mercoledì 23 ottobre 2013

Il valore sociale della temperanza.


Il valore sociale della temperanza.
Il culto del desiderio del ’68 mina il bene comune




Per capire meglio, dal punto di vista della dottrina cattolica, l’origine e la gravità dei danni prodotti dalla rivoluzione sessantottina, particolarmente di quella sessuale, e per sapere a quali rimedi bisogna ricorrere per guarirne, è bene ricordare che il Sessantotto è stato prodotto da una pubblica esplosione di alcuni vizi sociali, particolarmente di quello dell’intemperanza. Dobbiamo quindi partire dal riscoprire che cosa è l’intemperanza sociale, nella sua qualità di mancanza e anzi di ostacolo del suo contrario, ossia della virtù della temperanza sociale (1). 
  Questo termine può sembrare strano. Ingannati da due secoli di pensiero liberale, siamo ormai abituati a separare la morale dalla politica e quindi a considerare virtù e vizi come qualcosa di strettamente individuale, privato, senza conseguenze nella società: “il corpo è mio e me lo gestisco io”, era del resto uno degli slogan sessantottini. Eppure, quando si parla della virtù di carità, tutti ne colgono le benefiche conseguenze sociali, giuridiche, politiche ed economiche, pensando alle azioni caritatevoli verso poveri, malati, orfani, oppressi e ignoranti; ancor più quando si parla della virtù di giustizia, tutti ne colgono le conseguenze sociali, pensando ai problemi del lavoro e della proprietà. Ma stranamente, quando si parla della virtù di temperanza, si pretende ch’essa non abbia alcun legame con la società e che non provochi conseguenze sociali di rilievo.


In realtà, virtù e vizi determinano profondamente l’orientamento della vita umana e, poiché l’uomo è un essere sociale per natura, essi possono provocare profonde conseguenze nella società: «Nessun vizio, come nessuna virtù, arresta i suoi effetti all’uomo singolo; l’uno e l’altra provocano nella società i contraccolpi della loro azione» 2. Inoltre «ogni virtù si rapporta al bene comune» 3 da conseguire e, per contro, ogni vizio favorisce un “male comune” da evitare; questo vale quindi anche per la temperanza e per l’intemperanza nel loro aspetto sociale.

Temperanza e intemperanza


   Per capire cosa è la virtù sociale della temperanza, sarà bene prima ricordare cosa è la temperanza: questo termine è difatti del tutto scomparso dalla pubblicistica e dal linguaggio corrente e va scomparendo perfino dalle predicazione e dalla pastorale cattoliche.
   La temperanza è quella virtù cardinale che regola l’inclinazione ai piaceri sensibili, contenendoli entro i limiti della ragione illuminata e guidata dalla fede. Essa modera particolarmente i piaceri del tatto e del gusto, quelli cioè che favoriscono la procreazione e la nutrizione, ma in senso lato disciplina anche la generica brama di possedere i beni terreni e di goderne. Esercitando la temperanza, l’uomo diventa padrone di sé e servo di Dio: può cioè impegnare le proprie facoltà realizzando così la propria missione cristiana, «mantenendosi integro e incorrotto per Dio» 4. I frutti prodotti dalla temperanza nella vita dell’uomo sono numerosi e fondamentali: fra loro ricordiamo la pace interiore, la mitezza, l’umiltà, la studiosità, il decoro, lo spirito di sacrificio.
   Al contrario, l’intemperanza è «la rivolta delle passioni della concupiscenza contro la sovrana autorità dell’anima» 5. La cupidigia, condannata dalla Scrittura come «radice di tutti i mali» (1Tim., 6, 10), se viene lasciata libera, «può provocare il massimo sconvolgimento nell’animo umano» 6, per via della situazione causata dal Peccato Originale. Allora l’uomo si abbandona alla brama di possesso e di godimento, che si manifesta nei vizi della gola e ancor più della lussuria: difatti «i piaceri sessuali sono il maggior dissolvente dell’anima» 7, capaci di sovvertire l’interiore gerarchia delle facoltà umane. La concupiscenza scatenata ottenebra l’intelligenza, suscitando fantasie e desideri irrazionali, e seduce la volontà, imponendole le proprie eccessive o pazze esigenze e bramosie. L’uomo finisce col rendersi schiavo di bisogni inesistenti, giustificandoli come necessità assoluta; ad essi sacrifica tutto, non solo salute e ricchezze ma anche la posizione sociale, la dignità e i propri doveri più esigenti e gli affetti più cari. Diventato incapace di governarsi, alla fine egli si trasforma in un automa irresponsabile delle proprie azioni, rendendosi quindi facilmente manipolabile e pilotabile da chi sa suscitare in lui desideri e può esaudirli. Nasce così l’odierno uomo intemperante, uomo senza princìpi né progetti, incoerente, distratto, dissipato, succube delle mode, della propaganda ideologica e dei mezzi di comunicazione di massa; un uomo buono a nulla ma capace di tutto, come diceva un umorista; un uomo che, invece di “aver timor di Dio ma non aver paura del cannone”, come si diceva una volta, all’opposto non ha alcun timor di Dio ma ha paura, non diciamo del cannone, ma perfino del minimo rischio o dolore.
   Se non ritorna in sé e non riprende possesso di sé, quest’uomo è destinato a impantanarsi e ad affogare nella “ebetudine dei sensi”8, nella insensibilità tipica dell’accidia. Non essendo più padrone di sé, egli non può diventare servo di Dio; rifiutando in radice la propria missione di uomo e di cristiano, egli rischia di precipitare nella disperazione e talvolta nella pazzia o perfino nel suicidio. Quanti sono i pazzi o i suicidi la cui tragica fine è provocata non da fattori di “alienazione” o di “disadattamento”, ma dal semplice fatto di aver spento in sé la vita della grazia, e poi perfino la vita spirituale, nella illusione di rincorrere o di mantenere un idolo sensuale al quale hanno sacrificato tutto? Si compie così una sorta di nemesi, anzi una punizione divina: «l’uomo che non crocifigge le proprie passioni, finisce crocifisso da esse» 9.
  Fra le concrete conseguenze della intemperanza, la dottrina cattolica enumera: incontinenza, avventatezza, ira, violenza, egoismo, odio, vana curiosità, incapacità di contemplare e di studiare. Ma particolarmente significative, dal nostro punto di vista, sono altre conseguenze più complesse e gravide di ridondanze sociali: incapacità dell’intelligenza di riconoscere la verità, anzi perdita del senso stesso della realtà; indebolimento del libero arbitrio; rammollimento della sensibilità; rifiuto di fare sacrifici per ottenere beni superiori; svendere la propria dignità per il “piatto di lenticchie” del piacere; incapacità di esercitare la prudenza (con le conseguenti irriflessione, irresolutezza, faziosità); incapacità di progettare la propria vita; dissipazione del propri beni, sia materiali che spirituali; incapacità di agire disinteressatamente.


La temperanza sociale e i suoi frutti


    Evidentemente, la virtù della temperanza riguarda direttamente solo i singoli individui, che meritano o peccano in questo campo, e non ha diretta relazione con la vita civile. Ma, come tutte le virtù, anche la temperanza ha un aspetto sociale, costituito soprattutto dalle conseguenze e dalle ridondanze che il comportamento individuale provoca inevitabilmente nella società, specie se si tratta d’individui che hanno una rilevanza sociale per via del ruolo o della influenza che vi svolgono.
     Cosa è dunque la temperanza sociale? E’ quella virtù che regola e frena le inclinazioni e i desideri di un popolo riguardo i beni terreni. Anche un popolo ha infatti passioni, tendenze, virtù e vizi; il governo e le élites di una nazione hanno appunto la missione, e quindi il dovere morale, di regolarne le passioni e tendenze, suscitarne e favorirne le virtù, correggerne e reprimerne i vizi. In tal modo si favorisce la sanità morale di una nazione, facilitando il perseguimento del bene comune della società. Solo così un popolo potrà adempiere il proprio ruolo nel vasto scenario della civiltà internazionale, e soprattutto potrà compiere la missione affidatagli dalla Divina Provvidenza. «Anche la temperanza può essere rapportata al bene comune: la legge civile interviene per imporne il rispetto nella società» 10, applicando quella legge naturale che comanda di realizzare il bene comune e di proibire ciò che lo impedisce. Ecco perché «lo spirito di temperanza non è meno necessario alla società civile, nel governare gli uomini e nel guidare le nazioni» 11; anzi, «la temperanza è una legge d’importanza suprema, anche sociale» 12. 
Analogamente alla vita morale degl’individui, anche la vita morale di un popolo ha bisogno d’impegnarsi in quegli sforzi che applicano concretamente la virtù di temperanza: sacrificio, austerità, astinenza e moderazione. Anche la società, infatti, deve moderare e regolare il possesso e il godimento dei propri beni e piaceri, non solo evitando gli eccessi, ma anche accettando le privazioni necessarie al proprio progresso o addirittura alla propria sopravvivenza o salvezza. In questo modo, la temperanza preserva il carattere di un popolo, ne tempra il vigore morale, disponendolo a compiere grandi imprese per sé, per l’umanità e soprattutto per Dio e per la sua Chiesa 13. 
  L’importanza della temperanza sociale è confermata anche dal fatto che tutte le virtù sociali (giustizia, onestà, lealtà, generosità, sacrificio, risparmio, etc.) possono svilupparsi efficacemente e radicarsi stabilmente nella vita civile solo se trovano un ambiente sociale preservato dalla temperanza. Ecco perché la politica, come arte di governare un popolo, ha il dovere  morale di educarne lo spirito pubblico favorendo l’esercizio delle virtù sociali, a cominciare da quella della temperanza 14.
La temperanza sociale è anche un fattore che contribuisce potentemente ad elevare o a mantenere alto il livello di civiltà di un popolo. Essa difatti custodisce l’onore e il decoro nazionali: «per le coscienze, per le famiglie e per le nazioni, essa è la vigile guardiana dell’onore e della reputazione» 15.
Possiamo infine notare che la temperanza, nel suo esercizio sociale, è un grande fattore di progresso, di equilibrio, di ordine e quindi di pace per la vita civile. La concordia e l’amicizia civili sono possibili solo se fede e ragione “temperano” la brama di possesso e di godimento dei cittadini e degli ambienti sociali, specialmente delle classi superiori, spingendoli non solo a rinunciare alle brame illecite o troppo pericolose, ma anche a subordinare i propri desideri e bisogni leciti al bene comune e al progresso morale; le Sacre Scritture affermano che «l’astinenza predispone alla saggezza» (Eccl., 2, 3). Da questa sorta di ascesi sociale può dipendere non solo la prosperità e il progresso di un popolo, ma anche la sua stessa sopravvivenza fisica: «il vigore delle razze e il loro avvenire dipendono in gran parte dalla fedeltà con cui gli uomini osservano, secondo il loro stato, la castità cristiana» 16. Le gravi crisi sociali spesso provocate dalle conseguenze di malattie veneree – dalla sifilide di ieri all’Aids di oggi – costituiscono la periodica conferma di quanto la sanità fisica di un popolo dipenda da quella morale e in specie dalla continenza sessuale.
Un esempio tipico, che dimostra l’importanza sociale della temperanza, è quello della vita in famiglia. La temperanza familiare è quella virtù che regola i rapporti fra i coniugi nella loro vita affettiva e sessuale; essa si concretizza nell’esercizio degli atti di castità, pudore, fedeltà, austerità, pazienza, sacrificio, generosità. Sono queste le virtù che permettono alla famiglia di svolgere la propria missione generativa, allevativa ed educativa, contribuendo così al bene comune ed anzi costituendo la cellula e il modello della società. 
Un altro esempio riguarda la vita economica. L’esercizio della temperanza economica abitua un popolo a non pretendere di godere immediatamente del misero frutto delle proprie fatiche ma anzi a sacrificarsi lavorando per impegnare le proprie capacità nell’investire quei frutti, allo scopo di ottenere risultati più grandi e più duraturi, dei quali potranno beneficiare le generazioni future. Questo sacrificio delle brame e delle esigenze immediate ed elementari ha reso possibile lungo i secoli non solo il risparmio, ma anche la capitalizzazione di beni, strumenti e conoscenze, promuovendo così quel progresso sociale e tecnico del quale andiamo tanto fieri e che ci fa tanto comodo 17. Questo progresso però oggi sappiamo solo dilapidarlo, dimenticandoci quanto impegno e sacrificio – ossia quanta temperanza – ha richiesto per conquistarlo.


L’intemperanza sociale e i suoi veleni



Se esiste la virtù della temperanza sociale, esiste però anche il vizio corrispondente della intemperanza sociale. Essa è quel vizio che fomenta pubblicamente la ricerca, il possesso e il godimento irrazionali dei beni e dei piaceri materiali. Per giustificare e promuovere questa concupiscenza, si può giungere a fomentare la rivoluzione sociale e politica, sovvertendo il retto ordine della società in tutti i suoi aspetti, da quello religioso fino a quello economico 18. 
Quando l’intemperanza non si limita a corrompere i singoli cittadini, ma giunge a corrompere l’animo, la mentalità, le abitudini e gli ambienti di un popolo, allora essa diventa una piaga sociale; quando poi giunge ad essere tollerata, protetta o addirittura promossa dalle autorità pubbliche, dalle strutture politiche e dalle leggi civili – come accade oggi! – allora essa diventa una sorta di peccato sociale, perché favorisce potentemente l’allontanamento della società da Dio e dai suoi Comandamenti.
Essendo abituati da lungo tempo a considerare la vita civile come un campo sostanzialmente estraneo al giudizio teologico-morale, questo termine di peccato sociale può anch’esso sembrare strano. Eppure la Chiesa ne ha sempre parlato; recentemente Giovanni Paolo II ha ricordato ch’esso non si limita al campo economico, ma si estende all’intero campo sociale e può arrivare a creare “strutture di peccato”19. Se diventa un peccato sociale, l’intemperanza non è più una faccenda privata ma costituisce un “male comune”, un attentato alla pubblica moralità, anzi una sorta d’ingiustizia sociale: essa colpisce non soli ci singoli cittadini, che ne pagano comunque le conseguenze, ma anche la società come tale nella sua salute morale, nella sua costituzione e nella sua finalità. L’intemperanza sociale infatti «distoglie l’uomo dal suo giusto fine e dal suo fine ultimo che, nel campo temporale, è il bene comune della società»20; cioè impedisce alla società di compiere la propria missione storica e, indirettamente, anche di conseguire il proprio fine soprannaturale, che consiste nel fare la gloria di Dio realizzando la giustizia cristiana riassunta nei Dieci Comandamenti. 
Ad esempio, i peccati contro la castità, quando diventano una piaga sociale, costituiscono indirettamente un vero e proprio attentato alla giustizia e al bene comune sia della società che della intera umanità21. 
L’intemperanza diffonde germi di corruzione che s’insinuano nelle strutture civili provocandone la rovina. Essa semina pensieri, desideri, tendenze ed esigenze che alla lunga provocano piaghe sociali: «La vita inaridisce alle sue sorgenti, la bellezza si cancella dal volto, la bontà si ritrae dal cuore, la famiglie si consumano e si dileguano, le nazioni perdono il loro principio di resistenza e di espansione, il rispetto per le gerarchie si spegne negli scandali; tutti i mali entrano da quella porta e tutte le schiavitù vi sono passate»22. 
 Questa corruzione dei costumi mette a rischio la stessa sopravvivenza della società: «Là dove l’intemperanza trionfa, la società si sgretola riducendosi a un confuso aggregato d’individui che non cercano altro che il loro piacere individuale, a danno del bene comune. (…) L’impudicizia e la lussuria disorganizzano tutte le società umane, dalla famiglia allo Stato, polverizzandole in individui autonomi ripiegati sul loro privato godimento. (…) La depravazione è uno dei fattori più dissolventi della società, è la madre dell’anarchia»23.
Le ideologie politiche che hanno giustificato, difeso e favorito l’intemperanza sociale di massa sono state principalmente il liberalismo e il socialcomunismo. Il primo ha idolatrato la licenza fomentando soprattutto la ribellione all’autorità e alla legge; il secondo ha idolatrato l’uguaglianza fomentando soprattutto l’invidia. Basandosi sulla concupiscenza e sull’orgoglio, entrambi hanno favorito col promuovere, consciamente o inconsciamente, quel tentativo di congiungere massima licenza e massima uguaglianza che definisce l’anarchia, ma hanno prodotto soprattutto soprattutto divisione, rivalità e odio, portando la società sull’orlo della dissoluzione.
Comprenderemo meglio la gravità della intemperanza sociale se ne consideriamo le numerose e terribili conseguenze. Fra l’altro, essa:
- porta a disprezzare e calunniare le virtù sociali, impedendone l’esercizio;
- mina la tempra spirituale e morale di un popolo, indebolendone il vigore;
- distrugge il senso dell’onore popolare, spingendolo a svendere la propria dignità e libertà per un vantaggio materiale;
- rende impossibile la carità sociale, perché esalta il godimento individuale e rende insensibili ai bisogni del prossimo; le persone quindi non si curano più di aiutare i poveri, assistere i malati, soccorrere i deboli, liberare gli oppressi, insegnare agl’ignoranti;
- rende il popolo schiavo di bisogni fittizi, idolatrandoli come se fossero necessità richieste dalla “libertà”, dalla “eguaglianza” o dal “progresso”, alle quali tutto andrebbe sacrificato;
- crea disordine sociale, perché i cittadini non vogliono più mantenere il loro ruolo nella società, illusi dal miraggio di ottenere piaceri, guadagni e posizioni facili, immediati e spropositati (“tutto e subito”);
- spinge i cittadini a procurarsi con l’inganno e la violenza quei beni e quei piaceri, anche illeciti, che desiderano disordinatamente.
Quest’ultima conseguenza è oggi facilmente verificabile. La piaga della violenza sociale proviene direttamente dalla passione disordinata dell’ira; ma «tutte le passioni dell’irascibile hanno la loro origine e il loro scopo nelle passioni del concupiscibile»24: difatti, se un uomo fa violenza ad altri, lo fa perché mosso da un desiderio disordinato di ottenere una cosa ad ogni costo. Furti, rapine, inganni e omicidi derivano quindi dalla passione di ottenere disonestamente una cosa o del denaro o una posizione; le varie forme di violenza sessuale derivano dalla passione di godere di un certo piacere disonesto. Le stesse statistiche ci confermano che la stragrande maggioranza dei crimini viene commessa per soddisfare la concupiscenza, specialmente quella sessuale. Perciò, quando gli odierni guru del neo-liberalismo, sempre ossessionati dal promuovere la licenza e il “libero mercato” dei godimenti, pretendono di affermare che “i vizi non sono crimini”25, il cristiano deve rispondere che ogni crimine è provocato da un vizio e che quindi, se non esistessero vizi, non si commetterebbero più crimini. Se in una società dominasse la virtù della temperanza, mancherebbe il movente principale che spinge i viziosi a commettere crimini, e i delitti scenderebbero a livelli minimi; ne deriverebbero una sicurezza e una pace sociali tali, da favorire potentemente la ricchezza e il progresso di quella società… senza parlare ovviamente dei ben maggiori benefìci spirituali.
Particolarmente gravi sono le conseguenze prodotte dall’intemperanza nel campo della vita familiare. L’intemperanza sociale nega, ostacola e ridicolizza tutte le virtù familiari, a cominciare dalla castità, e mina la famiglia stessa nella sua unità e integrità, impedendole di svolgere la propria preziosa missione sociale. In particolare, l’intemperanza:
- distrugge la fedeltà e l’onestà matrimoniale, elevando l’adulterio a diritto;
- favorisce l’avvilimento della donna, riducendola a strumento di piacere;
- porta al rifiuto e al disprezzo della maternità (bollata come ostacolo al conseguimento del piacere sessuale), alla crisi della natalità e all’abbandono dei figli, che preferiscono liberarsene per dedicarsi a una vita comoda e gaudente;
- provoca il declino dell’autorità genitoriale, spingendo i figli a ribellarsi per emanciparsi precocemente e illecitamente (anche nel campo sessuale) e spingendo l’autorità statate a intervenire surrogando quella paterna e materna;
- rende quasi impossibile l’educazione dei figli, specialmente quella civile, provocando l’abbrutimento delle nuove generazioni e la conseguente piaga sociale della violenza giovanile e addirittura adolescenziale (“bullismo”);
- porta alla dissipazione del patrimonio familiare, che viene sacrificato alla ricerca del piacere più facile e immediato;
- distrugge la pace e la sicurezza familiari, compromettendo quindi anche quelle sociali.
Una volta ridotta a luogo di comodità e di piaceri individuali, la famiglia viene gradualmente sostituita dalla tribù, in cui si pratica il “libero amore” senza provvedere alla educazione dei figli, lasciando che le nuove generazioni crescano nella immoralità e nell’anarchia, dunque nella insicurezza e nella dissipazione. Le conseguenze di questa crisi familiare finiscono col cadere sulla intera società, minacciando la sopravvivenza della stessa vita civile e religiosa. 
Pesantissime sono anche le conseguenze economiche dell’intemperanza sociale. Da una parte, l’esaltazione, la ricerca e la promozione esagerata dei beni porta all’idolatria della produzione e del consumo senza scopi, per cui l’armonia della struttura sociale viene sconvolta e alla lunga si cade nella ipertrofia e nella saturazione economiche. Dall’altra, come reazione eguale e contraria, il predominio della ricchezza artificiale e inutile e il consumismo spingono all’ozio e al rifiuto del sacrificio, per cui le nuove generazioni finiscono col dilapidare gradualmente i frutti del lavoro delle passate generazioni, senza curarsi del bene comune né del destino delle future generazioni. «Spinta alla caccia del piacere, la nostra società fa uno spaventoso consumo di capitali e si applica ad una non meno spaventosa produzione di ricchezze di corruzione»26, ossia di quei beni artificiali, inutili e costosi che servono solo a soddisfare bisogni fittizi e ad alimentare la vanità e la sensualità. E così la intemperanza sociale, sia che spinga lungo la via dell’accumulo irrazionale o lungo quella del conseguente consumismo scialacquatore, produce un comune risultato: la miseria.
La storia è un cimitero pieno dei resti di civiltà ricche, raffinate, scettiche e depravate, come quella del basso impero romano, che si sono rovinate proprio in questo modo: sacrificando religione, famiglia e proprietà ai tirannici idoli dei vizi sociali. In una sua celebra pagina, il filosofo della storia Giambattista Vico già nel 1744 lanciava questo grido di allarme: se la nostra società non smetterà di rinnegare il Cristianesimo per superbia e di dissipare i propri beni per intemperanza, finirà col tornare al livello dei selvaggi, perdendo tutti i benefìci, anche tecnologici e sanitari, che le virtù sociali cristiane le hanno procurato nel corso dei secoli 27. Oggi siamo giunti appunto a questo bivio …


Gli attuali agenti della intemperanza sociale


Se prescindiamo dai fattori di tipo preternaturale, come l’influenza demoniaca, possiamo notare che la propagazione sociale del virus della intemperanza non è un fenomeno casuale né fatale, ma è dovuta principalmente a due agenti umani che potrebbero essere certamente neutralizzati.


Il primo agente è costituito dall’opera nefasta dei “nemici del genere umano”, come li chiama san Paolo, ossia dai fattori di corruzione sociale. Alludiamo a quelle persone di prestigio o di potere e a quelle fazioni o sette che – per convenienza, per compiacenza o addirittura per odio verso Dio – s’impegnano a giustificare, proteggere e propagare i vizi sociali. «L’intemperanza divampa soprattutto a causa delle seducenti malie e delle provocazioni mondane, assurte a vera tecnica scientifica, con le quali un infame connubio di cieche voglie e di sordidi calcoli avvolge il campo sessuale» 28. I più influenti ambienti della “cultura”, della politica, dell’economia e della comunicazione appaiono oggi come vincolati da un patto scellerato che l’impegna ostinatamente – talvolta perfino contro i loro veri interessi – a favorire l’immoralità pubblica e specialmente l’intemperanza sociale. I guru della “cultura” progressista ne elaborano le giustificazioni teoriche, i padrini della politica ne assicurano le coperture giuridiche e istituzionali, certi poteri economici ne forniscono i mezzi, i maghi della pubblicità ne lanciano gli slogan, i simboli e le immagini, per non parlare del mondo dello spettacolo e della moda che ne propongono sfacciatamente i modelli più seducenti e prestigiosi. 
Sottoposto a questa subdola e vasta opera di seduzione, lo spirito pubblico, sia pure di malavoglia e lentamente, finisce spesso con l’accettare una degradazione offertagli da tentatori così prestigiosi, abili e ricattatori. Una volta che i “poteri forti” hanno creato una mentalità che giustifica quel tal vizio e un ambiente che lo favorisce, il pubblico si abitua dapprima a tollerarlo, poi a rassegnarsi e infine a praticarlo. Appena possibile, le autorità costituite avranno cura di legalizzarlo, dapprima come un male da tollerare, ma poi come un “diritto civile” da tutelare, infine come un bene sociale da promuovere a colpi di legge. A questo punto, i ruoli si sono invertiti e la situazione si è capovolta: quel vizio sociale viene addirittura garantito e imposto come se fosse una virtù sociale, mentre l’opposta virtù viene contrastata e vietata come se fosse un vizio che impedisce il libero esercizio di un diritto civile favorendo l’intolleranza e la instabilità. Se applicate questo schema dal generico allo specifico, potete ripercorrere la storia della decadenza della vita pubblica e della legislazione italiane, dalle legge del divorzio in poi, rendendovi conto di come l’intemperanza sociale è stata dapprima diffusa, poi legalizzata e promossa e infine imposta dai pubblici poteri.

Il secondo agente che favorisce l’intemperanza sociale è la sconcertante debolezza dei buoni, l’ignavia di coloro che, pur potendo far molto per impedire il male, non vogliono farlo. Abbiamo qui a che fare col mistero di «una tolleranza che semina i vizi, nutre le negligenze e spinge al male non solo i malvagi, ma perfino i buoni» 29. E’ il solito problema per cui, come ammoniva amaramente sant’Agostino, «tutta la forza dei cattivi sta unicamente nella debolezza dei buoni». Ci si stringe il cuore, nel pensare quanto poco sarebbe bastato per impedire tanti mali morali che affliggono la nostra Italia, quanto sarebbe stato facile respingere fin dall’inizio le prime offensive che promuovevano l’immoralità pubblica e particolarmente l’intemperanza sociale: ossia le prime riviste e mode, i primi film e cartelloni, le prime giustificazioni nei discorsi e sui libri. Sarebbe bastato che le autorità e le istituzioni – allora controllate dalla Democrazia Cristiana – avessero ostacolato gli agenti e i mezzi della corruzione e avessero favorito le numerose forze sane ancora operanti nella vita civile. E’ invece accaduto proprio il contrario: gli agenti del progressismo corruttore hanno goduto dapprima di tolleranze e complicità, poi di favori e onori incredibili, mentre le persone e gli ambienti rimasti fedeli alla loro missione, specialmente educatrice, sono stati calunniati, isolati e ostacolati in modo incredibile, anche da coloro che avevano il compito di difendere la pubblica moralità.
 
D’altra parte, però, ci si allarga il cuore, nel pensare che ancor oggi, nonostante tutto, la causa non è perduta e molto può essere fatto per ricuperare il terreno perduto e per vincere la battaglia della morale pubblica. I malvagi hanno sempre più difficoltà nel sedurre l’opinione pubblica, che non sembra più disposta a seguirli ciecamente verso l’abisso. Sono gli stessi agenti rivoluzionari che ammettono questa loro difficoltà. E’ proprio per questo ch’essi oggi pongono tutte le loro speranze e mettono tutto il loro impegno nell’ottenere dai buoni, o almeno dai “moderati”, una complicità con i propri piani, per poter almeno guadagnar tempo e mantenere le posizioni oggi in pericolo. Ma è appunto quest’assurda e suicida proposta di complicità che gl’Italiani rimasti fedeli, e sono tanti, debbono lealmente e coraggiosamente rifiutare.
Quanto alla virtù sociale della temperanza, oggi non basta promuoverla ma bisogna anche e soprattutto difenderla dai suoi calunniatori, dimostrando ch’essa non solo non porta alla infelicità, ma anzi rende possibile quella poca felicità, quella pace e quel benessere sociale realizzabili su questa terra. Perché questa virtù, come le altre, possa risorgere, però, si presuppone una condizione imprescindibile: il mondo cattolico, a cominciare dalle autorità ecclesiastiche, devono tornare a praticarla, predicarla e favorirla. Non servirà a nulla far propaganda contro l’immoralità, la corruzione e il vizio dilaganti, se contemporaneamente la Chiesa non promuoverà le virtù sociali, a cominciare da quella della temperanza.


Guido Vignelli

Note

1 In questa esposizione seguiamo soprattutto tre testi che riassumono ottimamente l’insegnamento della Chiesa al riguardo: Josef Pieper, Sulla temperanza, Morcelliana, Brescia 1965; Marcel De Corte, De la tempérance, D. M. Morin, Bouère 1982; Antoine Janvier O.P., La virtù della temperanza, Marietti, Torino 1939. 
2 H. Lacordaire O.P., Conferenze, All’Insegna del Salvator Rosa, Napoli 1853, vol. I, conferenza XXII, p. 226. 
3 S. Tommaso d’Aquino, Summa theologica, II-IIae, q. 47, a. 10.
4 S. Tommaso d’Aquino, op. cit., II-Iiae, q. 141, a. 2. 
5 M. De Corte, op. cit., p. 14.
6 S. Tommaso d’Aquino, op. cit., II-IIae, q. 41, a. 2.
7 S. Tommaso d’Aquino, op. cit., II-IIae, q. 153, a. 1.
8 S. Tommaso d’Aquino, op. cit., II-IIae, q.148, a. 6.
9 A. Janvier, op. cit., p. 101.
10 S. Tommaso d’Aquino, op. cit., II-IIae, q. 47, a. 10. 
11 A. Janvier, op. cit., pp. 20-21.
12 Card. M. Massimi, La nostra legge, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1960, p. 226.
13 J. Pieper, op. cit., pp. 61-62.
14 M. De Corte, op. cit., pp. 12 e 16.
15 A. Janvier, op. cit., p. 14.
16 A. M. Janvier, op. cit., p. 14.
17Cfr. l’analisi storico-sociale fatta da mons. Henri Delassus nel suo studio Il problema dell’ora presente, Cristianità, Piacenza 1979, vol. II, capitoli dal XXIII al XXXVII.
18 Cfr. la profonda diagnosi di Plinio Corrȇa de Oliveira, Rivoluzione e Controrivoluzione, Roma 1998, parte I, capitoli V e VII.
19Cfr. ad es. Giovanni Paolo II, esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia, § 6; enciclica Sollicitudo rei socialis, § 36; Catechismo della Chiesa Cattolica, § 1869. Un’analisi del peccato sociale è stata fatta dal p. Victorino Rodrìguez O.P. nel suo articolo su El pecado colectivo, in “Verbo” (Madrid), nn. 223-224 (1983).
20 M. De Corte, op. cit., p. 9.
21 S. Tommaso d’Aquino,, op. cit., II-IIae, q. 154, a. 3.
22 H. Lacordaire, op. cit., conferenza XXIII, p. 242. 
23 M. De Corte, op. cit., pp. 16, 36 e 44.
24 S. Tommaso d’Aquino, op. cit., I-IIae, q. 25, a. 1.
25 E’ questo il titolo di un significativo scritto libertario di Lindsay Spooner, ora riedito da LiberiLibri, Macerata 1998.
26 H. Delassus, op. cit., vol. I, p. 380.
27 G. B. Vico, Princìpi di scienza nuova, Rizzoli, Milano 1990, conclusione.
28 J. Pieper, op. cit., p. 59.
29 S. Giovanni Crisostomo, Commento al Vangelo secondo Matteo, omelia III (trad. it. Edizioni Città Nuova, Roma 1979).




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