COSI' Maria Valtorta descrisse il 16 settembre 1944 ciò che vide
16 settembre.
In alto il più puro
cielo di settembre, ridente in un’aurora soavissima. In basso
un breve pianoro fra scoscendere di coste montane molto alte, molto selvose, molto rocciose.
Un breve pianoro dall’erbetta corta e smeraldina, ancor tutta
lucida per il pianto della rugiada, ma già prossima a scintillare di gemmeo
riso per il bacio del sole.
In alto, sul puro cielo
così azzurro e soave, fisso un fiammeggiante personaggio che
non pare fatto che di incandescente fuoco. Un fuoco il cui folgoreggiare è più
vivo di quello del sole che sbuca da dietro una giogaia selvosa con un fasto di
raggi e di splendori per cui tutto si accende di letizia.
Questo essere di fuoco è
vestito di penne. Mi spiego. Pare un angelo perché due immense
ali lo tengono sospeso a fisso sul cobalto immateriale del cielo
settembrino, due immense
ali aperte che stagliano una traversa di croce a cui fa sostegno
il corpo splendente.
Due immense ali che sono candore di incandescenza aperte
sul rutilare dell’incandescenza del corpo vestito di altre ali che tutto lo
fasciano, raccolte come sono con le loro soprannaturali penne di perla, diamante
e argento puro, intorno alla persona. Pare che anche il capo sia fasciato
in questa singolare veste piumosa. Perché io non lo vedo. Vedo solo, là dove
dovrebbe essere quel volto serafico, un trapelare di così vivo splendore che ne resto come
abbacinata.
Devo pensare ai fulgori più vivi che ho visto nelle
paradisiache visioni per trovare un qualcosa di simile. Ma questo è ancor più vivo. La croce di
piume accese sta fissa sul cielo col suo mistero.
In basso, un macilento
fraticello, che riconosco per il Padre mio serafico 1, prega
a ginocchi sull’erba, poco lungi da una grotta nuda, scabra, paurosa come
balza d’inferno.
Il
corpo distrutto pare non abiti nella tonaca grave e tanto larga
rispetto alle membra. Il collo esce, di un pallido bruno, dalla cocolla 2 bigiognola, un colore
fra quello della cenere e quello di certe sabbie lievemente giallognole.
Le mani escono coi
loro polsi sottili dalle ampie maniche e si tendono in preghiera, a palme
volte all’esterno e alzate come nel “Dominus vobiscum”3. Due mani brunette un
tempo, ora giallognole, di persona sofferente, e macilente.
Il viso è un sottile volto che pare scolpito nell’avorio vecchio, non bello né regolare, ma
che ha una sua particolare bellezza fatta di spiritualità.
Gli occhi castani sono
bellissimi. Ma non guardano in alto. Guardano, ben aperti e
fissi, le cose della terra. Ma non credo che vedano. Stanno aperti, posati
sull’erba rugiadosa;
pare studino il ricamo bigiognolo di un cardo selvatico e quello
piumoso di un finocchio selvatico, che la rugiada ha tramutato in una verde
1 San Francesco d’Assisi, verso il quale la scrittrice
si era sentita
trasportata fin da ragazza, entrando poi nel suo
Terz’Ordine.
2 cocolla è nostra correzione da coccola
3 Vedi la nota 2 di pag. 198.
“aigrette” diamantata.
Ma sono certa che non vede niente. Neppure il pettirosso che
scende con un cinguettio a cercare sull’erba qualche piccolo seme.
Prega.
Gli occhi sono aperti.
Ma il suo sguardo non va al di fuori, ma al di dentro di sé.
Come e perché e quando
si accorga della croce viva che è fissa nel cielo, non so.
L’abbia sentita per attrazione o l’abbia vista per chiamata interna, non so.
So che alza il volto e
cerca con l’occhio che ora si anima di interesse, cosa che
conferma la mia persuasione della sua precedente assenza di vista per l’esterno.
Lo sguardo del mio Padre
serafico incontra la grande, viva, fiammeggiante croce.
Un attimo di stupore.
Poi un grido: “Signore mio!”, e Francesco ricade un poco sui
calcagni rimanendo estatico, col volto levato, sorridente, piangente le due prime
lacrime della beatitudine, con le braccia più aperte...
Ed ecco che il Serafino
muove la sua splendente, misteriosa figura. Scende. Si avvicina.
Non viene sulla terra. No. È ancora molto in alto. Ma non più come era prima.
A mezza via fra cielo e terra. E la terra si fa ancor più luminosa per questo
vivo sole che in questa beata aurora si unisce e soverchia l’altro d’ogni giorno.
Nello scendere, ad ali tese sempre a croce, fendendo l’aria non per moto di penne ma per proprio
peso, dà un suono di paradiso. Qualcosa che nessuno strumento
umano può dare. Penso e ricordo il suono del globo di Fuoco della Pentecoste
4...
Ed ora ecco che, mentre
Francesco più ride, e piange, e splende, nella gioia estatica,
il Serafino apre le due ali - ora capisco bene che sono ali - che stanno verso il mezzo
della croce. E appaiono inchiodate sul legno le santissime piante
del mio Signore, e le sue lunghe gambe, di uno splendore, in questa visione,
così vivo come lo hanno le sue membra glorificate in Paradiso 5. E poi si
aprono due altre ali, proprio al sommo della croce. E la vista mia, e credo 6 anche
quella di Francesco, per quanto egli sia sovvenuto da grazia divina, ne hanno
sofferenza di gioia per il vivo abbaglio.
Ecco il tronco del
Salvatore che palpita nel respiro... ed ecco, oh! ecco il Fuoco
che solo una grazia permette fissare, ecco il Fuoco del suo viso che
appare quando il sudario
delle scintillanti penne è tutto aperto. Fuoco di tutti i
vulcani e astri e fiamme, circondato da sei sublimi ali di perle, argento e
diamante, sarebbe ancor
poca luce rispetto a questo indescrivibile, inconcepibile splendere dell’Umanità Ss. del
Redentore confitto sul suo patibolo.
Il volto, poi, e i
cinque fori delle piaghe, non trovano riscontro in nessun paragone
per esser descritti. Penso... penso alle cose più splendenti... penso
persino alla luce
misteriosa che emana il radio. Ma, se quanto ho letto è vero, questa
luce è viva ma di un argento-blu di stella, mentre questa è condensazione di
sole moltiplicata per un numero incalcolabile di volte.
4 Nella visione del 28 maggio, pag. 274.
5 Nella visione del 10 gennaio, pag. 29.
6 credo è nostra correzione da vedo
La vetta della Verna
deve apparire come se mille vulcani si fossero aperti intorno
ad essa a farle corona. L’aria, per la luce e il calore, che arde e non
brucia, che emana dal
mio Signore crocifisso, trema con onde percepibili all’occhio,
e steli e fronde sembrano irreali tanto la luce penetra anche l’opacità dei corpi e li
fa luce...
Io non mi vedo. Ma penso
che al riflesso di quella luce la mia povera persona deve
apparire come fosforescente. Francesco, poi, su cui la luce si riversa e lo investe
e penetra, non pare più corpo umano. Ma un minore serafino, fratello di quello che ha dato le
sue ali a servizio del Redentore.
Ora è quasi riverso,
Francesco, tanto è piegato indietro, a braccia completamente aperte, sotto il suo Sole Iddio
Crocifisso! È immateriale all’aspetto tanto la
luce e la gioia lo penetrano. Non parla, non respira, materialmente.
Parrebbe 7 un morto glorificato se non fosse in quella posa che richiede almeno un
minimo di vita per sussistere. Le lacrime che scendono, e forse
servono a temperare l’umana arsura di questa mistica fiamma, splendono come rivi di diamante
sulle guance magre.
Io non odo nessuna
parola né di Francesco né di Gesù. Un silenzio assoluto, profondo,
attonito. Una pausa nel mondo che è intorno al mistero. Per non
turbare. Per non
profanare questo sacro silenzio dove un Dio si comunica al suo benedetto.
Contrariamente a quanto sarebbe da supporsi, gli uccelli non si esaltano a più acuti trilli e lieti voli per questa festa di luce, non danzano farfalle o libellule, non guizzano lucertole e ramarri. Tutto è fermo in un’attesa in cui sento l’adorazione degli esseri verso Colui per cui furono fatti. Non c’è più neppure quella brezza lieve che faceva rumor di sospiro fra le fronde. Più neppure quel suono arpeggiato e lento di un’acqua nascosta in qualche cavo di pietra, e che prima gettava, come perle rare, dentro per dentro 8, le sue note su scala tonata. Niente. Vi è l’Amore. E basta. Gesù guarda e ride al suo Francesco. Francesco guarda e ride al suo Gesù... Basta.
Contrariamente a quanto sarebbe da supporsi, gli uccelli non si esaltano a più acuti trilli e lieti voli per questa festa di luce, non danzano farfalle o libellule, non guizzano lucertole e ramarri. Tutto è fermo in un’attesa in cui sento l’adorazione degli esseri verso Colui per cui furono fatti. Non c’è più neppure quella brezza lieve che faceva rumor di sospiro fra le fronde. Più neppure quel suono arpeggiato e lento di un’acqua nascosta in qualche cavo di pietra, e che prima gettava, come perle rare, dentro per dentro 8, le sue note su scala tonata. Niente. Vi è l’Amore. E basta. Gesù guarda e ride al suo Francesco. Francesco guarda e ride al suo Gesù... Basta.
Ma ora ecco che il Volto
glorificato, tanto luminoso da parere quasi a linee di luce
come è quello del Padre Eterno, si materializza un poco. Gli occhi prendono quel
fulgore di zaffiro acceso di quando opera miracolo. Le linee divengono severe,
imponenti, come sempre in quelle ore, imperiose, direi. Un comando del Verbo
deve andare alla sua Carne; e la Carne obbedisce. E dalle cinque piaghe saetta cinque strali,
cinque piccoli fulmini, dovrei dire, che scendono senza zigzagare
nell’aria ma a perpendicolo, velocissimi, cinque aghi di luce insostenibile e che
trapassano Francesco...
7 Parrebbe è nostra correzione da Parebbe
8 dentro per dentro è espressione ricorrente nella
scrittrice e significa ogni
tanto, di tanto in tanto
Non vedo, è naturale, le
piante, coperte dalla veste e dalle membra, e il costato coperto dalla tonaca.
Ma le mani le vedo. E vedo che, dopo che
le punte
infuocate sono entrate e
trapassate - io sono come dietro Francesco - la luce, che è
dall’altra parte, verso il palmo, passa dal foro sul dorso. Paiono due
occhielli aperti nel
metacarpo e dai quali scendono due fili di sangue che scorrono lenti giù per i polsi, sugli
avambracci, sotto le maniche.
Francesco non ha che un
sospiro così profondo che mi ricorda quello estremo dei morenti.
Ma non cade. Resta come era ancor per qualche tempo. Sinché il
Serafino, di cui mai ho
visto il volto - ho visto di lui solo le sei ali - ridistende
queste sublimi ali come velo sul Corpo santissimo e lo nasconde, e con le
due ali iniziali risale, sempre più oltre, nel cielo, e la luce diminuisce,
rimanendo infine solo quella di un sereno mattino solare.
E il serafino
scompare oltre il cobalto del cielo che lo inghiotte e si chiude sul mistero
che è sceso a far beato un figlio di Dio e che ora è risalito al suo regno.
Allora Francesco sente il dolore delle ferite e con un gemito, senza alzarsi in piedi, passa dalla posizione di prima a sedersi in terra. E si guarda le mani...
e si scopre i piedi. E
socchiude la veste sul petto. Cinque rivoli di sangue e cinque
tagli sono il ricordo del bacio di Dio. E Francesco si bacia le mani e si
carezza costato e
piante, piangendo e mormorando: “Oh, mio Gesù! Mio Gesù! Che amore!
Che amore, Gesù!... Gesù!... Gesù!...”.
E tenta porsi in piedi,
puntando i pugni al suolo, e vi riesce con dolore delle palme
e delle piante, e si avvia, un poco barcollante come chi è ferito e non
può appoggiarsi al suolo
e vacilla per dolore e debolezza di svenamento, verso il suo
speco, e cade a ginocchi su un sasso, con la fronte contro una croce di solo
legno, due rami legati insieme, e là riguarda le sue mani sulle quali pare formarsi
una testa di chiodo che penetra a trapassa, e piange. Piange d’amore, battendosi
il petto e dicendo: “Gesù, mio Re soave! Che m’hai Tu fatto? Non per il dolore, ma per
l’altrui lode mi è troppo questo tuo dono! Perché a me, Signore,
a me indegno e povero? Le tue piaghe! Oh! Gesù!...”.
Non odo altro né vedo
altro.
Mi pare di avere, quando
ero fra i vivi, udito descrivere in altro modo la visione. Mi pare dicessero che era un Serafino
col volto di Cristo. Io non so che farci. Io l’ho vista
così e così la descrivo.
Io non sono mai stata
alla Verna, né in nessun luogo francescano, per quanto sempre
l’abbia desiderato. Ignoro perciò la topografia dei luoghi nella maniera
più assoluta.
Magna promisimus
Maiora promissa sunt nobis