giovedì 28 gennaio 2016

Patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto

Patì sotto Ponzio Pilato, 
fu crocifisso, morì e fu sepolto

 Accolta la realtà dell'incarnazione del Verbo nella persona di Cristo, il cristiano deve credere alla sua vita sofferente, che si concluse con la morte [in croce]. Che cosa ci avrebbe giovato il nascere - si chiede san Gregorio - , se poi non avessimo trovato un redentore ?

 Questo mistero, che cioè Cristo sia morto per noi, è talmente sublime, che il nostro intelletto riesce a farsene appena una pallida idea. Impossibilen penetrarlo sino in fondo! Davvero, nella vicenda del Cristo si è compiuta un'opera divina quasi incredibile a raccontarsi (cf. At 13, 41; Ab 1, 5). La gratuita carità di Dio nei nostri riguardi è stata così munifica, che stentiamo a percepirne la portata.
 Non dobbiamo tuttavia credere che, morendo il Cristo, sia morta la
stessa divinità. Fu soggetta alla morte la natura umana unita al Verbo.
Cristo morì in quanto uomo, non certo in quanto era Dio. Vediamo di spiegarci meglio.
Quando muore uno di noi, ossia quando l'anima si separa dal corpo, è in quest'ultimo che si spegne la vita, giacché l'anima sopravvive. In Gesù sopravvissero e l'anima e la divinità.

 Si affaccia a questo punto una obiezione: se non uccisero la divinità, i giudei [che decisero l'eliminazione del Cristo] sono colpevoli di un semplice omicidio. 

Al che rispondo: se qualcuno insudicia  intenzionalmente la veste del sovrano, non viene considerato colpevole di reato allo stesso modo che se ne avesse imbrattato la persona? Perciò, sebbene non abbiano ucciso Cristo-Dio (cosa impossibile), gli autori [morali] della morte di Gesù hanno meritato, in base alle loro intenzioni, una gravissima condanna (59).

 E poi, come si è detto, il Figlio di Dio, Parola dell'eterno Padre,
incarnandosi s'è reso in qualche modo visibile, leggibile come uno scritto davanti ai nostri occhi. Chi lacerasse un decreto regio, attenta alla stessa maestà regale; e quindi il peccato di quei giudei è di tentato deicidio.

Altra possibile domanda: era necessario che il Verbo divino patisse per noi? 

Sì, era necessario, oltre che opportuno.
Dalla passione del Cristo deriva un rimedio molteplice, contro le
conseguenze del peccato.

I. Infatti, peccando, l'uomo deturpa la propria anima dato che la virtù è un'interiore bellezza, che viene a essere imbruttita dalla colpa. Riecheggia il lamento del profeta: «Per qual motivo, o Israele, sei in terra nemica, invecchi in un paese straniero, ti vai contaminando tra i morti, (...) tra coloro che discendono nell'abisso?» (Bar 3, 10-11). La passione sofferta dal Cristo vi apporta il giusto rimedio: il sangue sparso da lui è come un
lavacro spirituale, in cui i peccatori potranno purificarsi (cf. Ap I, 5). 

Il sacramento del battesimo acquista una forza rigeneratrice, in virtù appunto del sangue di Gesù.
Chiunque pecchi dopo il battesimo, reca a Cristo una maggiore offesa, secondo la giusta ammonizione di Paolo: «Colui che abbia violato la legge di Mosè è messo a morte - sulla deposizione di due o tre testimoni - senza misericordia; di qual supplizio più atroce pensate voi non sarà degno colui che avrà calpestato il Figlio di Dio e reputa come immondo il sangue della sua alleanza, col quale è stato santificato, e avrà fatto oltraggio allo Spirito della grazia?» (Eb 10, 28-29). 



2. Peccando, offendiamo Dio. Come l'uomo carnale ama la bellezza
fisica, così egli predilige l'interiore armonia che abbellisce l'anima. Il peccato la inquina, Dio ne rimane offeso e ne prova disgusto: «Il Signore odia in egual misura l'empio e la sua empietà» (Sap 14, 9).

 Cristo pone rimedio a tale situazione, rendendo al Padre quella
soddisfazione che l'uomo non avrebbe mai potuto dargli. La carità del Figlio, la sua ubbidienza hanno superato la portata dello stesso peccato d'origine. «Siamo stati riconciliati con Dio, noi suoi nemici, mediante la morte del suo Figlio» (Rm 5, 10).



 3. Cresce la nostra fragilità morale. Possiamo illuderci di riuscire a
evitare nuove cadute, ma l'esperienza ci convince facilmente del contrario.
A seguito del primo cedimento l'uomo risulterà debilitato e proclive a cedere. Il peccato ci domina gradualmente e, abbandonati a noi stessi, rassomigliamo sempre più a chi si getta in un pozzo da cui non potrà uscire se altri non lo aiuta.

 La natura umana è stata indebolita e corrotta dal peccato d'origine,
l'uomo è maggiormente incline a cadere. Ed ecco il Cristo, che viene a ridurre la portata di questa nostra infermità morale. La natura non è ricondotta allo stato primigenio, ma l'uomo trae energia dai meriti della passione di Cristo, mentre la forza del male è in qualche modo sotto controllo di quella grazia divina che ci proviene dall'uso dei sacramenti. 
nostri sforzi per risalire la china non saranno dunque più vani, come per l'uomo vecchio, schiavo del peccato (cf. Rm 6, 6). Prima che Gesù si offrisse in olocausto, ben pochi saranno stati gli uomini cui riuscì di vivere senza colpe gravi. Dopo, invece, tantissimi son vissuti e vivono liberi da tale schiavitù.


 4. Un altro effetto del peccato è la conseguenza penale che trae seco. La divina giustizia esige che chiunque abbia peccato debba essere punito, commisurando la pena sulla gravità della colpa. Ora, essendo praticamente infinita una colpa come quella del peccato mortale - un attentato al bene infinito che è Dio e che viene gravemente offeso dal trasgressore della legge -, la pena dovrà essere proporzionata. 

 In forza dei suoi patimenti, Cristo ci ha liberati dall'obbligo di saldare un debito umanamente insolvibile. Pagò egli stesso, al posto nostro, di persona. Egli, secondo l'espressione apostolica, «ha portato su di sé i nostri peccati: nel proprio corpo crocifisso al legno della croce, affinché noi, separati da tutto ciò che è peccato, vivessimo secondo giustizia. Siete stati guariti al prezzo delle sue piaghe» (I Pt 2, 24).

 La passione di Gesù fu di tale efficacia, che sarebbe sufficiente a espiare i peccati di tutto il mondo, fossero pure in numero infinito.
 Questo è il motivo per cui, a contatto col sacramento, i battezzati
ricevono la piena remissione delle loro colpe. È la passione del Cristo che conferisce al sacerdote un potere assolutorio, e quanto maggiormente una persona si conforma alla passione del Cristo, tanto più ampio è il perdono e più abbondante la grazia.


 5. Il peccatore perde ogni diritto d'entrare nel regno dei cieli, secondo la pena dell'esilio riservata ai colpevoli di lesa maestà. Adamo, per primo, fu scacciato dal paradiso [terrestre], e alle sue spalle venne sbarrato l'ingresso anche di quello celeste. Cristo lo riaprì grazie ai meriti della sua passione [e morte]. Gli esuli videro revocato il divieto di rientrare in patria.

La porta del regno dei cieli fu di nuovo aperta nel momento in cui veniva squarciato il fianco al Cristo, spirato sulla croce. Versato che fu il suo sangue, scomparve la macchia del peccato, fu placato lo sdegno del Padre, la fragilità umana trovò un rimedio, ed espiata la pena gli esuli sono richiamati in patria!

 A uno dei due malfattori [morente sul Calvario] venne fatta la promessa:

«Oggi stesso sarai con me in paradiso» (Lc 23, 43). Non sono parole rivolte a qualcun altro, ad Adamo per esempio, o ad Abramo il patriarca o al re e profeta David... Qui non si tratta di profezia che dovrà attendere per lungo tempo d'essere adempiuta: «Oggi», gli dice, nel giorno stesso in cui la porta dei cieli venne riaperta. Il delinquente pentito ottenne senza dilazioni il perdono implorato. Sperimentò in quel medesimo giorno ciò che dice san Paolo: «Grazie al sangue di Gesù Cristo, abbiamo la certezza di poter entrare nel santuario» (Eb 10, 19).

 Quanti utili esempi, poi, ricaviamo dalla meditazione del sacrificio di Cristo! Infatti, come nota sant'Agostino, la passione di Gesù è sufficiente per impostare di sana pianta l'umana esistenza.

 Chiunque voglia vivere una vita di perfezione, altro non dovrà fare che disprezzare ciò che il Salvatore respinse fino alla croce, e non amare qualcosa di diverso da ciò che egli amò.

 Non c'è virtù che dalla morte in croce del Cristo non tragga incentivo. 

6. Difatti, se cerchi un esempio d'amore (e nessuno ne ha uno più grande di chi sappia sacrificare la vita per gli amici) (cf. Gv 15, 13), vedi che Cristo te lo seppe dimostrare salendo al tuo posto in croce. 
Se quindi ha esposto la propria vita nel suo farsi olocausto d'amore, non dobbiamo giudicare eccessivo il soffrire le nostre croci per amor suo. Niente di più gradito potrò offrire al Signore, in cambio dei molti doni che mi ha elargito (cf. Sal 115, 12).

 7. Se invece vi cerchi mi esempio di pazienza, la croce del Cristo è di per sé la risposta più eloquente. Un uomo dà prova di vera pazienza quando accetta le grandi traversie della vita, oppure qualora si esponga a gravi disagi che potrebbe evitare.

 Ebbene, la pazienza del Cristo fu magnanima specie sulla croce.
Avrebbe potuto ripeterci: «Oh, voi tutti che passate per la via, fermatevi a considerare se vi sia un dolore simile al mio!» (Lam I, 12). 

Tollerò pazientemente ogni spasimo, e «ingiuriato, non rispondeva con ingiurie» (I Pt 2, 23). Di lui aveva profetato Isaia: «Era maltrattato ma restava sereno, non diceva una parola, simile a un agnello che si porti a uccidere; come la pecora rimane muta dinanzi a chi la tosa, egli non aprì la bocca per lamentarsi» (Is 53, 7).

 Avrebbe potuto facilmente evitare tanta sofferenza, ma preferì andarle incontro; e a Pietro che aveva usato la spada per difenderlo, chiedeva: «Credi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli? Ma allora come si adempirebbero le Scritture, secondo le quali bisogna che avvenga così?» (60). Giudica tu, da  te stesso, se fu grande la pazienza del Cristo in croce. Perciò, «corriamo [anche noi] nell'arena che ci è aperta dinanzi, tenendo lo sguardo fisso all'autore e perfezionatore della fede, Gesù, il quale anziché il gaudio di cui poteva disporre, preferì sopportare la croce senza curarsi dell'ignominia» (Eb 12, 1-2).


 8. Nel Crocifisso troverai il modello per la tua umiltà: Dio che si lascia trascinare in tribunale, dinanzi a Ponzio Pilato, per subirvi un [iniquo] processo ed essere condannato a morte. La sua causa parve subito quella di un pregiudicato (cf. Gb 36, 17), di un delinquente della peggiore specie, cui viene riservata una morte ignominiosa (cf. Sap 2, 20). Il Signore che si espone a morire al posto del suo servo! Colui che è vita degli angeli, si lascia uccidere per noi uomini!


 9. Non potresti trovare un più alto esempio d'ubbidienza, alla scuola di colui che fu ubbidiente al Padre sino a morire! (cf. Fil 2, 8). E «come per la disubbidienza di un solo uomo gli altri sono stati resi peccatori, così per l'ubbidienza di uno, gli altri saranno resi giusti» (Rm 5, 19).


 10. E se infine vai cercando un perfetto esempio di disprezzo delle cose terrene, segui il Re dei re, il Sovrano dei sovrani, colui che racchiude in sé la sapienza in grado massimo: e tuttavia lo trovi spoglio sulla croce, dove muore dopo essere stato schernito, oggetto di sputi, percosso e abbeverato con fiele e aceto...

 Non attaccarti perciò eccessivamente a vesti e ricchezze, di fronte a Gesù che ti ripeterebbe: «Si dividono tra loro gli abiti miei; tirano a sorte la mia tunica» (Sal 21, 19); non attaccarti agli onori, giacché [l'Uomo dei dolori] ti ricorda: «Io ho conosciuto gli insulti e le percosse. Non mirare alle posizioni di prestigio, se a me fu riservata una corona di rami spinosi intrecciati; non alle cose che danno gusto, se per me i carnefici seppero trovare soltanto una spugna imbevuta d'aceto».
 Commentando il passo in cui l'Apostolo considera i patimenti sofferti dal Figlio di Dio (cf. Eb 12, 1-2), Agostino ha scritto: «Gesù Cristo spregiò tutte le cose terrene, per insegnarci a disprezzarle».  

Dal CREDO : commento-conferenza di san Tommaso

AMDG et BVM

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