Gli ultimi mesi di vita
Nel mese di giugno del 1754 il Santo viene inviato a Materdomini. La minuscola borgata aveva assunto il nome della Vergine «Madre del Signore», alla quale era dedicato un piccolo santuario costruito quasi a picco sulle sorgenti del Sele, fiume che alimenta l'Acquedotto Pugliese. Sant'Alfonso, inviandolo a Materdomini, pensò di fargli dimenticare i giorni tristi della «calunnia».
Intanto padre Francesco Margotta, procuratore della Congregazione, dovendo trattenersi a Napoli per affari amministrativi, condusse con sé fratello Gerardo. Da Napoli Gerardo scriveva: «Io mi trattengo in Napoli per compagnia di padre Margotta, e ora più che mai me la scialo col mio caro Dio!» (cioè me la spasso). Passava di chiesa in chiesa, dove si celebravano le Quarantore, e sostava ore e ore in preghiera. Il resto del tempo lo passava nella visita agli ammalati dell'ospedale «Incurabili», già frequentato da sant'Alfonso.
E giunse anche il giorno del trionfo.
Nella baia di Napoli imperversava una tempesta. Gerardo era uscito di casa per le spese necessarie alla giornata. Al largo della «Pietra del pesce» un gruzzolo di gente urla e si dispera, attirando l'attenzione dei passanti e richiamando altra gente. «Sarà successo qualcosa di grave», pensa Gerardo. In effetti, una barca di pescatori fa fatica a raggiungere la riva, travolta da onde impetuose, che minacciano di capovolgerla.
Nessuno immagina come portare aiuto. Ci pensa fratello Gerardo. Una preghiera silenziosa, occhi al cielo, un segno di croce, il mantello sul braccio, e via: «In nome della Santissima Trinità» dice. Corre, camminando sull'acqua, e «con due ditelle» - come dirà lui stesso a padre Margotta - afferra la prua della barca e la trascina a riva.
La folla delira; dimentica barca e pescatori e va dietro al Santo, scandendo ad alta voce il suo nome. Ma Gerardo s'è già dileguato tra i vicoli del quartiere.
La notizia del miracolo volò sulle ali del vento, e Gerardo non riusciva più a mettere piede in strada, perché tutti gli correvano dietro.
Ritirandosi a casa, sostava nelle botteghe degli artisti a San Biagio dei Librai. Apprese così a usar la cartapesta e, una volta ritornato a Materdomini, si esibì in un celebre Ecce Homo e in alcuni Crocifissi: immagini che si conservano come reliquie. Queste opere, forse poco artistiche, riflettono lo stato d'animo dell'autore. Il Cristo appassionato era stampato nel cuore di Gerardo fin dal tempo di Muro Lucano. Da giovane aveva già impersonato il Crocifisso in una rappresentazione del venerdì santo a Muro, suscitando commozione e lacrime negli astanti.
In seguito, da religioso, si era impegnato con tutte le forze a trasformarsi progressivamente nell'immagine del Redentore. A Napoli, questa crocifissione mistica raggiunge i vertici. Aridità di spirito, desolazione interiore, abbandono, forse il ricordo della calunnia subita, certamente le sofferenze di una malattia che comincia a manifestarsi...
Gerardo a Materdomini
Il padre dei poveri
Trascorso velocemente il soggiorno a Napoli, ritornò a Materdomini. Qui Gerardo trovò un cantiere di lavoro che completava la fabbrica del collegio, e insieme religiosi e laici, ritirati in esercizi spirituali. Il superiore, padre Gaspare Caione, trovò subito l'impiego a fratello Gerardo: gli consegnò le chiavi della portineria. «Queste chiavi devono aprirmi le porte del Paradiso», profetizzò Gerardo. E Materdomini divenne un faro di fede e di carità. Correvano dai cento paesi della Valle del Sele per ascoltare la sua voce, perché aveva «una bocca di Paradiso», che consolava e infondeva speranza; correvano sacerdoti e gentiluomini per consigli e preghiere; correvano soprattutto i poveri. Come il Maestro, passava facendo del bene. «La carità si deve fare sempre», esclamava, privando se stesso e la comunità per dare ai poveri. Il rimprovero del superiore e dei confratelli trovava immancabilmente questa risposta sulle sue labbra: «Dio provvederà». E provvedeva il Signore, come a Capodigiano, come a Monte Sant'Angelo, come tante volte, spalancando i granai dei benefattori al passaggio dell'umile fratello.
Durante l'inverno 1754-1755 a Materdomini «erano caduti tre palmi di neve», e i braccianti, pagati a giornata, restarono senza lavoro per diverse settimane. In quel terribile inverno sbocciò eroica la carità di Gerardo. Alla portineria del convento giungevano a frotte uomini, donne e bambini coperti di stracci, i piedi affondati nella neve. Anche il superiore della comunità restò toccato da quello spettacolo che si ripeteva ogni mezzogiorno. Diede licenza a Gerardo di pensare ai poveri. Non occorreva altro. Il santo portinaio cominciò a svestirsi dei suoi indumenti e, pian piano, svuotò il guardaroba e la dispensa. C'era qualcosa per tutti. I piccoli intenerivano maggiormente il suo cuore: «Noi abbiamo peccato - diceva - e questi innocenti ne portano la pena».
I confratelli notavano la sensibile diminuzione delle provviste e lanciarono l'allarme: «Qui manca tutto e i poveri aumentano!». E Gerardo con tono sicuro rispondeva: «Voi avete il cuore piccolo e non sapete quanto è grande Dio e quanto onnipotente è la sua mano. Se ne dubitate, mettiamolo alla prova: offriamo un pranzo di festa ai poveri, poi vedrete che cosa egli sa fare». Il giovedì seguente Gerardò chiamò a raccolta più di cento poveri. La sua carità aveva contagiato i confratelli che gioiosi servivano a mensa. Al pari del profeta Elia, moltiplicò farina e olio, che non mancò per i confratelli, e i poveri continuarono ad affluire numerosi. Quell'umile fratello era diventato per quanti bussavano alla portineria di Materdomini «il padre dei poveri». Il suo motto era: «Dobbiamo sacrificare tutto per il povero che è l'immagine di Gesù Cristo». Dove non arrivava con le provvigioni, arrivava con le parole, con la presenza affabile e confortatrice.
Teologo improvvisato
Dio lo guidava per la strada ardua, e lo rendeva simile a sé. Ricevette il carisma della profezia, riuscì a tirare peccatori sulla via del bene rivelando i segreti del cuore, e a guidare alla vita monastica e alla perfezione anime consacrate. Anche sacerdoti e teologi più scettici ammisero che la scienza di Gerardo era frutto della sapienza vera, alla quale lo Spirito lo aveva iniziato e alla quale lo guidava per la comprensione dei misteri di Dio. Aveva scritto nei suoi propositi: «Io mi eleggo lo Spirito Santo per unico mio consolatore e protettore del tutto. Egli sia il mio difensore e vincitore di tutte le mie difese. E tu, unica mia gioia, Immacolata Vergine Maria, tu ancora mi sii unica, seconda protettrice e consolatrice in tutto quello che mi accadrà. E sii sempre l'unica mia avvocata appresso Dio».
Al di là di carismi particolari, egli aveva buoni talenti. Durante una discussione con un reverendo di Muro, rivelò con franchezza: «Paesano, avete studiato teologia, ma non siete teologo: questa scienza si acquista con umiltà e orazione». Si capisce meglio così che la teologia in Gerardo, essendo dono che conserva tutto il dinamismo della fede, diventava azione di carità operante e anche azione pastorale. Ciò rendeva la sua opera di fratello coadiutore infaticabile; e faceva anche parte dell'opera pastorale dei padri Redentoristi, che venivano a lui per consigli e per direzione di coscienza.
Il medico Nicola Santorelli ci dà questa testimonianza, raccolta dal Tannoia: «Quando il fratello Gerardo si metteva a parlare dei divini misteri, usciva di sé. Le cose più difficili si rendevano facili in bocca sua e le cose più oscure chiare faceva vedere e capibili. Io, trattandolo, restavo fuori di me, considerando come un povero laico e senza lettere, poteva entrare in sì profondi arcani, spiegarsi e farsi capire». Il segreto? Una fede vissuta in comunione col suo caro Dio, che provocava l'amore e lo guidava ad amare le creature e il mondo. Scriveva così: «Fede ci vuole ad amare Dio; ché, chi manca di fede, manca a Dio. Io son già risoluto a vivere e morire impastato di santa fede. La fede mi è vita, e la vita mi è fede. Oh Dio, e chi vuol vivere senza la santa fede? Ed io vorrei sempre esclamare, e che fossi inteso per tutto l'universo mondo e così dire sempre: evviva la nostra fede del nostro caro Dio! Dio solo merita di essere amato. E come potrò vivere se manco al mio Dio?». Con letture ascetiche e meravigliose contemplazioni arricchì il patrimonio delle proprie cognizioni.La mano scarna, abituata all'ago o alla scopa, fu costretta alla penna. Prima bisogni personali, poi ragioni di apostolato, lo indussero a scrivere; e scrisse inconsapevolmente sulla carta tesori interiori.
Apostolato epistolare
Oltre al Regolamento di vita, scritto da Gerardo a Materdomini nel luglio del 1754 per ordine del padre Francesco Giovenale, conosciamo numerose sue lettere a candide anime claustrali, a peccatori nel vortice del mondo, a venerandi sacerdoti impegnati nel ministero della confessione, a confratelli.Particolarmente ebbe scambio di corrispondenza con le Benedettine di Atella, le Domenicane di Corato, le Clarisse di Muro Lucano, le Monache del Santissimo Salvatore di Foggia, prediligendo il monastero delle Teresiane di Ripacandida, cui non mancava una settimana che dirigesse, o da esse ricevesse, lettere spirituali, accendendosi e stimolandosi reciprocamente all'amore di Dio e all'acquisto della più eroica santità. Il padre Tannoia nota un vasto raggio di azione quando asserisce: «Tante e tante anime dell'uno e dell'altro sesso, già infangate nel vizio e da lui convertite a Dio, dirette da lui, non vivevano che una vita tutta santa. Non potendo di persona, anche per lettera le animava al bene, e sentendo taluno deviato non lasciava mezzo per raddrizzarlo».
In un manoscritto inedito, il padre Landi, altro contemporaneo, rivela: «Scriveva continuamente lettere ad anime tribolate e tentate, ed era meraviglioso il conforto che quelle anime ricevevano dalle sue risposte, le quali erano piene di una singolare devozione e di una dottrina appresa unicamente alla scuola dell'orazione». Le lettere e i frammenti epistolari pervenutici sono appena quarantasette, datati tra il 1751 e il 1755. Il numero esatto o approssimativo di quelle scritte è impossibile stabilirlo, essendo andate le altre disperse o distrutte; ma il chiaro riferimento dei contemporanei dice abbastanza che lo scrivere fu per Gerardo un aspetto particolare della sua missione, un'altra vocazione impostagli dal Signore.
La bella volontà di Dio
Dai suoi scritti, carichi di dialettismi, traspare una dottrina umile e profonda, di un'anima serafica, ed è evidente l'immediatezza con cui riesce a comunicare il suo pensiero e ad essere ascoltato. Ma soprattutto emerge quella sua spiccata nota spirituale che lo rende singolare ed eroico: l'uniformità alla volontà di Dio. «Tutta la nostra perfezione consiste nell'amare il nostro amabilissimo Dio. Ma poi tutta la perfezione dell'amore consiste nell'unire la nostra alla sua santissima volontà», aveva scritto sant'Alfonso. Gerardo, iniziando il suo cammino di consacrato redentorista, formula questo proposito: «Mio caro ed unico amor mio e vero Dio, oggi e per sempre mi rassegno alla vostra divina volontà; e così in tutte le tentazioni e tribolaziòni dirò: Fiat voluntas tua. Terrò sempre gli occhi al cielo per adorare le vostre divine mani che spargono su di me gemme preziose del suo divino volere».
Un santo incolto, che però diventa coltissimo mettendosi in docile ascolto della Parola, imparando a leggerla e interpretarla, e a percepire la gradualità delle infinite esigenze che essa comporta. Gerardo sempre, nella sua vita, con modalità tipiche, esprime la sua passione nel ricercare la volontà di Dio. In ogni sua lettera la invoca, esorta a cercarla, la descrive come «tesoro nascosto e senza prezzo». Per Gerardo «gran cosa è la volontà di Dio», perché in essa si racchiude l'essenza dell'essere cristiano e della santità. Nello sforzo continuo di ricercare la volontà di Dio, egli riesce gradualmente a spogliarsi di tutto e a «stare indifferentissimo in tutto»; libero, povero e felice, gode di una grande pace che gli offre la «bella volontà di Dio».
Il questuante infermo
Sotto il torrido sole d'agosto del 1755 Gerardo era di nuovo in cammino per le aride vie polverose e gli acquitrini ronzanti di zanzare lungo la Valle del Sele per raccogliere fondi alle costruende casa e chiesa di Materdomini. Pallido e sparuto come sempre, non lamentava i suoi malanni, anzi vi scherzava per non destare apprensione. Durante la giornata aveva espettorati sanguigni, sintomi d'etisia che non erano sfuggiti al medico, Nicola Santorelli. A lui Gerardo medesimo aveva annunziato: «Non lo sai che burlando burlando quest'anno me ne muoio tisico?».
Quello che operò di bene e di prodigi durante la sua marcia può suonare esagerato, ma le testimonianze dei contemporanei, mitigando lo spirito critico del nostro tempo, possono far scoprire la potenza di Dio nell'uomo trasformato in sua immagine perfetta. La questua procedette bene fino alla sera del 21 agosto, malgrado la tosse e l'affanno; ma mentre stava inginocchiato nella chiesa di San Gregorio Magno ebbe uno sbocco forte di sangue. Salassato alla tempia da un medico inesperto, non vedendo miglioramento, pensò di far ritorno a Caposele. Arrivò a Buccino la sera dopo, il 22 agosto. Per trascorrere la notte riuscì a trascinarsi in canonica. Assalito ancora dalla tosse violenta, ebbe il secondo sbocco di sangue, e due medici lo salassarono al piede, consigliando subito il cambiamento d'aria. Raggiunse con sforzo Oliveto Citra. Dalla casa dell'arciprete Arcangelo Salvadore, informava il rettore padre Gaspare Caione: «Sappia vostra Riverenza che, mentre stavo inginocchiato nella chiesa di S. Gregorio, mi venne un butto di sangue. Andai con segretezza a ritrovare un medico e gli raccontai quanto era accaduto. Egli mi assicurò che il sangue non veniva dal petto, ma dalla gola; mi osservò che non avevo febbre, né dolore di testa, e perciò mi replicò con molte espressioni che non era niente; mi fece salassare alla vena della testa, mentre io non mi sentivo veruno incomodo. Ieri sera, giunto a Buccino, mi venne la solita tosse e buttai sangue nella stessa maniera. Mandarono a chiamare i medici, i quali mi ordinarono certi medicamenti e fra l'altro mi fecero salassare il piede. Il sangue che buttai lo buttai senza dolori e senza incomodi. Mi dissero ancora che non viene dal petto, e mi ordinarono che subito, la mattina seguente, che è stata questa mattina, fossi partito da quell'aria sottile e mi consigliarono che mi fossi ritirato a Oliveto, tanto per l'aria, quanto per parlare col signor don Giuseppe Salvadore, uomo insigne per medicina.
Io non l'ho trovato, ma mi dice l'arciprete suo fratello che viene questa sera. Tutto questo l'avviso a Vostra Riverenza per sapere come fare. Se volete che seguiti la questua, io la continuerò senza incomodo; perché circa il petto io mi sento meglio di quando stavo in casa. Tosse non ne ho più. Or via, mandatemi un'ubbidienza forte, e sia come sia. Mi dispiace che Vostra Riverenza si metta in apprensione. Allegramente, Padre mio caro, non è niente. Raccomandatemi a Dio, che mi faccia far sempre la sua divina volontà e il suo gusto divino».
Questo documento-relazione, calmo, misurato, preciso, cui non si può né aggiungere né togliere una parola, è una cronaca abbagliante. Rispecchia tutto intero Gerardo Maiella, che rivestito di cinque voti di perfezione, batte la sua strada inchiodato alla volontà di Dio, cadendo improvviso sotto la croce, ed esausto domanda la forza di riprendere il cammino.
Incontro alla morte
A padre Caione, che vedendolo - al ritorno a Materdomini - smunto e arso dalla febbre, non poté trattenere le lacrime, disse: «Padre mio, è volontà di Dio; perciò state allegramente, perché la divina volontà deve farsi sempre allegramente».
All'esterno della sua porta fece appendere una tabella con la scritta: «Qui si sta facendo la volontà di Dio, come vuole Dio e per tutto il tempo che piace a Dio». Tra le quattro anguste pareti l'estasi della sofferenza lo innalzava a vertici di amore: «Se mi trovassi su un'alta montagna, vorrei incendiare il mondo con i miei sospiri», esclamava. E ancora a padre Caione: «Padre mio, io mi figuro che questo letto sia la volontà di Dio, e che io vi stia inchiodato come se stessi inchiodato alla medesima volontà di Dio: anzi mi figuro io e la volontà di Dio siamo diventati la stessa cosa». Ecco un breve testamento pronunziato davanti a Cristo viatico: «Mio Dio, voi sapete che quanto ho fatto e detto, tutto l'ho fatto e detto per gloria vostra. Muoio contento, nella speranza di aver cercato solo la vostra gloria e la vostra santissima volontà».
Ma le ultime ore del crocifisso con Cristo non erano senza sofferenze. Il dolore e il lamento rassegnato del Figlio di Dio riecheggiavano sulle labbra morenti dell'uomo: «Signore, aiutatemi in questo purgatorio in cui mi avete posto!... Sto sempre dentro le piaghe di Gesù Cristo, e le piaghe di Gesù Cristo stanno dentro di me!... Patisco continuamente le pene e i dolori della passione di Gesù Cristo!... Patisco assai, ma tutto è poco, o mio Dio, per voi che moriste per me!». Le ultime parole udite furono: «Mio Dio, mi pento... Voglio morire per fare la vostra volontà!». Aveva desiderato morire abbandonato da tutti, e l'aveva ottenuto. Per una casuale coincidenza il confratello che lo assisteva s'era allontanato per prendere dell'acqua da lui richiesta. Gli altri di comunità non prevedevano imminente la fine. Quando il fratello ritornò con l'acqua, Gerardo boccheggiava, piegato su un fianco. Era l'una e mezza di notte del 16 ottobre 1755.
La notizia della scomparsa del santo fratello volò sulle ali del vento. Una grande folla assalì la chiesetta e si strinse intorno al feretro. Si piangeva per impetrare protezione con la certezza di avere un nuovo protettore in cielo. Piangeva di commozione fratel Carmine Santaniello, incaricato di suonare le campane a morto; alla vista di tale spettacolo di fede lo tradì la commozione e dalle sue mani uscirono scampanii di gloria che si diffusero echeggianti nella vallata del Sele. Con quel suono iniziava una nuova alba pasquale.
Quello che conosciamo di san Gerardo Maiella lo dobbiamo ai suoi confratelli, ma anche alle numerose testimonianze di amici e devoti che lo conobbero in vita o sperimentarono il suo patrocinio dopo la morte. Il suo sepolcro divenne subito meta di pellegrini.
Insieme alla tomba si cominciò a venerare la sua stanza, testimone di preghiere, di penitenze, di sofferenze, di estasi e della visione confortatrice della Vergine Maria prima di volare al cielo. Padre Francesco Santoli la descrive così: «Piccola e disadorna: misurava m. 4 di lunghezza e 3 di larghezza e di altezza. Al lato sinistro un lettino formato da due cavalletti di ferro, sormontati da due rozze tavole di castagno e un duro pagliericcio (saccone di cartocci di granturco).
In un altro angolo un tavolo dozzinale con lucerna ad olio e qualche libro spirituale. Un paio di sedie in legno ed un catino per l acqua. Alle pareti sospese quattro immagini cartacee... Fra la mobilia di Fr. Gerardo non mancava anche un teschio da morto sul tavolo, per il ricordo continuo di sorella morte temporale».
Ora pro nobis peccatoribus, nunc
et in hora mortis nostrae.Amen.
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