mercoledì 23 ottobre 2013

Sia lodato l’Agnello eucaristico!



12 agosto. S. Chiara d’Assisi.

Vedo - e non sembrerà una cosa impossibile a vedersi perché noto a molti e molti - il miracolo della cacciata degli assalitori dal convento di Assisi per opera di Suor Chiara. Ma mi è gioia vederlo, e degli altri non mi curo. Le descrivo ciò che vedo.

Un ben misero conventino, basso basso, dal tetto molto spiovente in avanti, dal piccolo chiostro che grida la grande parola francescana da ogni sua pietra:
“Povertà”, dai corridoietti bui, brevi, stretti, in cui si aprono le porticine delle celle. Spavento e dolore agitano la povera dimora di pace. Il convento è
sonoro come un alveare di voci di preghiera e di gemiti. E veramente come un alveare sbigottito da una invasione sembra questo piccolo convento. Il rumore della lotta esterna penetra pure, unendo le sue voci di ferocia alle voci di pietà.

Non so se sia una conversa quella che porta la notizia che le orde nemiche tentano di invadere il convento o se è qualche assisano che avverte le Clarisse del pericolo. So che lo sgomento raggiunge il suo culmine mentre tutte si precipitano nella cella della Badessa, che è prostrata in preghiera presso la sponda del suo giaciglio e che si alza cerea, consumata, ma tanto bella e solenne, per accogliere le sue figlie impaurite. 

Le ascolta e dà ordine di scendere in coro con ordine e con fede, col silenzio della Regola, “perché” dice
“nessuna cosa per tremenda che sia deve fare dimenticare la santa Regola”. E lei le segue ed entra nel piccolo, misero coretto oltre il quale è la chiesetta
sbarrata, buia, con le uniche due fiammelle: l’una nella chiesa, l’altra nel coro, che splendono calme davanti al ciborio, di là per le anime del mondo che troppo poco si ricordano di Dio, di qua per le anime di Gesù che in quella fiammella perpetua vedono il simbolo di se stesse.

Pregano, sobbalzando ad ogni urlo più forte e più vicino. E quando una, certo una conversa, rientra, urlando senza ritegno per il luogo: “Madre, sono alla
porta!”, le clarisse si piegano come se fossero già colpite a morte.

Suor Chiara no. Anzi si alza in piedi e si porta proprio in mezzo al coro e dice: “Non temete. Essi sono uomini e sono fuori. Noi siamo qui, dentro, e con Gesù. Ricordate la sua parola: ‘Non vi sarà torto un capello’. Noi siamo le sue colombe. Egli non permetterà che le profanino gli sparvieri”.

Di fuori l’onda del tumulto si fa più forte, smentendo le sue parole. Ma lei non si sgomenta. Vedendo che le clarisse sono troppo terrorizzate per poter vincere
dubbio e terrore, si volge a Dio. “Mio dolce Gesù, perdona se la tua povera Chiara osa porre le mani là dove solo un sacerdote può porle. Ma qui non ci sei
che Tu e noi. Una di noi deve dunque dirti: ‘Vieni’. Le mie mani sono lavate di pianto. Possono toccare il tuo trono” e risoluta va al ciborio, lo apre, ne prende non l’ostensorio, come si dice, ma una custodia simile ad una pisside, e non è di metallo prezioso, mi pare di avorio o di madreperla, almeno nell’esterno e per quanto concede di vedere la poca luce. Lo prende e lo tiene con la riverenza con cui terrebbe il Dio bambino. Scende sicura i pochi scalini e va salmodiando verso la porta del convento, e le suore la seguono tremanti e
soggiogate.

“Apri la porta, figlia”.
“Ma sono lì fuori! Sentite che urli e che urti?”.
“Apri la porta, figlia”.
“Ma irromperanno qui dentro!”.
“Apri la porta. È l’ubbidienza!” e Chiara, prima dolce e persuasiva, assume un tono imperioso che non ammette tergiversazioni. È la antica feudataria usa al
comando e la grande Badessa che richiama all’ubbidienza.
La clarissa apre, con un gemito e un tremito che rallenta l’operazione, e le altre, dietro alla Badessa, hanno lo stesso tremito. Si segnano chiudendo gli
occhi, pronte al martirio, si calano il velo per morire velate.

L’uscio è finalmente socchiuso. L’urlo degli assalitori si muta in grido di vittoria e, cessando di usare le armi, si gettano a corsa verso l’uscio che si apre.

Chiara, bianca nel viso come la teca che porta ben alta, unico velo al suo volto di claustrata, fa due, tre, cinque passi fuori della soglia. Non so se veda chi ha di fronte, la sua terra, i suoi nemici. Non credo. I suoi occhi non fanno che adorare il Santissimo che ella porta. Alta e magrissima, consumata come è, bianca come un giglio, lenta nel passo, pare un angelo o un fantasma. A me pare angelo, agli altri deve parere un fantasma. La loro baldanza si frange, si arresta, e vedendole fare un altro passo in avanti si volge in fuga disordinata.

È allora che Chiara vacilla, e curva, come prossima a cadere, si affretta a rientrare oltre la soglia. “Sono fuggiti. Sia benedetto il Signore! Ora... ora sorreggete la vostra madre. Perché io possa riportarlo sul suo altare. Cantate, figlie, e sorreggetemi. Ora è ben stanca la madre vostra!”. Ha infatti un viso da morente, come avesse dato tutte le sue forze. Ma ha anche un sorriso tanto dolce, e tanta forza nelle mani ceree per tenere stretta la custodia!

Rientrano in coro e Chiara depone nel ciborio la teca intonando il “Te Deum” e rimanendo poi riversa sui due gradini dell’altare come fosse morta, mentre le
clarisse continuano l’inno di grazie.

Questo è ciò che vedo. E per me c’è questo solo: poche parole di S. Chiara, nella sua veste paradisiaca, non di clarissa:
«Con questo» e indica il Ss. Sacramento «tutto si vince. Sarà la grande forza del Paradiso e della Terra finché vi saranno i bisogni della Terra. Per i meriti
infiniti del Corpo Ss. annichilito per noi, noi santi del Cielo otteniamo grazie per voi, e per Esso voi ottenete vittorie. Sia lodato l’Agnello eucaristico! Il
Signore ti dia pace e benedizione.»

O SACRUM CONVIVIUM!

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