, ai primi insegnamenti di Gesù — e non sono tutti fenici, ma anche ebrei, presenti per non so che motivo in questa città — si uniscono ai venditori per insultare e minacciare, e soprattutto per cacciare… Gesù non piace perché non consiglia al male…
   Egli incrocia le braccia e guarda. Mesto. Solenne.
   La gente, divisa in due partiti, si azzuffa, in difesa e in offesa del Nazareno. Improperi, lodi, maledizioni, benedizioni, grida di : «Hanno ragione i farisei. Sei un venduto a Roma, un amante dei pubblicani e meretrici», o di: «Tacete, lingue blasfeme! Voi venduti a Roma, fenici d’inferno!», «Satana siete!», «Vi inghiotta l’inferno!», «Via! Via!», «Via voi, ladri che venite a far mercato qui, usurai», e così via.
   Intervengono i soldati dicendo: «Altro che sobillatore! È sobillato!». E colle aste cacciano fuori tutti dal cortile e chiudono il portone.
   Restano i tre fratelli proseliti e i sei apostoli con Gesù.
   «Ma come vi è venuto in mente di farlo parlare?», chiede il triario ai tre fratelli.
   «Parlano in tanti!», risponde Elia.
   «Sì. E non succede nulla perché insegnano ciò che piace all’uomo. Ma questo ciò non insegna. Ed è indigesto…». Il vecchio soldato guarda attento Gesù che è sceso dal suo posto e che sta zitto, come astratto.
   Di fuori la folla continua ad azzuffarsi. Tanto che dalla caserma escono altre milizie e con esse lo stesso centurione. Bussano e si fanno aprire, mentre altri restano a respingere tanto chi grida : «Viva il Re d’Israele!», come chi lo maledice.
   Il centurione viene avanti, inquieto. Assale con la sua collera il vecchio Aquila: «Così tuteli Roma, tu? Lasciando acclamare un re straniero nella terra soggetta?».
   Il vecchio saluta con rigidezza e risponde: «Egli insegnava rispetto e ubbidienza e parlava di un regno non di questa Terra. Per quello lo odiano. Perché è buono e rispettoso. Non ho trovato motivo di imporre il silenzio a chi non offendeva la nostra legge».
   Il centurione si calma e borbotta: «Allora è una nuova sedizione di queste fetide marmaglie… Bene. Date ordine all’uomo di andarsene subito. Non voglio noie, qui. Eseguite e scortate fuori città non appena sarà sgombra la via. Vada dove gli pare. Agli inferi, se vuole. Ma mi esca dalla giurisdizione. Compreso?».
   «Sì. Faremo».
   Il centurione volta le spalle con un gran splendere di corazza e ondeggiare di mantello porporino, e se ne va senza neppur guardare Gesù.

   329.14I tre fratelli dicono al Maestro: «Ci spiace…».
   «Non ne avete colpa. E non temete. Non ve ne verrà male. Io ve lo dico…».
   I tre mutano colore… Filippo dice: «Come sai questa nostra paura?».
   Gesù sorride dolcemente, un raggio di sole sul viso mesto:
   «Io so ciò che è nei cuori e nel futuro».
   I soldati si sono messi al sole, in attesa, e sbirciano, commentando…
   «Possono mai amare noi, se odiano anche quello lì che non li opprime?».
   «E che fa miracoli, devi dire…».
   «Per Ercole! Chi era quello di noi che era venuto ad avvisare che c’era l’indiziato da sorvegliare?».
   «Caio fu!».
   «Lo zelante! Intanto abbiamo perduto il rancio e prevedo che perderò il bacio di una fanciulla!…Ah!».
   «Epicureo! Dove è la bella?».
   «Non lo dirò certo a te, amico!».
   «Sta dietro al cocciaio, alle Fondamenta. Lo so. Ti ho visto sere or sono…», dice un altro.

   329.15Il triario, come passeggiando, va verso Gesù e gli gira intorno, lo guarda, lo guarda. Non sa che dire… Gesù gli sorride per incoraggiarlo. L’uomo non sa che fare… Ma si accosta di più.
   Gesù accenna alle cicatrici: «Tutte ferite? Sei un prode e un fedele, allora…».
   Il vecchio milite si fa di porpora per l’elogio.
   «Hai sofferto molto per amore della tua patria e del tuo imperatore… Non vorresti soffrire qualcosa per una più grande patria: il Cielo? Per un eterno imperatore: Dio?».
   Il soldato scuote il capo e dice: «Sono un povero pagano.
   Ma non è detto che non arrivi anche io all’undecima ora. Ma chi mi istruisce? Tu vedi!… Ti cacciano. E queste sì che sono ferite che fanno male, non le mie!… Almeno io le ho rese ai nemici. Ma Tu, a chi ti ferisce, che dài?».
   «Perdono, soldato. Perdono e amore».
   «Ho ragione io. Il sospetto su Te è stolto. Addio, galileo».
   «Addio, romano».

   329.16Gesù resta solo finché tornano i tre fratelli e i discepoli con delle cibarie. Che offrono, i fratelli, ai soldati, mentre i discepoli le offrono a Gesù. Mangiano svogliatamente, al sole, mentre i militi mangiano e bevono allegramente.
   Poi un soldato esce a sbirciare sulla piazza silenziosa. «Possiamo andare», urla. «Sono tutti andati via. Non ci sono che le pattuglie».
   Gesù si alza docilmente, benedice e conforta i tre fratelli, ai quali dà appuntamento per la Pasqua al Getsemani, ed esce, inquadrato fra i soldati coi suoi discepoli mortificati che gli vengono dietro. E percorrono le strade vuote, fino alla campagna.
   «Salve, galileo», dice il triario.
   «Addio, Aquila. Ti prego, non fate del male a Daniele, Elia e Filippo. Io solo sono il colpevole. Dillo al centurione».
   «Non dico nulla. A quest’ora non se lo ricorda neanche più, e i tre fratelli ci forniscono bene, specie di quel vino di Cipro che il centurione ama più della vita. Sta’ in pace. Addio».
   Si separano. Tornando i soldati oltre le porte, Gesù e i suoi avviandosi per la campagna silenziosa, in direzione est.



[52] Scipione e Caio, nomi ripetuti tra parentesi ad ogni battuta del dialogo, sono ripresi dalla trascrizione dattiloscritta, poiché il

 manoscritto originale riporta semplicemente le iniziali S e C, scritte a matita.



AMDG et DVM

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