Il
passaggio del Mar Rosso (Es
14, 5‑31)
Mosè la
seguiva e altrettanto raccomandava di fare al popolo. Giunsero così, dietro
tale guida, sulle rive del Mar Rosso. Ma l’esercito egiziano piombò alle
spalle degli Israeliti, mettendoli in grave angustia, poiché non avevano altra
via di scampo che spingersi dentro il mare. Sorretto dalla forza di Dio, Mosè
operò allora un prodigio grande, incredibile. Stando sulla riva del mare, ne
colpì con la verga le acque ed ecco, sotto i colpi della verga, il mare si
divise e le onde, rotte a una estremità, portarono la loro spaccatura fino alla
riva opposta, proprio come succede in un vetro, quando la frattura fatta a un
capo si estende fino all’altro capo.
Tutti,
Mosè e il popolo, scesero nel fossato che aveva diviso in due il mare e lì non solo
si trovarono all’asciutto, ma perfino il sole arrivò ad avvolgerli con la sua
luce. Attraversarono allora a piedi il fondo asciutto del mare, senza paura
delle pareti di ghiaccio che di qua e di là si levavano come un muro[1].
Anche il Faraone entrò coi suoi per la strada aperta in mezzo alle acque, ma
queste subito tornarono ad accavallarsi e confondersi e il mare, ripresa
uniformità d’aspetto, ricominciò a fluire alla maniera consueta.
Quando
gli Israeliti avevano ormai terminato il tragitto sul fondo del mare e si
trovarono sull’altra riva, intonarono un inno di vittoria in onore del Signore,
che aveva drizzato innanzi a loro un trofeo non intriso di sangue[2] e aveva sommerso nelle acque gli Egiziani, con cavalli,
carri e armi.
Le acque
di Mara (Es 15, 22‑25)
Avanzarono
nel deserto per tre giorni, senza trovare acqua. Mosè era preoccupato per l’impossibilità
di soddisfare la sete di tante persone. Si accamparono attorno a una palude
dalle acque salate e più amare di quelle del mare. La gente, divorata dalla
sete, fissava, seduta sui bordi, l’acqua della palude. Ma ispirato da Dio, Mosè
andò in cerca di un pezzo di legno e lo gettò nelle acque: subito esse
divennero dolci.
Per
effetto del legno, l’acqua amara era diventata dolce. Poiché la nube riprese a
precederli, essi non avevano che da seguire gli spostamenti di quella guida,
stando a questa regola: se la nube si fermava sospendevano la marcia;
viceversa quando riprendevano il cammino, la nube tornava a guidarli.
Le palme
di Elim (Es 15, 27)
Seguendola,
giunsero in una località ricca di buone acque, che zampillavano tutt’intorno
da dodici abbondanti fonti, ombreggiate da un boschetto di palme. Erano appena
settanta queste palme, ma tanto alte, belle e grosse da lasciare meravigliati
chi le mirava.
L’acqua
dalla roccia (Es 17, 1‑7)
La nube
li guidò verso un’altra località, dove fecero sosta. Il luogo era deserto,
coperto di sabbia asciutta e bruciata, senza alcuna vena d’acqua che lo
inumidisse. Di nuovo allora tornò la sete a tormentarli e Mosè procurò acqua
dolce, buona e abbondante più del bisogno, facendola ancora scaturire da una
roccia della collina, colpita con la sua verga.
La manna (Es 16,
9‑27)
Intanto
si era esaurita la provvista di cibo che ciascuno aveva preso per il viaggio e
si trovavano ormai stretti dalla fame, quando avvenne un’incredibile
meraviglia. Il cibo arrivò non dalla terra come è normale, ma dal cielo, al
pari di rugiada. Proprio come una rugiada infatti esso scendeva di mattina,
ma nell’atto in cui lo raccoglievano, trovavano che si trattava di cibo. Non
erano infatti delle gocce, come avviene nella rugiada, ma certi grani
cristallini, simili al seme di coriandro, rotondi e dal sapore di miele.
I fatti
riguardanti la raccolta di questo cibo hanno dello straordinario: succedeva
anzitutto che i più deboli non raccogliessero meno degli altri, tutti invece
finivano per avere una porzione eguale, anche se età e capacità fisiche erano
differenti e ciascuno cercasse di raccoglierne in proporzione dei propri
bisogni.
Ma non
mancava qualcuno che, non accontentandosi del fabbisogno quotidiano, ne
ammassava per il giorno seguente. Orbene, la porzione accantonata diveniva
immangiabile, trasformandosi in vermi.
Solo nel
giorno precedente a quello consacrato, per mistica ragione, al riposo, ognuno
scopriva di aver raccolto una porzione doppia, nonostante che la quantità
discesa e raccolta fosse la medesima degli altri giorni. Avveniva questo,
perché la necessità di raccogliere il cibo, non servisse di pretesto per
violare la legge del sabato. Si trovavano dunque di fronte a una più chiara
manifestazione della divina Potenza. Infatti negli altri giorni, il cibo preso
in più si guastava; esso invece restava intatto e non meno fresco del solito,
quando veniva raccolto per il sabato, che era il loro giorno festivo.
[1]
Il testo biblico (Es 14,22)
parla di «muraglia», prodotta dalle acque. La precisazione che si trattasse di
pareti di ghiaccio è un’ovvia deduzione, già contenuta in Filone, Vita Moysis 1, 32, 177‑180.
[2]
L’espressione significa: una
vittoria incruenta, senza spargimento di sangue. Essa deriva dalla
terminologia relativa al martirio nei primi secoli della Chiesa. Il martirio
infatti era un segno di vittoria, ma intriso del sangue dei martiri.
da VITA DI MOSE' di Gregorio di Nissa
VIENI
SIGNORE GESU'
NOI TI
ATTENDIAMO. AMEN.