mercoledì 17 febbraio 2016

Il passaggio del Mar Rosso (Es 14, 5‑31) - Le acque di Mara (Es 15, 22‑25) - Le palme di Elim (Es 15, 27) - L’acqua dalla roccia (Es 17, 1‑7) - La manna (Es 16, 9‑27) -

Il passaggio del Mar Rosso (Es 14, 5‑31)

Mosè la seguiva e altrettanto raccomandava di fare al popolo. Giunsero così, dietro tale guida, sul­le rive del Mar Rosso. Ma l’esercito egiziano piom­bò alle spalle degli Israeliti, mettendoli in grave an­gustia, poiché non avevano altra via di scampo che spingersi dentro il mare. Sorretto dalla forza di Dio, Mosè operò allora un prodigio grande, incredibile. Stando sulla riva del mare, ne colpì con la verga le acque ed ecco, sotto i colpi della verga, il mare si divise e le onde, rotte a una estremità, portarono la loro spaccatura fino alla riva opposta, proprio come succede in un vetro, quando la frattura fatta a un capo si estende fino all’altro capo. 

Tutti, Mosè e il popolo, scesero nel fossato che aveva diviso in due il mare e lì non solo si trovaro­no all’asciutto, ma perfino il sole arrivò ad avvol­gerli con la sua luce. Attraversarono allora a piedi il fondo asciutto del mare, senza paura delle pareti di ghiaccio che di qua e di là si levavano come un muro[1]. Anche il Faraone entrò coi suoi per la strada aperta in mezzo alle acque, ma queste subi­to tornarono ad accavallarsi e confondersi e il ma­re, ripresa uniformità d’aspetto, ricominciò a flui­re alla maniera consueta.

Quando gli Israeliti avevano ormai terminato il tragitto sul fondo del mare e si trovarono sull’altra riva, intonarono un inno di vittoria in onore del Si­gnore, che aveva drizzato innanzi a loro un trofeo non intriso di sangue[2] e aveva sommerso nelle acque gli Egiziani, con cavalli, carri e armi.

Le acque di Mara (Es 15, 22‑25)

Avanzarono nel deserto per tre giorni, senza tro­vare acqua. Mosè era preoccupato per l’impossibili­tà di soddisfare la sete di tante persone. Si accam­parono attorno a una palude dalle acque salate e più amare di quelle del mare. La gente, divorata dalla sete, fissava, seduta sui bordi, l’acqua della palude. Ma ispirato da Dio, Mosè andò in cerca di un pezzo di legno e lo gettò nelle acque: subito es­se divennero dolci.

Per effetto del legno, l’acqua amara era diventa­ta dolce. Poiché la nube riprese a precederli, essi non avevano che da seguire gli spostamenti di quel­la guida, stando a questa regola: se la nube si fer­mava sospendevano la marcia; viceversa quando ri­prendevano il cammino, la nube tornava a guidarli.

Le palme di Elim (Es 15, 27)

Seguendola, giunsero in una località ricca di buo­ne acque, che zampillavano tutt’intorno da dodici abbondanti fonti, ombreggiate da un boschetto di palme. Erano appena settanta queste palme, ma tanto alte, belle e grosse da lasciare meravigliati chi le mirava.

L’acqua dalla roccia (Es 17, 1‑7)

La nube li guidò verso un’altra località, dove fe­cero sosta. Il luogo era deserto, coperto di sabbia asciutta e bruciata, senza alcuna vena d’acqua che lo inumidisse. Di nuovo allora tornò la sete a tor­mentarli e Mosè procurò acqua dolce, buona e ab­bondante più del bisogno, facendola ancora scatu­rire da una roccia della collina, colpita con la sua verga.

La manna (Es 16, 9‑27)

Intanto si era esaurita la provvista di cibo che ciascuno aveva preso per il viaggio e si trovavano ormai stretti dalla fame, quando avvenne un’incre­dibile meraviglia. Il cibo arrivò non dalla terra co­me è normale, ma dal cielo, al pari di rugiada. Pro­prio come una rugiada infatti esso scendeva di mat­tina, ma nell’atto in cui lo raccoglievano, trovava­no che si trattava di cibo. Non erano infatti delle gocce, come avviene nella rugiada, ma certi grani cristallini, simili al seme di coriandro, rotondi e dal sapore di miele.

I fatti riguardanti la raccolta di questo cibo han­no dello straordinario: succedeva anzitutto che i più deboli non raccogliessero meno degli altri, tut­ti invece finivano per avere una porzione eguale, an­che se età e capacità fisiche erano differenti e cia­scuno cercasse di raccoglierne in proporzione dei propri bisogni.

Ma non mancava qualcuno che, non acconten­tandosi del fabbisogno quotidiano, ne ammassava per il giorno seguente. Orbene, la porzione accanto­nata diveniva immangiabile, trasformandosi in vermi.

Solo nel giorno precedente a quello consacrato, per mistica ragione, al riposo, ognuno scopriva di aver raccolto una porzione doppia, nonostante che la quantità discesa e raccolta fosse la medesima de­gli altri giorni. Avveniva questo, perché la necessità di raccogliere il cibo, non servisse di pretesto per violare la legge del sabato. Si trovavano dunque di fronte a una più chiara manifestazione della divina Potenza. Infatti negli altri giorni, il cibo preso in più si guastava; esso invece restava intatto e non meno fresco del solito, quando veniva raccolto per il sabato, che era il loro giorno festivo.



[1] Il testo biblico (Es 14,22) parla di «muraglia», prodotta dalle acque. La precisazione che si trattasse di pareti di ghiac­cio è un’ovvia deduzione, già contenuta in Filone, Vita Moysis 1, 32, 177‑180.
[2] L’espressione significa: una vittoria incruenta, senza spar­gimento di sangue. Essa deriva dalla terminologia relativa al martirio nei primi secoli della Chiesa. Il martirio infatti era un segno di vittoria, ma intriso del sangue dei martiri.

da VITA DI MOSE' di Gregorio di Nissa

VIENI SIGNORE GESU' 
NOI TI ATTENDIAMO. AMEN.


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