di Sr. M. Carla Bertaina
Il giorno di capodanno del 1526 non poteva portare migliore auspicio a Giovanni Luigi Bertràn ed alla sua degna consorte Giovanna Angela Exarch, sposata in seconde nozze, che rendendoli genitori di un Santo con la nascita del loro primogenito, Ludovico.
A Valenza, rinomata città della costa orientale spagnola dove vivevano, Giovanni esercitava la professione di notaio ed era ricercato dalle principali famiglie a motivo della sua rettitudine ed abilità nel trattare le cause. Alla morte della prima moglie avrebbe voluto diventare monaco certosino entrando nella Certosa di Portacoeli, distante pochi chilometri dalla città, ma per divina ispirazione capì che doveva continuare a servire Dio come cristiano nel matrimonio e la Certosa come procuratore laico. Non si sentiva onorato dell’antico casato da cui proveniva, ma della lontana parentela con San Vincenzo Ferrer, illustre predicatore domenicano suo concittadino, vissuto un secolo e mezzo prima.
Giovanna Exarch aveva principi profondamente religiosi ed amava il raccoglimento domestico; dotata di un carattere soave e pacifico, costruì col marito una serena e cristiana vita familiare, allietando la casa con la nascita di otto figli.
Il giorno stesso della nascita Ludovico (Luìs) fu portato alla chiesa parrocchiale di Santo Stefano dove ricevette il dono della vita divina al medesimo fonte battesimale al quale era diventato figlio di Dio San Vincenzo Ferrer.
Dei suoi primissimi anni di vita si racconta che la nutrice, per calmare i suoi pianti, forse originati dalle condizioni di salute sempre precarie, lo portava in chiesa dove le sue lacrime cessavano alla vista delle statue e delle immagini sacre.
Del periodo della sua fanciullezza e prima adolescenza è conosciuto il suo desiderio di vivere col massimo impegno la sua crescita umana e spirituale: frequentava la scuola con grande diligenza ricavandone il migliore profitto e nutriva lo spirito con la preghiera prolungata, con mortificazioni e penitenze volontarie, come quella di dormire sul pavimento o su una cassapanca invece che sul letto.
Tralasciava i giochi coi compagni per avere più tempo da dedicare direttamente a Dio, senza tuttavia compromettere i suoi cordiali rapporti con loro, attratti dalla sua amabilità che scaturiva dall’umiltà sincera del suo cuore. La sua più grande gioia era partecipare alla Santa Messa e alla celebrazione dei Vespri nella chiesa di San Domenico, nella quale si recava spesso anche da solo per pregare.
Aveva per direttore spirituale un religioso dei Minimi di San Francesco da Paola, di cui seguiva con zelo i consigli e l’esempio di vita totalmente dedicata a Dio e all’amore verso il prossimo, col sacrificio di se stesso. Appena quattordicenne, col permesso dei genitori, passava spesso anche le notti ad assistere i malati che lo aspettavano come un vero angelo di conforto.
Verso i sedici anni sentì interiormente un forte impulso ad intraprendere la vita del pellegrino, a somiglianza di San Rocco che si era prodigato a servizio dei malati di peste ed aveva girato mendicando in Francia ed in Italia.
Si allontanò di mattino presto, nel cuore dell’inverno, senza avvertire i genitori, i quali non potevano spiegarsi in alcun modo la sua scomparsa e temevano per la sua incolumità. Spiegò la sua decisione con una lettera nella quale manifestava la sua convinzione di essere chiamato da Dio a quella vita raminga per espiare i suoi molti peccati e di essere tranquillo perché i genitori potevano contare sugli altri figli per il loro sostegno futuro. Il padre mandò subito dei messaggeri a cercarlo e quando essi lo raggiunsero, egli si rivolse nel suo intimo a Dio che gli diede la luce necessaria per capire che era stata sufficiente solo una prova della sua volontà di distacco dal mondo, distacco che avrebbe realizzato in futuro in altro modo.
Ritornò alla sua vita di preghiera, di studio, di opere di carità, ma ottenne dal padre il permesso di andare pellegrino al santuario di San Giacomo di Compostela e quello di vestire la talare ecclesiastica in segno della sua determinazione a consacrarsi a Dio.
Essendo morto il santo religioso che gli faceva da guida spirituale, Ludovico scelse come suo nuovo direttore il domenicano P. Lorenzo Lopez che aveva incontrato durante le conferenze che teneva agli studenti. Iniziò così a frequentare assiduamente la chiesa dei Frati Predicatori ed il convento in cui si trovava la cella, trasformata in oratorio, che era stata abitata per vent’anni da San Vincenzo Ferrer.
Presto nel suo intimo divenne chiaro l’ideale da perseguire: entrare nella «navicella» dell’Ordine domenicano dove avrebbe potuto vivere il completo distacco dal mondo, praticare la penitenza ed attuare il sacrificio di sé per la salvezza delle anime. Chiese di esservi ammesso come postulante, ma un ostacolo imprevisto mise alla prova la perseveranza del suo desiderio: suo padre ancora una volta si spaventò all’idea di perdere quel suo primogenito di cui andava fiero ed ottenne dal priore del convento di San Domenico la promessa che non ne avrebbe accolto la domanda, convincendo invece il figlio che, a motivo della gracilità di salute, mai avrebbe potuto digiunare, flagellarsi ed astenersi dalla carne come era richiesto dall’osservanza regolare domenicana.
Ludovico soffrì profondamente per questo rifiuto, ma non cambiò intenzione: si dispose ad aspettare l’arrivo di un... nuovo priore, intensificando la preghiera e le visite al convento, dove cercava di rimanere il più a lungo possibile, talvolta anche di notte nascondendosi in qualche angolo buio della chiesa quando il fratello cooperatore ne chiudeva le porte.
Finalmente fu eletto nuovo priore il P. Giovanni Micon che, pur conoscendo la debole costituzione fisica del giovane, seppe discernere in lui i requisiti di una vera vocazione domenicana e ne accettò la domanda, dichiarandosi disposto a vestirlo del bianco abito. In attesa del giorno stabilito per la sua vestizione religiosa, il postulante ogni venerdì dopo Compieta, quando i frati dal coro passavano alla sala capitolare, si nascondeva tra le colonne del chiostro e poi restava in ginocchio dietro una finestra ad ascoltare le istruzioni e le esortazioni di quel priore dotto, santo e valente predicatore, allontanandosi poi senza essere visto per tornare a casa.
Vestì l’abito religioso a diciotto anni, il 26 agosto 1544.
Il padre, sempre contrario alla scelta dell’Ordine domenicano, scrisse al figlio una lettera per dissuaderlo dal suo proposito, ma questi rispose esprimendo ancora una volta la sua intima convinzione di essere nella via voluta per lui dal Signore. Non persuaso, il padre si recò dal priore ad esporre i suoi dubbi e così il figlio fu chiamato alla sua presenza dove dichiarò che mai avrebbe lasciato l’Ordine e che, privatamente, aveva già fatto voto di vivere e morire sotto la Regola di San Domenico.
Dopo tale dichiarazione, il notaio non si oppose più e lasciò trionfare la fede sui suoi sentimenti naturali. Anche la madre si rassegnò a quella separazione e da parte dei familiari il novizio non ebbe più lotte da sostenere.
Ne ebbe ancora una, forte e dolorosa, all’interno del convento stesso: una calunnia, originata dalle parole di un fratello laico di Valenza, rischiò di farlo giudicare inadatto a portare l’abito religioso. Nella grave sofferenza del suo cuore, egli si rifugiò nella preghiera ed ottenne che la verità venisse in luce.
Fra Ludovico trascorse il suo anno di noviziato cercando di crescere nella perfezione di ogni virtù, di conoscere a fondo le Costituzioni dell’Ordine per osservarle fedelmente, di modellare la sua vita su quella di San Domenico e di seguire anche nei particolari la regola di vita tracciata da San Vincenzo Ferrer nel suo «Trattato della vita spirituale». Amava il silenzio per vivere nel raccoglimento e nella preghiera, si considerava il servo di tutti, meditava spesso la Passione di Gesù e i «Novissimi», seguiva interiormente la guida dello Spirito Santo che, trovandolo docile alle sue ispirazioni, sempre più lo conformava a Cristo.
Emise la Professione solenne il 27 agosto 1545, anno in cui nella Chiesa aveva inizio il Concilio Tridentino, e continuò per due anni gli impegni di religioso studente, in preparazione al Sacerdozio.
Scrive il suo primo biografo, il P. Antist, che fu anche suo novizio: «Dalla Professione la sua vita fu austerissima. Era mortificato nel nutrirsi e nel bere. Affliggeva il suo corpo con cilici e veglie. Pregava incessantemente e parlava poco, sempre con gravità, evitando così ogni mormorazione o parola sconveniente per un religioso. Trattava volentieri di argomenti celesti. Non ricordo che abbia mai fatto burle o raccontato storielle giocose».
Quest’ultima affermazione non significa che avesse un carattere triste o scontroso, ma semplicemente che non era portato ad un’allegria esuberante; era tanto umile e ricco di carità che tutti lo amavano e lo ammiravano.
Si riteneva sempre il meno fervoroso della comunità e trovava in ogni confratello virtù da imitare. Sentiva una speciale attrattiva per la penitenza e ne praticò con estremo rigore, senza riguardi alla sua salute, le forme esistenti nell’Ordine: veglie, digiuni, macerazioni notturne. Il suo fisico ne risentì fortemente ed i Superiori lo mandarono per un periodo in un altro convento in zona più salubre.
Qui si conformò esattamente alle prescrizioni mediche e diede prova di esemplare obbedienza. Ritornato nel suo convento, riprese la vita di sempre, dedicando molte ore allo studio, che per lui era un’altra forma di penitenza poiché lo costringeva a lasciare la contemplazione che tanto gustava per applicare la mente e la memoria agli argomenti filosofici e teologici. Benché non ne avesse un’attitudine particolare, amò lo studio delle scienze sacre che fornirono sostanzioso alimento alla sua preghiera e alla sua futura predicazione.
Sempre di questi anni, il P. Antist scrive: «Non solo era fedele a tutti gli obblighi di ogni religioso: alla carità, alla povertà, all’obbedienza e alla castità, ma anche ad ogni benché minima prescrizione della Regola». Non fu quindi difficile ai Superiori giudicarlo pronto a ricevere il grande dono del Sacerdozio: celebrò la sua prima Messa non ancora ventiduenne, il 28 ottobre 1547, nella chiesa del convento di Valenza. Sprofondato nella consapevolezza della sua indegnità, che lo indusse per tutta la vita a coltivare in modo preminente il «santo timor di Dio», egli offrì tutto se stesso al Divin Sacerdote per essere canale di salvezza per le anime e gustò la gioia spirituale di sentirsi strettamente associato al Cristo Redentore.
Ricevette l’incarico di ridestare nei fedeli l’amore all’Eucaristia e, nell’adoperarsi a tale scopo, approfondì al massimo la devozione al Divin Sacramento, entrando in amicizia e comunione di spirito col P. Castells, riformatore della vita domenicana nella sua Provincia ed anima eminentemente eucaristica; a lui fra Ludovico ottenne, con la sua preghiera, la salvezza in un naufragio.
Nel 1548 il nostro Santo fu mandato nella cittadina di Lombay, dove era appena terminata la costruzione del «Convento della Santa Croce», che occorreva stabilire nel vero spirito di San Domenico.
Fu in questi primi mesi della sua residenza fuori Valenza che morì suo padre, ma egli poté assisterlo nell’agonia perché, avvertito da Dio con una visione durante la preghiera, ottenne il permesso di partire immediatamente per andare al suo capezzale e poté accoglierne l’estrema dichiarazione: «Figliolo, durante la mia vita mi riuscì penoso vederti domenicano, ma ora ciò costituisce per me il più grande conforto». Per ben otto anni il defunto apparve al figlio, per chiedergli suffragi affinché fosse liberato dalle pene del purgatorio. Interrogato sulla causa di così lunghe sofferenze espiative, il Santo rispose che suo padre doveva riparare peccati commessi nell’esercizio della sua professione di notaio e l’opposizione fattagli alla propria vocazione domenicana. Furono queste visioni ad imprimere in fra Ludovico il timore dei misteriosi giudizi di Dio.
A Lombay egli rimase solo un anno, perché a ventitré anni fu eletto Maestro dei novizi e tornò nel convento di Valenza. Mancava di esperienza e sicuramente non era dotto come altri padri del convento, ma fu scelto per la stima che avevano delle sue virtù.
Sentendosi indegno e inadatto a tale compito, fra Ludovico accettò l’obbedienza in spirito di fede e capì che doveva supplire all’inesperienza invocando con più insistenza l’aiuto di Dio e diventando un modello vivente di osservanza regolare, perché non sono le parole che convincono, ma gli esempi; solo essendo lui un perfetto osservante nella vita religiosa domenicana, avrebbe potuto chiedere ai novizi altrettanta esattezza nel vivere la Regola. Essendo alto l’ideale da raggiungere e grande il sacrificio richiesto alla natura con veglie, digiuni e penitenze, egli ne correggeva con severità le trasgressioni, perché provassero a loro stessi se si sentivano in grado di perseverare in tale stile di vita.
L’umiltà profonda del suo cuore — che rendeva la sua severità segno di vero amore — traspariva in ogni suo gesto, soprattutto nella riconoscenza dimostrata ai novizi che gli manifestavano, forzati dalla sua richiesta, una qualche sua imperfezione. Dopo ogni Capitolo delle colpe egli si flagellava ben più spietatamente di quanto avesse imposto ai suoi giovani, sia per riparare le colpe commesse, sia per dimostrare il suo amore a Cristo crocifisso. Le sue flagellazioni erano tali che spesso le pareti e il pavimento della cella restavano macchiati di sangue.
Nelle sue esortazioni insisteva sulla povertà e sull’obbedienza, combattendo le pur minime trasgressioni al silenzio, alla puntualità, alla perfezione della preghiera corale. Era premuroso verso i novizi che si ammalavano, voleva che le ore di ricreazione fossero trascorse in allegria, raccomandava con insistenza lo studio delle scienze sacre, indispensabile fondamento della vita domenicana. Egli stesso, ritenendo troppo manchevole la sua preparazione teologica, ottenne dal Maestro Generale il permesso di recarsi a completare i suoi studi all’Università di Salamanca, nonostante il parere contrario del priore P. Micon con tutta la comunità e la costernazione dei novizi nel vedersi abbandonati: tutti pensavano che fosse sufficiente insegnare la virtù, non la scienza! Risoluto nel suo proposito, partì per Salamanca, ma lungo il tragitto volle consultare un religioso rinomato per santità e prudenza e ne ebbe come risposta che stava allontanandosi dalla volontà di Dio per cedere ad un’illusione. Fra Ludovico chiese maggior luce nella preghiera e capì che doveva tornare sui suoi passi. A Valenza fu accolto con gran sollievo da tutti ed egli tornò serenamente al suo compito di formatore.
Nel 1556 poté assistere la mamma morente ed accompagnarla con le sue fervide preghiere all’incontro con Dio.
Nel 1557 si diffuse in Spagna la peste che subito colpì anche il convento domenicano di Valenza, per cui i frati furono distribuiti in varie parti: fra Ludovico fu mandato quale Vicario al convento di Albaida. Qui dimostrò le sue eccellenti qualità come responsabile della comunità e come apostolo della carità presso gli appestati e presso tutti i poveri che ricorrevano al convento, mantenendo la sua intensa vita interiore e di colloquio con Dio con frequenti ore di preghiera notturna. Dava fino all’ultimo quanto il convento possedeva per sovvenire i bisognosi, fiducioso nel soccorso della Provvidenza, nonostante le apprensioni dell’economo. La risposta del Cielo fu sempre generosa, tantoché il numero dei religiosi raddoppiò, senza causare maggiori difficoltà economiche.
Si dedicò con zelo alla predicazione al popolo e al ministero sacerdotale con la confessione e la direzione delle anime, ottenendo con la sua preghiera interventi miracolosi; in molte occasioni rivelò il suo spirito profetico a beneficio del prossimo. Tra i tanti prodigi operati, ricordiamo quello in cui trasformò in crocifisso la canna di un fucile puntato su di lui per vendetta da un signorotto che si era sentito offeso dall’invito del predicatore a cambiare vita; spesso nell’iconografia il Santo è rappresentato con questo simbolo.
Per non attirare l’attenzione su di sé, egli attribuiva il potere miracoloso al Rosario, alla cui devozione invitava sempre i fedeli.
Dopo tre anni, cessata la peste, tornò a Valenza e fu nuovamente incaricato di seguire i novizi, ma continuò anche la sua attività di predicatore, così fruttuosamente iniziata ad Albaida: non bastando le chiese a contenere i fedeli che desideravano ascoltarlo, egli spargeva la Parola di Dio nelle piazze.
Fu di questo periodo il contatto epistolare che ebbe con Santa Teresa d’Avila, la quale gli aveva chiesto se era nei disegni di Dio il suo piano di riforma per l’Ordine Carmelitano. Il Domenicano le scrisse: «...A nome di Dio, vi dico di intraprendere coraggiosamente la grande opera che vi si offre. Iddio stesso vi aiuterà e vi benedirà. A nome suo vi assicuro che, prima di cinquant’anni, il vostro Ordine sarà uno dei più illustri nella Chiesa di Dio».
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Intanto per il nostro Santo si preparava un grande cambiamento di vita. L’evangelizzazione del Nuovo Mondo, che proseguiva tra gli ostacoli posti dallo sfruttamento dei conquistatori spagnoli e dalle credenze superstiziose degli indigeni, divenne un desiderio impellente del suo cuore, specialmente quando tra i suoi novizi fu ammesso un indios proveniente dalla Colombia, che non corrispondeva alla sua guida di maestro ormai esperto. Fu questo il mezzo con il quale conobbe l’estrema necessità di missionari per quelle popolazioni primitive ed intuì che avrebbe potuto anche avere l’occasione di versare il suo sangue per Cristo. Spinto da questo ardente amore di carità, supplicò intensamente Dio per conoscere la sua volontà e ritenne di aver ottenuto la risposta nell’arrivo a Valenza di due missionari domenicani autorizzati dal Maestro Generale ad arruolare nuovi religiosi come zelanti apostoli delle regioni recentemente scoperte.
Ancora una volta incontrò l’opposizione di tutti: il priore non volle dargli nulla per il viaggio e neppure la sua benedizione; i novizi e i confratelli manifestarono la loro desolazione e i loro dubbi su tale scelta; i familiari tentarono di dissuaderlo. Ma egli, sicuro della benedizione di Dio, partì a piedi per Siviglia dove si sarebbe imbarcato con un confratello, confidando nel Signore che avrebbe sorretto la sua salute cagionevole e indirizzato ogni cosa al bene delle anime da salvare.
Durante la traversata dell’Oceano si dedicò alla preghiera e all’istruzione catechistica dei marinai, che impararono ben presto a ricorrere alla sua potente intercessione presso Dio nei pericoli delle burrasche e che lo videro guarire miracolosamente il confratello, ferito gravemente alla testa dalla caduta dell’albero del vascello.
Aveva trentasei anni quando sbarcò a Cartagena e prese dimora nel convento domenicano di San Giuseppe, da dove iniziò i suoi viaggi missionari nei villaggi vicini e poi in diversi paesi dell’attuale Colombia. Con la sua predicazione, accompagnata da segni prodigiosi, riuscì ad aprire le menti di quegli indigeni alla realtà dell’esistenza di un Dio unico e provvidente e del suo Figlio Gesù morto in croce per la salvezza di tutti gli uomini. Oltre che con le guarigioni e l’avveramento di tante profezie, contribuì molto alla conversione di un gran numero di pagani il dono delle lingue, per il quale egli, che parlava spagnolo, veniva compreso dalla gente nella propria lingua locale.
Ma, soprattutto, le conversioni furono il frutto della sua continua penitenza: fame, sete, caldo, viaggi estenuanti in mezzo ai pericoli delle foreste, erano il mezzo col quale chiedeva a Dio le anime; per loro continuava a flagellarsi, a digiunare, a pregare incessantemente. Il nemico di ogni bene, però, suscitò contro di lui insinuazioni malevole, calunnie diffamanti e veri attentati alla sua vita: due volte gli fu dato a sua insaputa del veleno, che non ebbe effetti letali per intervento divino, ma che gli causò comunque forti dolori.
Dopo sette anni di infaticabile lavoro missionario, fra Ludovico chiese al Maestro Generale di essere richiamato in patria perché la crudele tirannia dei governatori spagnoli sugli indios che tanto amava aveva turbato profondamente il suo animo; inoltre un’ispirazione soprannaturale gli aveva fatto capire che Dio lo voleva nuovamente in Europa ad infondere il suo zelo missionario in un numero maggiore di confratelli, che avrebbero continuato la sua opera nel tempo.
Sbarcò a Siviglia il 18 ottobre 1569 e subito si incamminò verso il convento di Valenza, dove fu accolto con la gioia più grande. Per un anno rimase libero da impegni particolari per poter riposare, ed egli considerò questo tempo come un anno che il Signore gli concedeva di passare in una più perfetta osservanza della Regola e tutto dedito alla preghiera e alla contemplazione. Fece amicizia con P. Nicola Factor, un francescano favorito di estasi, vero imitatore di San Francesco nella povertà, nella carità e nella vita di unione con Dio: l’uno ammirava l’altro, disprezzando se stesso.
Nell’ottobre del 1570 fu eletto priore del convento di Sant’Onofrio, che era povero, bisognoso di restauri e aggravato di debiti: sotto il suo governo non solo scomparve la miseria e furono pagati i debiti, ma si poterono attuare molti miglioramenti ed accogliere un maggior numero di frati. Come avvenne ciò? Con le sue abbondanti elemosine P. Bertràn si era reso debitore il buon Dio, il quale interveniva o con la generosità altrui o direttamente, come quando comparve sul suo tavolo la somma che il libraio gli stava chiedendo ed egli spiegò: «Prima non avevo la somma con cui pagarvi, ma il Padrone l’aveva e ora, grazie a Lui, il debito è saldato».
Naturalmente più di tutto il santo priore si preoccupava del bene spirituale della comunità e dei singoli fratelli, anche usando con discrezione il dono della chiaroveggenza soprannaturale, per cui due frati conversi ebbero a dire: «Il nostro priore è quasi cieco e sordo, passa molto tempo nella sua cella, eppure conosce tutto quanto succede...». Insisteva soprattutto sulla necessità di allontanare lo spirito mondano, evitando ogni uscita dal convento non motivata dalla predicazione o dalla carità. Egli stesso, nonostante una gamba ulcerata che gli procurava forti dolori, si affrettava a tornare tra i confratelli dopo una predicazione, anche se era già sera tardi.
Al termine del suo triennio la disciplina religiosa al Sant’Onofrio era rifiorita e le sacre funzioni erano frequentate da numerosi fedeli d’ogni ceto sociale.
Il Santo, tornando a Valenza, sperava di potersi dedicare ad una vita di silenzio e di preghiera e pensò di ritirarsi nella Certosa di Portacoeli, ma il suo amico P. Factor lo dissuase, rendendolo certo che era nei piani di Dio che continuasse a servirLo nella vita apostolica domenicana.
Fu eletto nuovamente Maestro dei novizi, ma in tale ufficio durò poco più di un anno, perché il 15 maggio 1575, nonostante il suo palese indebolimento fisico, fu eletto priore del convento di Valenza.
In questa responsabilità veramente onerosa, poiché la comunità era formata da oltre cento frati, egli si affidò all’aiuto di Dio e pregò San Vincenzo Ferrer che governasse lui la comunità, dichiarandosi suo «vicesuperiore». Continuò, secondo quanto gli consentivano le forze e le frequenti malattie, la predicazione al popolo, la direzione delle anime con la confessione, il soccorso generoso ai poveri e si dedicò con particolare compassione a visitare i carcerati.
Al termine del suo mandato, il 15 maggio 1578, P. Bertràn iniziò una vita di nascondimento e di preghiera, con penitenze sempre rigorose per conformarsi meglio al Dio Crocifisso ed espiare con la compunzione del cuore le proprie colpe.
Usciva dalla pace beata della sua cella per confessare, per visitare e confortare i malati, per predicare.
Prodigi, profezie e visioni celesti accompagnarono anche quest’ultimo periodo della sua vita, compreso il vaticinio della propria morte fatto nell’ottobre del 1580 al P. Pietro da Salamanca, mentre con lui andava a visitare un condannato a morte: «Padre, ricordate questo giorno, poiché tra un anno preciso io morirò!».
Il suo ultimo anno di vita fu colmo di acute sofferenze fisiche che egli accettò con eroica pazienza, e con profonda umiltà si adattò a tutti i rimedi imposti dai medici, pur conoscendone l’inutilità; solo una volta, sentendone il bisogno, chiese che gli dessero un po’ di pane, interrompendo la dieta a base di liquidi che gli avevano prescritto. Si mostrava estremamente grato ai visitatori che gli promettevano il soccorso spirituale della preghiera.
Morì, come aveva predetto, nella festa di San Dionigi, il 9 ottobre del 1581.
Il suo corpo fu conservato nella chiesa di Santo Stefano fino alla rivoluzione spagnola del 1936, quando venne distrutto.
Fu beatificato da Papa Paolo V nel 1608 e canonizzato da Papa Clemente X il 12 aprile 1671.
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AMDG et BVM
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