sabato 15 giugno 2013

La parabola del fariseo e del pubblicano


Le parabole di Gesù
(049)
La parabola del fariseo e 
del pubblicano (523.7 - 523.8)

Un giorno due uomini andati a Gerusalemme per affari salirono al Tempio come si conviene ad ogni buon israelita ogni qualvolta pone piede nella Città Santa. Uno era un fariseo. L'altro un pubblicano.

Il primo era venuto a riscuotere il fitto di alcuni empori e per fare i conti con i suoi fattori che abitavano nelle vicinanze della città. L'altro per versare le imposte riscosse e per invocare pietà in nome di una vedova che non poteva pagare la tassazione della barca e delle reti, perchè la pesca, fatta dal figlio maggiore, le era appena sufficiente per dare da mangiare ai molti altri figli.

Il fariseo prima di salire al tempio era passato dai tenutari degli empori, e gettato uno sguardo in essi empori, vistili pieni di merci e di compratori, si era compiaciuto in se stesso e poi aveva chiamato il tenutario del luogo e gli aveva detto: "Vedo che i tuoi commerci vanno bene".
"Sì, per grazia di Dio. Sono contento del mio lavoro. Ho potuto aumentare le merci e spero di farlo ancora di più. Ho migliorato il luogo, e l'anno veniente non avrò le spese dei banchi e scaffali, e perciò avrò più guadagno."
"Bene! Bene! Ne sono felice! Quanto paghi tu per questo luogo?"
"Cento didramme al mese. E' caro ma la posizione è buona..."
"Lo hai detto. La posizione è buona. Perciò io ti raddoppio il fitto":
"Ma signore" esclamò il negoziante "In tal maniera tu mi levi ogni utile!"
"E' giusto. Devo forse io arricchire te? E sul mio? Presto. O tu mi dai duemilaquattrocento didramme, e subito, o ti caccio fuori e mi tengo la merce. Il luogo è mio e ne faccio ciò che voglio":
Così al primo, così al secondo e al terzo dei suoi affittuari, ad ognuno raddoppiando il prezzo, sordo ad ogni preghiera. E perchè il terzo, carico di figli, volle fare resistenza, chiamò le guardie e fece porre i sigilli di sequestro, cacciando fuori l'infelice.

Poi nel suo palazzo, esaminò il registro dei fattori, trovando di che punirli come fannulloni e sequestrando loro la parte che si erano tenuti di diritto. Uno aveva il figlio morente, e per le molte spese aveva venduto una parte del suo olio per pagare le medicine. Non aveva dunque che dare all'esoso padrone.

"Abbi pietà di me, padrone. Il mio povero figlio sta per morire e dopo farò dei lavori straordinari per rifonderti ciò che ti sembra giusto. Ma ora, tu lo comprendi, non posso".
"Non puoi? Io ti farò vedere se puoi o non puoi". E andato col povero fattore nel frantoio lo privò anche di quel resto di olio che l'uomo si era tenuto per il misero cibo e per alimentare la lampada che permetteva di vegliare il figlio nella notte.


Il pubblicano invece, andato dal suo superiore e versate le imposte riscosse, si sentì dire: " Ma qui mancano trecentosettanta assi. Come mai ciò?"
"Ecco, ora ti dico. Nella città è una vedova con sette figli. Il primo solo è in età da lavorare. Ma non può andare lontano da riva con la barca perchè le sue braccia sono deboli ancora per il remo e la vela, e non può pagare un garzone di barca. Stando vicino a riva poco pesca, e il pescato basta appena a sfamare quelle otto infelici persone. Non ho avuto cuore di esigere la tassa".
"Comprendo. Ma la legge è legge. Guai se si sapesse che essa è pietosa! Tutti troverebbro ragioni per non pagare. Il giovinetto cambi mestiere e venda la barca se non possono pagare":
"E' il loro pane futuro.... e è il ricordo del padre":
"Comprendo. Ma non si può transigere":
"Va bene. Ma io non posso pensare otto infelici privati dell'unico bene. Pago io i trecentosettanta assi."


Fatte queste cose, i due salirono al Tempio, e passando presso il gazofilacio il fariseo trasse con ostentazione una voluminosa borsa dal seno e la scosse sino all'ultimo picciolo nel Tesoro. In quella borsa erano le monete prese in più ai negozianti e il ricavato dell'olio levato al fattore, e subito venduto ad un mercante.
Il pubblicano invece gettò un pugnello di piccioli dopo aver levato quanto gli era necessario al ritorno al suo luogo. L'uno e l'altro dettero perciò quanto avevano. Anzi, in apparenza, il più generoso fu il fariseo perchè dette fino all'ultimo dei piccioli che aveva seco.
Però occorre riflettere che nel suo palazzo egli aveva altre monete e aveva crediti aperti presso dei ricchi cambiavalute.


Indi andarono davanti al Signore. Il fariseo proprio avanti, presso il limite dell'Atrio degli Ebrei, verso il Santo; il pubblicano in fondo, quasi sotto la volta che portava nel Cortile delle Donne, e stava curvo, schiacciato dal pensiero della sua miseria rispetto alla Perfezione divina. E pregavano l'uno e l'altro.
Il fariseo, ben ritto, quasi insolente, come fosse il padrone de luogo e fosse lui che si degnasse di ossequiare un visitatore, diceva: "Ecco che sono venuto a venerarti nella Casa che è la nostra gloria. Sono venuto benchè senta che Tu sei in me perchè io sono giusto. So esserlo. Però, per quanto sappia che soltanto per mio merito sono tale, ti ringrazio, come è legge, di ciò che sono.
Io non sono rapace, ingiusto, adultero, peccatore come quel pubblicano che ha gettato contemporaneamente a me un pugnello di piccioli nel Tesoro. Io, lo hai visto, ti ho dato tutto quanto avevo meco. Quell'esoso, invece, ha fatto due parti e a Te ha dato la minore. L'altra, certamente, la terrà per gozzoviglie e le femmine. Ma io sono puro. Non mi contamino io. Io sono puro e giusto, digiuno due volte alla settimana, pago le decime di quanto possiedo. Si. Sono puro, giusto e benedetto, perchè santo. Ricòrdatelo, o Signore."


Il pubblicano, dal suo angolo remoto, senza osare di alzare lo sguardo verso le porte preziose dell'hecol, e battendosi il petto pregava così: "Signore, io non son degno di stare in questo luogo. Ma Tu sei giusto e santo, e me lo concedi ancora perchè sai che l'uomo è peccatore e se non viene da Te diviene un demonio. Oh! mio Signore! Vorrei onorarti notte e giorno e devo per tante ore essere schiavo del mio lavoro. Lavoro rude che mi avvilisce perchè è dolore al mio prossimo più infelice. Ma devo ubbidire ai miei superiori perchè è il mio pane. Fa', o mio Dio, che io sappia temperare il dovere verso i superiori con la carità verso i miei poveri fratelli, perchè nel mio lavoro non trovi la mia condanna.
Ogni lavoro è santo se operato con carità. Tieni la tua carità sempre presente al mio cuore perchè io, miserabile qual sono, sappia compatire i miei soggetti come Tu compatisci me, gran peccatore. Avrei voluto onorarti di più, o Signore. Tu la sai. Ma ho pensato che levare il denaro destinato al Tempio per sollevare otto cuori infelici fosse cosa migliore che versarlo nel gazofilacio e poi far versare lacrime di desolazione a otto innocenti infelici. Però se ho sbagliato fammelo comprendere, o Signore, e io ti darò fino all'ultimo picciolo, e tornerò al paese a piedi mendicando un pane.
Fammi capire la tua giustizia. Abbi pietà di me, o Signore, perchè io sono un gran peccatore".

Chi si umilia sarà esaltato,
chi si esalta sarà umiliato.

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