Die 12 Februarii
SS. SEPTEM FUNDATORUM
ORDINIS SERVORUM B. M. V.
Introitus Sap. 10, 20-21
JUSTI decantavérunt, Dómine, nomen sanctum tuum, et victrícem manum tuam laudavérunt páriter: quóniam sapiéntia apéruit os mutum, et linguas infántium fecit disértas. Ps. 8, 2 Dómine, Dóminus noster, quam admirábile est nomen tuum in univérsa terra ! V/. Glória Patri.
DÓMINE Jesu Christe, qui ad recoléndam memóriam dolórum sanctíssimae Genitrícis tuae, per septem beátos Patres nova Servórum ejus família Ecclésiam tuam fecundásti: concéde propítius ; ita nos eórum consociári flétibus, ut perfruámur et gáudiis: Qui vivis.
Et, in Quadragesima, fit Commemoratio Feriae in Missis non conventualibus.
LAUDÉMUS viros gloriósos, et paréntes nostros in generatióne sua. Multam glóriam fecit Dóminus magnificéntia sua a saéculo. Dominántes in potestátibus suis, hómines magni virtúte, et prudéntia sua praéditi, nuntiántes in prophétis dignitátem prophetárum, et imperántes in praesénti pópulo, et virtúte prudéntiae pópulis sanctíssima verba. In perítia sua requiréntes modos músicos, et narrántes cármina scripturárum. Hómines dívites in virtúte, pulchritúdinis stúdium habéntes: pacificántes in dómibus suis. Omnes isti in generatiónibus gentis suae glóriam adépti sunt, et in diébus suis habéntur in láudibus. Qui de illis nati sunt, reliquérunt nomen narrándi laudes eórum. Et sunt quorum non est memória: periérunt quasi qui non fúerint: et nati sunt, quasi non nati, et fílii ipsórum cum ipsis. Sed illi viri misericórdiae sunt, quorum pietátes non defuérunt: cum sémine eórum pérmanent bona, heréditas sancta nepótes eórum, et in testaméntis stetit semen eórum: et fílii eórum propter illos usque in aetérnum manent: semen eórum et glória eórum non derelinquétur. Córpora ipsórum in pace sepúlta sunt, et nomen eórum vivit in generatiónem et generatiónem. Sapiéntiam ipsórum narrent pópuli, et laudem eórum núntiet Ecclésia.
Graduale Isai. 65, 23 Elécti mei non laborábunt frustra, neque germinábunt in conturbatióne: quia semen benedictórum Dómini est, et nepótes eórum cum eis. V/. Eccli. 44, 14 Córpora ipsórum in pace sepúlta sunt, et nómen eórum vivit in generatiónem et generatiónem.
Allelúja, allelúja. V/. Ibid., 15 Sapiéntiam ipsórum narrent pópuli, et laudem eórum núntiet Ecclésia. Allelúja.
Post Septuagesimam, omissis Allelúja et Versu sequenti, dicitur
Tractus Ps. 125, 5-6 Qui séminant in lácrimis, in exsultátio metent. V/. Eúntes ibant et flebant, mitténtes sémina sua. V/. Veniéntes autem vénient cum exsultatióne, portántes manípulos suos.
In Missis votivis Tempore Paschali omittitur Graduale, et ejus loco dicitur:
Allelúja, allelúja. V/. Eccli. 44, 15 Sapiéntiam ipsórum narrent pópuli, et laudem eórum núntiet Ecclésia. Allelúja. V/. Ps. 36, 28 Non derelínquet Dóminus sanctos suos: in aetérnum conservabúntur. Allelúja.
IN illo témpore: Dixit Petrus ad Jesum: Ecce nos relíquimus ómnia, et secúti sumus te: quid ergo erit nobis ? Jesus autem dixit illis: Amen dico vobis, quod vos, qui secúti estis me, in regeneratióne, cum séderit Fílius hóminis in sede majestátis suae, sedébitis et vos super sedes duódecim, judicántes duódecim tribus Israël. Et omnis, qui relíquerit domum, vel fratres, aut soróres, aut patrem, aut matrem, aut uxórem, aut fílios, aut agros, propter nomen meum, céntuplum accípiet, et vitam aetérnam possidébit.
Offertorium Isai. 56, 7 Addúcam eos in montem sanctum meum, et laetificábo eos in domo oratiónis meae: holocáusta eórum, et víctimae eórum placébunt mihi super altáre meum.
ACCIPE, quaésumus, Dómine, hóstias quas tibi offérimus: et praesta ; ut, intercedéntibus Sanctis tuis, líbera tibi mente serviámus, et perdoléntis Vírginis Genitrícis Fílii tui amóre inflammémur. Per eúmdem Dóminum.
Communio Joann. 15, 16 Ego vos elégi de mundo, ut eátis, et fructum afferátis ; et fructus vester máneat.
CAELÉSTIBUS refécti mystériis te, Dómine, deprecámur: ut quorum festa percólimus imitántes exémpla ; juxta Crucem Jesu cum María Matre ejus fidéliter adstémus, et ejúsdem redemptiónis fructum percípere mereámur. Per eúmdem Dóminum.
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I servi di Maria, un cammino di amicizia
È l’unico ordine religioso maschile nella storia della Chiesa che non ha tratto origine da un singolo fondatore ma da un gruppo di laici adulti: sette mercanti che, nella ricca Firenze della prima metà del Duecento, decidono di lasciare tutto e di vivere nella solitudine del vicino monte Senario. Ecco la loro storia
di Giovanni Ricciardi
I sette santi fondatori, particolare, Pietro Annigoni (1985), convento di Monte Senario, Firenze
Sulle colline intorno a Firenze, a 18 chilometri dalla città, sorge ancora oggi il Convento di Monte Senario, che fu la culla dei Servi di santa Maria, un ordine religioso fiorito nel clima teso e tormentato del Duecento italiano.
Era Firenze allora una città ricca, non solo del denaro dei banchieri e delle altre numerose corporazioni che l’avrebbero resa sempre più importante nell’Italia del tardo Medioevo. Era ricca dei fermenti e delle contraddizioni che attraversavano la società del tempo e soprattutto la Chiesa, nel suo scontro sempre più duro coll’Impero e nei suoi turbolenti movimenti interni. La Firenze della prima metà del Duecento era una città che si avviava a raddoppiare in breve tempo il numero dei suoi abitanti, già 80mila alla metà del secolo. Venne costruita una nuova cinta di mura, i quartieri si trasformarono in “sestieri” e il suo conio, il fiorino d’oro a 24 carati, era destinato a diventare la moneta più importante negli scambi internazionali dell’epoca.
Sono dunque anni di grande sviluppo economico, promosso da quella nuova borghesia che non sempre aveva conquistato la sua agiatezza con metodi leciti e che faceva del denaro la sua potente arma contro la vecchia aristocrazia feudale.
Ma sono anche gli anni in cui san Francesco d’Assisi inizia la sua predicazione itinerante, che sembra abbia toccato anche Firenze nella Quaresima del 1220. I suoi frati si stabiliranno ben presto nel comune toscano. Un anno prima, erano giunti nella città gigliata i primi discepoli di san Domenico, a cui fu affidata nel 1221 la chiesetta di Santa Maria Novella.
Nel 1233 tutta l’Italia fu attraversata da manifestazioni di pietà che miravano a combattere l’eresia e rinnovare i costumi. - I cronisti del tempo parlarono di un anno allelujatico, perché i predicatori dell’epoca usavano terminare i loro interventi ripetendo tre volte l’esclamazione alleluja. - Nell’agosto di quell’anno, secondo la cronologia tradizionale, sette mercanti fiorentini abbandonarono casa, famiglia e commerci per dedicarsi a una vita di preghiera e di penitenza fuori dal clamore e dai traffici della città.
Questi uomini, noti come i sette santi fondatori dell’ordine dei Servi di Maria, canonizzati nel 1888 da Leone XIII, si stabilirono, con la benedizione del vescovo di Firenze, Ardingo, prima a Cafaggio, subito fuori della città, poi nella solitudine di Monte Senario, dando vita al primo nucleo dell’Ordine. Il fatto che il vescovo abbia benedetto la loro decisione senza opporre particolari obiezioni lascia supporre che essi fossero già noti alla città per il loro particolare fervore e per la speciale devozione a Maria.
La loro storia ci è giunta attraverso un testo noto come Legenda de origine Ordinis, compilato dopo il 1317 a cura di un anonimo membro dell’Ordine che alcuni studiosi identificano con il priore generale di allora, Pietro da Todi. Il quale, oltre al suo, omette di trascrivere i loro stessi nomi, che sono perciò di tradizione incerta, tranne quelli di Bonfiglio e Alessio, l’ultimo a morire, nel 1310.
Si tratta comunque dell’unico Ordine religioso maschile nella storia della Chiesa che non abbia tratto origine da un singolo fondatore, ma da un gruppo di laici adulti, desiderosi di seguire il Signore sotto la protezione della santa Vergine.
Firenze medioevale in una miniatura conservata nella Biblioteca Vaticana
Di questi sette uomini, racconta la Legenda, alcuni erano sposati, altri erano vedovi, altri ancora avevano già in cuor loro intenzione di consacrarsi a Dio nella verginità.
Il loro cammino di amicizia era nato all’interno di una “associazione”, detta “Società maggiore di Nostra Signora” istituita già molti anni prima per praticare la comune preghiera liturgica e l’assistenza ai pellegrini e agli infermi che trovavano ricovero nello “Spedale” di Santa Maria di Fonte Viva, nel paese di San Quirico di Ruballa, alle porte di Firenze.
Scrive a questo proposito la Legenda: «Essi non si conoscevano tra loro, perché risiedevano in zone diverse della città. In seguito però, dapprima uno con l’altro e poi tutti e sette insieme, si trovarono uniti interiormente da una profonda amicizia, da “vincoli di amore” (Os 11, 4). Questa amicizia di carità li portava, con dolcezza e amore, a non poter tollerare di stare lontani gli uni dagli altri: la separazione perfino di un’ora sola era da loro sofferta con grande disagio. L’amicizia, che aveva già legato le loro anime perché gioissero insieme delle cose divine e umane, li ispirò anche ad abbandonare le cose terrene e a dimenticarle del tutto. Essa li aiutò a restare saldi in questo proposito fino a far sorgere in loro l’idea di vivere insieme, in una unità non solo spirituale ma anche concreta» (Legenda 29).
L’approfondirsi di questa amicizia fu perciò la spinta fondamentale alla costituzione di una piccola comunità di preghiera destinata a produrre un frutto ben più redditizio di quanto i sette ex mercanti avrebbero potuto immaginare.
Il loro primo rifugio fu una piccola casa accanto al cimitero dei Frati minori, poco fuori Firenze. Fu allora, secondo la tradizione, che il popolo fiorentino prese a chiamarli “Servi di santa Maria”, un nome che essi non avevano deliberatamente scelto. «Non sono mai riuscito a sapere» testimoniava frate Alessio negli ultimi anni della sua vita «né da me stesso né da altri che questo nome sia stato dato per la prima volta da qualcuno. Perciò soltanto la nostra Signora l’ha dato al nostro Ordine, e questo fatto, come ricordo, era creduto e confermato anche dagli altri compagni miei fratelli» (Legenda 33).
Si legge nelle Costituzioni antiche dell’Ordine: «Poiché alcuni di questi erano legati dal vincolo matrimoniale e non potevano quindi intraprendere il cammino di una vita più stretta, decisero di scegliere una strada media e più comune, più facilmente percorribile tanto dagli sposati quanto dai non sposati».
Era una scelta di vita che affondava le radici nell’ideale monastico ma guardava all’esempio trascinante degli ordini mendicanti che si sviluppavano in quegli anni. Dall’esperienza monastica traeva la vita comunitaria e la regola, dagli ordini mendicanti il contatto costante con la città e l’apostolato della predicazione e della carità. Su consiglio del domenicano Pietro da Verona, a Firenze dal 1244 al 1245, adottarono la regola di sant’Agostino.
Era una scelta di vita che affondava le radici nell’ideale monastico ma guardava all’esempio trascinante degli ordini mendicanti che si sviluppavano in quegli anni. Dall’esperienza monastica traeva la vita comunitaria e la regola, dagli ordini mendicanti il contatto costante con la città e l’apostolato della predicazione e della carità. Su consiglio del domenicano Pietro da Verona, a Firenze dal 1244 al 1245, adottarono la regola di sant’Agostino.
La Mater misericordiae che avvolge col suo manto i Servi di Maria (seconda metà del XV secolo), convento della Santissima Annunziata a Firenze
La loro scelta fu in qualche modo la naturale conseguenza di un cammino comune già intrapreso mentre erano nel “mondo”. Di qui l’accento sulla vita cristiana in quanto tale, a prescindere dallo stato di vita abbracciato (quasi certamente nessuno di loro ricevette gli ordini sacri): «La perfezione di una persona in rapporto a Dio» scrive la Legenda a proposito dei sette «sta nella vita che si riveste, come di un abito, della fede cristiana. Il battesimo è il sacramento della fede: per mezzo suo infatti si acquista la fede, o meglio, la fede ci viene donata da Dio. La penitenza invece ricupera la fede che l’eresia ha distrutto o anche, cancellando la macchia, restituisce alla fede, offuscata dal peccato, la sua primitiva bellezza» (Legenda 19).
Così l’abito nero, in ricordo dell’umiltà e delle pene sofferte dalla Vergine nella passione del Figlio, non era solo un segno di penitenza, ma esprimeva il desiderio gioioso di rivestirsi di quella bellezza.
Aggiunge la Legenda: «Un segno inoltre che la fede è divenuta davvero un orientamento abituale della persona è la gioia o la tristezza nell’agire concreto. Ora questi uomini gloriosi sentivano o gioia o tristezza in tutto ciò che facevano. Quando in un’azione si rendevano conto di tenere il giusto mezzo, immensa era la loro esultanza nel Signore. Se invece si allontanavano dalla via giusta o almeno pensavano di essersene allontanati, ne provavano pentimento con lacrime e dolore. Da questo segno di gioia o tristezza nell’agire, perciò, dobbiamo credere fermamente che essi, ispirati da Dio e aiutati dalla nostra Signora, abbiano posseduto la fede come una qualità profonda e stabile della loro vita» (Legenda 19).
La Legenda si sofferma a lungo sulle virtù di questi frati sottolineandone l’umiltà e la carità proprie di Maria. «Ha guardato all’umiltà della sua serva» (Lc 1, 48). L’elogio di frate Alessio ad esempio è tutto centrato nella descrizione di un uomo che amava i lavori manuali e anche da vecchio osservava puntualmente i suoi turni nella vita comunitaria. Di lui, come degli altri, non è menzionato alcun miracolo. Anzi, a questo proposito, l’anonimo autore della Legenda osserva: «Quello che abbiamo detto sulla loro perfezione e religiosità non è contraddetto dal fatto che non siamo in grado di riferire alcun miracolo da loro compiuto in vita o al momento della morte, o almeno dopo la morte. Certo, tutti o alcuni di loro possono, per un certo tempo almeno, essere stati famosi per i molti miracoli compiuti; ma nessuno di questi è giunto fino a me per poterlo narrare, probabilmente perché è passato tanto tempo e i vecchi del nostro Ordine sono tutti morti, o anche per un altro motivo, che cioè il far miracoli non è segno inequivocabile e privilegiato di perfezione e di spirito religioso.
Altrimenti non potrebbe dirsi perfetto e vero religioso colui per mezzo del quale Dio non avesse mai operato miracoli: il che è senza dubbio falso. Amare invece Dio sopra tutte le cose, praticare la carità verso tutti, essere umili di cuore, questo è l’attributo dei veri e perfetti religiosi. Nostro Signore non ha detto: Imparate da me a risuscitare i morti o a dare la luce ai ciechi; ma: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11, 29); e ancora: “Vi ho dato l’esempio che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amato” (Gv 13, 15. 34)» (Legenda 23).
L’esempio della loro vita comune e la fiamma della loro carità si diffusero ben presto a Firenze. E molti, uomini e anche donne, cominciarono a cercarli per ottenere consiglio e conforto.
Ben presto alla prima ispirazione di una vita sostanzialmente separata dal mondo si affiancherà la carità operosa dell’accoglienza spirituale e verso i poveri, che si concretizzava nell’ospitalità, nell’aiuto fraterno e nell’ascolto: «L’esercizio della carità riguardava infine anche il prossimo di cui cercavano prima di tutto di conoscere le necessità. Partecipavano al dolore degli altri con viscere d’amore e, secondo le loro possibilità, aiutavano i poveri in tutti i loro bisogni, spirituali e materiali. Si interessavano con sollecitudine della situazione altrui: erano cioè contenti con i giusti e piangevano con i peccatori, incoraggiavano i giusti a perseverare nel loro stato di giustizia e spingevano i peccatori a convertirsi perché non toccassero il fondo della loro miseria» (Legenda 37).
Ma il continuo viavai di persone di ogni condizione avrebbe rischiato di soffocare l’originaria ispirazione di una vita ritirata e scandita dai ritmi della preghiera liturgica, sempre preceduta da particolari invocazioni alla Vergine, le cosiddette Reverentiae. È così che, tra il 1245 e il 1247, i sette abbandonano la loro sede primitiva e salgono a Monte Senario, prendendo possesso di un terreno concesso loro dal vescovo. Qui iniziano a costruire il convento e la chiesa che ancora oggi costituiscono il “cuore” dell’Ordine.
Ma a questo nuovo “ritiro” dal mondo corrisponde un nuovo accorrere di donne e uomini, alcuni dei quali chiedono di unirsi al primitivo gruppo dei sette: «Avvenne allora che, mentre il Signore operava con loro e ne confermava la vita» scrive la Legenda «i nostri padri, che pure si trovavano ormai distanti, suscitassero nella gente, con il profumo della loro fama, un sentimento di amore e di devozione, molto più di quanto fossero riusciti a fare quando erano a stretto contatto con il popolo». La Legenda insiste molto sull’immagine del “profumo” per indicare in che modo la santità di vita di questi sette frati attirava un numero sempre crescente di persone disposte non solo ad ascoltarli ma a chiedere di unirsi a loro.
I sette Santi Fondatori (XVIII secolo), A. Masucci, chiesa di San Marcello al Corso, Roma
Tra di essi san Filippo Benizi, entrato tra i Servi nel 1254, che fu ordinato sacerdote nel 1259 e nove anni più tardi priore generale dell’Ordine, fino alla morte, avvenuta nel 1285. Più che i sette, fu lui a governare il rapido passaggio, avvenuto in quegli anni, dalla “picciola compagnia” dei primi alla nascita di un vero e proprio ordine, che già alla morte di Filippo contava qualche centinaio di frati.
Un passaggio che sembra essere avvenuto senza gli strappi e le tensioni interne che caratterizzarono il francescanesimo nascente. Lo sviluppo dell’Ordine apparve naturale e sereno, posto com’era sotto la speciale protezione della Vergine, che i sette considerarono sempre la vera fondatrice dei Servi di Maria. Per umiltà e perché capivano che tutto quello che dalla loro esperienza era nato non veniva da loro, ma da una predilezione speciale della Madonna sulla loro amicizia.
Così affermava ancora frate Alessio, poco prima di morire: «Mai fu intenzione mia e dei miei compagni fondare un nuovo ordine e che dalla comunione reciproca di me e dei miei compagni dovesse germogliare una così grande folla di frati. I miei compagni ed io pensavamo soltanto che fosse stato Dio a ispirarci a vivere assieme per poter fare più facilmente e degnamente la sua volontà, dopo aver abbandonato materialmente il mondo. Tutto questo è da attribuirsi perciò solo alla Nostra Signora ed è quindi da lei che il nostro Ordine prende il nome particolare di Ordine della beata Vergine Maria» (Legenda 24).
AVE COR PATIENTISSIMUM
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