sabato 30 gennaio 2016

L'AFFASCINANTE STORIA DI MOSÈ

STORIA DI MOSÈ



Nascita e salvezza di Mosè (Es 2,1-10)

All’epoca in cui nacque Mosè, una legge dispoti­ca, ricordata dalla Scrittura, imponeva che i nati maschi fossero soppressi. Ma i suoi genitori non vollero sottostare a quella legge, perché nel volto del bambino già allora splendeva la bellezza che tutti in seguito avrebbero ammirato.
Costretti, tuttavia, a cedere alle minacce del ti­ranno, affidarono il bambino alle acque del fiume, preoccupandosi che non venisse subito sommerso.
Lo misero in un canestro spalmato di pece e lo abbandonarono così alla corrente. (Questi partico­lari ci sono riferiti con esattezza dagli storici della sua vita).
Il canestro, come guidato dalla mano di Dio, en­trò in uno dei canali laterali del fiume e finì per es­sere sbalzato dalla corrente sui bordi del canale stesso.
La figlia del re che passava lungo i prati proprio là dove il canestro si era fermato, lo scoprì senten­do uscirne dei vagiti. Piena di stupore per la bellezza del bambino, de­cise di portarlo con sé, di curano e tenerlo come un figlio.
Ma il bambino, per istinto di natura, non si la­sciava allattare da estranee per cui, alcune persone avvedute, appartenenti alla sua stessa razza, riusci­rono a farlo allattare da sua madre.
Uscito di fanciullezza, dopo che era stato educa­to nelle discipline di quel popolo straniero, egli ri­cusò gli onori che avrebbe potuto ottenere presso di loro; si staccò dalla madre fittizia che l’aveva te­nuto come figlio e tornò tra i compatrioti presso la propria madre.

Fuga nel deserto di Madian (Es 2, 11‑12)

Un giorno, imbattutosi in 1m ebreo e in un egi­ziano che litigavano, volle prender le difese del compatriota ed uccise l’egiziano.
In altra occasione si adoperò per pacificare due ebrei che rissavano furiosamente. Inutilmente ri­cordò a essi che erano fratelli e avrebbero dovuto risolvere la controversia non già con l’ira ma nello spirito della reciproca comunanza di stirpe: quello dei due che aveva torto lo costrinse ad andarsene ed egli approfittò dell’offesa per acquistarsi una saggezza più alta[1].
Portatosi lontano, fuori dai rumori del mondo, in luoghi solitari, si mise al servizio di una persona straniera molto saggia e sperimentata nel giudicare i costumi e la condotta degli uomini[2].
Fu sufficiente l’episodio dell’assalto dei pastori perché quest’uomo comprendesse il valore del gio­vane Mosè.
Costui infatti si rese conto che Mosè non si era scagliato contro i pastori a scopo di lucro o di dife­sa ‑ essi non l’avevano provocato ‑ ma perché, giudi­cando un onore potersi battere per la giustizia, ave­va voluto punire appunto il loro ingiusto comporta­mento.
Fu questo atto che gli meritò l’ammirazione del suo padrone straniero, il quale finì per dargli in mo­glie la figlia, tenendo in gran conto il coraggio del giovane e non badando invece alla sua povertà. Lo lasciò libero di condurre il genere di vita che più gli gradisse.
Così Mosè, divenuto pastore di pecore, continuò a restare nel deserto, lontano dalla confusione del­la folla, pienamente soddisfatto di quella vita.

La vocazione (Es 3, 2‑22)

Fu nel tempo in cui si trovava nel deserto che, secondo la testimonianza della storia, Dio gli si ma­nifestò in modo miracoloso.
Un giorno, in pieno meriggio, fu colpito da una luce così intensa che superava quella del sole e qua­si lo accecò. L’insolito fenomeno, pur avendolo sba­lordito, non gli impedì di levare gli occhi verso la cima del monte, dove vide un chiarore di fuoco at­torno a un cespuglio, i cui rami però continuavano a restare verdi anche in mezzo alle fiamme, come se fossero coperti di rugiada.
A quella vista Mosè esclamò: «Andrò a vedere questa grande visione» (Es 3, 3) e mentre pronun­ziava queste parole avvertì che il chiarore del fuo­co raggiungeva contemporaneamente e incredibil­mente tanto i suoi occhi come il suo udito.
Da quelle fiamme avvampanti vennero infatti a lui come due grazie diverse: l’una attraverso la lu­ce dava vigore agli occhi, l’altra faceva risuonare al­le orecchie ordini santi.
La voce proveniente dal chiarore ingiunse a Mo­sè di levare i calzari e di salire a piedi nudi verso il luogo in cui splendeva la luce divina.
Poiché ritengo superfluo, per l’intento che mi sono proposto, dilungarmi su tutte le singole vicen­de esteriori della vita di Mosè, mi basta far notare che l’apparizione divina gli donò tanta forza che fu in grado di accettare l’ordine di liberare il popolo dalla schiavitù degli Egiziani.
Egli fece esperienza della forza ricevuta, attra­verso prove che Dio gli comandò di eseguire lì sul momento. Fatta cadere per terra una verga che te­neva in mano, essa si trasformò in serpente, ma non appena l’ebbe raccolta da terra, ritornò come prima.
Fu poi la volta di una mano che, appena estrat­ta dal seno, mutò il colore della pelle, divenendo bianca come neve, ma rimessa al posto di prima riacquistò il colore naturale.

Ritorno in Egitto (Es 4, 18‑27)

Decise allora di ritornare in Egitto conducendo con sé la moglie e il figlio. Nel viaggio, come dice la storia, gli andò incontro un angelo, che gli minac­ciò la morte, ma la donna riuscì a placarlo con il sangue della circoncisione del figlio.
Anche Aronne, suo fratello, venne a incontrarlo e a parlargli secondo l’ordine che aveva ricevuto da Dio.

Per la liberazione del popolo (Es 4, 28‑31; 5, 1‑19)

Il popolo che viveva disperso in mezzo agli Egi­ziani e oppresso sotto i lavori forzati, fu da loro convocato in assemblea, dove essi promisero a tut­ti la liberazione dalla schiavitù. Il proposito fu ma­nifestato al sovrano da Mosè stesso, ma quello si mise a opprimere ancor più gli Israeliti, mostran­dosi più esigente con i sovraintendenti ai lavori. Or­dini più severi imposero la raccolta di una quanti­tà maggiore di argilla, di paglia e di stoppa.

Gli indovini egiziani e i serpenti (Es 7, 8‑13)

Quando il Faraone, tale era il nome del tiranno degli egiziani, fu informato dei portenti che Mosè aveva compiuto in mezzo al suo popolo, escogitò dei raggiri servendosi degli indovini. Era convinto che le arti magiche di costoro avrebbero potuto ripro­durre lo stesso portento delle verghe trasformate da Mosè in serpente al cospetto di tutti gli Egiziani.
In realtà, anche le verghe degli indovini diven­nero serpenti, ma il serpente uscito dalla verga di Mosè si lanciò su di loro e li divorò.
Questo bastò a smascherare l’errore e mostrare che la magia aveva saputo procurare alle verghe sol­tanto una vita effimera, capace di destare l’ammi­razione di persone facili a lasciarsi ingannare.





[1] L’interpretazione del soggiorno di Mosè a Madian data qui da Gregorio, deriva dalla Vita di Mosè di Filone (Vita Moy­sis 1, 9, 46‑50), che lo presenta come un periodo di purificazio­ne ascetica.
[2] Si tratta di Jetro, sacerdote di Madian. Cf Es 2, 16; 18, 1.

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