martedì 24 luglio 2018

Una essenziale pagina storica da molti sconosciuta

Tacito, Historiae, Libro V – 

1. Al principio di quel medesimo anno [era l'anno 70 dopo Cristo], Cesare Tito, incaricato dal padre di stroncare la rivolta in Giudea, potendo contare su un prestigio militare risalente a quando entrambi erano solo privati cittadini, operava col peso di un'influenza ben più rilevante, ora che province ed eserciti gli testimoniavano a gara il loro attaccamento. E per affermarsi come ancora più grande della sua condizione, si presentava maestoso e audace nelle armi, conquistandosi simpatie col suo tono affabile e con la presenza pressoché continua fra le truppe, nel lavoro e nelle marce, pur senza mai intaccare la sua dignità di comandante. Lo accolsero in Giudea tre legioni, la Quinta, la Decima e la Quindicesima, tutti veterani di Vespasiano. Vi aggiunse la Dodicesima dalla Siria e, da Alessandria, uomini della Ventiduesima e della Terza; lo accompagnavano venti coorti alleate, otto squadroni di cavalleria, i re Agrippa e Soemo, rinforzi del re Antioco e un consistente gruppo di Arabi, animati da sentimenti ostili contro i Giudei, per il solito odio tra popoli vicini, e poi molti altri venuti da Roma e dall'Italia, richiamati ciascuno dalla speranza di accaparrarsi l'animo, ancora libero, del principe. Con queste forze entrò, in buon ordine, nel territorio nemico, esplorando ogni zona e pronto a dare battaglia. Il campo lo pose non lontano da Gerusalemme. 

2. Ma poiché mi accingo a raccontare gli ultimi momenti di quella famigerata città, sembra pertinente richiamarne qui le origini. La tradizione vuole che i Giudei, profughi dall'isola di Creta, si siano insediati nelle ultime estremità della Libia, nel tempo in cui Saturno, cacciato a forza da Giove, abbandonò il suo regno. La prova di ciò si evince dal nome: a Creta esiste il celebre monte Ida, i cui abitanti, detti Idei, furono comunemente chiamati Giudei per un barbarico ampliamento del nome. Secondo alcuni, sotto il regno di Iside, la strabocchevole popolazione dell'Egitto si sarebbe riversata, seguendo la guida di Ierosolimo e di Giuda, nelle terre vicine; non pochi, invece, li ritengono di stirpe etiope, spinti a mutar sedi sotto il re Cefeo, dalla paura e dall'odio. Stando al racconto di altri, sarebbero profughi assiri, gente bisognosa di terra che, impadronitasi di una parte dell'Egitto, ha poi avuto proprie città, coltivando le terre ebraiche e le zone più vicine alla Siria. Per altri ancora i Giudei vanterebbero origini illustri: i Solomi, popolo cantato nelle opere di Omero, avrebbero dato a una città da loro fondata, derivandolo dal proprio, il nome di Ierosolima. 

3. Su un punto concorda la maggior parte degli storici: abbattutasi sull'Egitto una pestilenza che deturpava i corpi e recatosi il re Boccori a consultare l'oracolo di Ammone per chiedere un rimedio, ricevette l'ordine di purificare il regno, trasferendo in altro paese gli uomini di quella razza, invisa agli dèi. E così tutta quella gente venne ricercata, raccolta insieme e abbandonata nel deserto. E mentre gli altri, incapaci di agire, piangevano, uno degli esuli, Mosè, li ammonì a non aspettarsi aiuti né di dèi né di uomini, poiché entrambi li avevano abbandonati, ma di affidarsi a lui come a guida venuta dal cielo, perché lui per primo li aveva aiutati a superare le difficoltà presenti. Lo ascoltarono e, ignari di tutto, iniziarono un avventuroso cammino. Ma niente li tormentava quanto la scarsità d'acqua e, ormai vicini a morire, s'accasciavano a terra su tutto il piano, quando una mandria d'asini selvaggi, di ritorno dalla pastura, si ritirò sotto una roccia ombreggiata da alberi. Li seguì Mosè e dal terreno erboso intuì e scoperse una ricca vena d'acqua. Si ripresero. E dopo un cammino ininterrotto di sei giorni, nel settimo, cacciati gli abitanti, occuparono quelle terre in cui fondarono la città e dedicarono il tempio. 

4. Mosè, al fine di consolidare per l'avvenire il suo potere su quel popolo, introdusse nuovi riti contrastanti con quelli degli altri mortali. Là sono empie le cose presso di noi sacre e, viceversa, lecito quanto per noi aborrito. Consacrarono in un santuario, immolando un ariete, quasi in spregio ad Ammone, l'immagine dell'animale da cui avevano tratto indicazioni per trovare il cammino e scacciare la sete. Fu sacrificato anche un bue, poiché gli Egiziani adorano Api. Si astengono dalla carne di maiale, a ricordo del flagello, perché li aveva colpiti un tempo la lebbra, a cui quell'animale è soggetto. Commemorano ancor oggi la lunga fame di un tempo con frequenti digiuni e, a testimonianza delle messi frettolosamente raccolte, si mantiene l'uso del pane giudaico senza lievito. Hanno voluto, si dice, come giorno di riposo il settimo, perché esso segnò la fine delle loro fatiche; poi, lusingati dalla pigrizia, dedicarono all'ozio un anno ogni sette. Alcuni ritengono che lo facciano in onore di Saturno, sia per aver ricevuto il fondamento del culto dagli Idei, che sappiamo cacciati insieme a Saturno e fondatori della gente giudaica, sia perché dei sette astri, che regolano il destino dei mortali, quello di Saturno descrive un'orbita più ampia ed esercita un influsso più determinante, e perché la maggior parte dei corpi celesti tracciano il loro cammino e il loro corso in multipli di sette. 

5. Di questi riti, comunque siano stati introdotti, si giustificano con l'antichità. Le altre usanze, sinistre e laide, s'imposero con la depravazione. Infatti tutti i delinquenti, rinnegata la religione dei padri, là portavano contributi di denaro e offerte, per cui s'accrebbe la potenza dei Giudei, ma anche perché fra di loro sono di un'onestà tetragona e immediatamente disposti alla compassione, mentre covano un odio fazioso contro tutti gli altri. Mangiano separati, dormono divisi; benché sfrenatamente libidinosi, si astengono dall'accoppiarsi con donne straniere, ma fra loro l'illecito non esiste. Hanno istituito la circoncisione per riconoscersi con questo segno particolare e diverso. Chi adotta i loro costumi, segue la medesima pratica, e la prima cosa che imparano è disprezzare gli dèi, rinnegare la patria, spregiare genitori, figli, fratelli. Sta loro a cuore la crescita della popolazione; è infatti proibito sopprimere uno dei figli dopo il primogenito e ritengono eterne le anime dei caduti in battaglia o vittime di supplizi: da qui la loro disponibilità alla procreazione e il disprezzo della morte. Seppelliscono, non cremano i cadaveri, secondo l'uso e con le stesse cerimonie apprese dagli Egizi; riservano la stessa cura ai defunti e condividono la stessa credenza sul mondo degli inferi, e ne hanno una contraria sulla realtà celeste. Gli Egizi adorano moltissimi animali e le loro raffigurazioni in forma composita; i Giudei concepiscono un unico dio e solo col pensiero; profanazione è per loro costruire con materia caduca immagini divine in sembianza umana, perché l'essere supremo ed eterno non può subire una rappresentazione ed è senza fine. Per questo non pongono simulacri di dèi nelle loro città e tanto meno nei loro templi; né riservano tale forma di adorazione per i loro re, né di onore ai Cesari. Ma poiché i loro sacerdoti cantavano accompagnandosi a flauti e timpani, poiché si cingevano le tempie di edera e nel loro tempio venne rinvenuta una vite d'oro, taluni hanno pensato che venerassero il padre Libero, conquistatore dell'Oriente, ma con riti totalmente diversi: in effetti, Libero ha istituito riti all'insegna della festa e della gioia, mentre le pratiche giudaiche sono assurde e cupe. 

6. Il loro territorio confina a oriente con l'Arabia, a mezzogiorno si stende l'Egitto, a occidente i Fenici e il mare, verso settentrione s'affacciano per lungo tratto su un lato della Siria. Gli uomini hanno corpi sani e resistenti alla fatica. Rare le piogge, fertile il suolo; hanno messi come le nostre e in più il balsamo e le palme. Nei palmeti s'innalzano alberi slanciati e imponenti; il balsamo è arbusto piccolo e quando la linfa gonfia i suoi rami, se vi accosti il coltello, le vene dell'arbusto ne risentono per la paura: si aprono con una scheggia di pietra o con un coccio e il liquido è impiegato per usi medicinali. La più alta montagna che si eleva è il Libano: cosa straordinaria a dirsi, fra terre tanto calde, è ombroso e coperto di nevi perenni; è lui che alimenta e ingrossa il fiume Giordano. Ma il Giordano non sfocia nel mare, bensì attraversando, senza perdersi, un primo e un secondo lago, nel terzo finisce. Quest'ultimo, di dimensioni enormi e simile a un mare, ma di sapore più digustoso e dalle esalazioni pestilenziali per i rivieraschi, non è mosso dal vento né consente la vita a pesci o uccelli acquatici. Le sue onde inerti sostengono, come fossero solide, quanto vi si getti sopra, e quindi restano a galla tutti, capaci o no che siano di nuotare. In una certa stagione dell'anno getta fuori bitume, raccolto con una tecnica insegnata, come le altre attività, dall'esperienza. È un liquido nero allo stato naturale che, sparso d'aceto, si rapprende e galleggia. Chi è addetto alla raccolta lo prende con le mani e lo issa sul ponte del natante; qui lo si lascia colare da sé e quando il battello è pieno, si interrompe il flusso. Ma non lo si può scindere tagliandolo col bronzo o col ferro; fugge davanti al sangue o a un panno impregnato di quel sangue, di cui le donne ogni mese si liberano. Così secondo gli autori antichi; ma i conoscitori dei posti riferiscono che le masse galleggianti di bitume sono spinte o trascinate a braccia sulla riva e poi, disseccatesi col calore della terra e la calura del sole, le fanno a pezzi con scuri e cunei, come fossero travi o pietre. 

7. Non lontano è la pianura, che dicono fertile un tempo, abitata da grandi città, bruciate poi dal fulmine; parlano di tracce residue e che la terra stessa, nel suo aspetto disseccato, non abbia più la forza di produrre. La vegetazione spontanea, infatti, o quella seminata dall'uomo, sia erba o fiore, appena normalmente sviluppata, annerisce, si atrofizza e si dissolve come in cenere. Da parte mia, come potrei ammettere che città un tempo stupende siano bruciate per il fuoco celeste, così credo che la terra s'infetti per le esalazioni del lago, che l'aria sovrastante si corrompa e quindi imputridiscano messi e frutta, perché egualmente malsani il suolo e il cielo. Il fiume Belio svanisce anch'esso nel mare di Giudea e attorno alla sua foce si raccoglie una sabbia che, cotta con l'aggiunta di nitro, diventa vetro. Poco estesa è quella spiaggia ma, per chi cava la sabbia, essa è inesauribile. 

8. Gran parte della Giudea è disseminata di borgate; hanno però anche città. La capitale è Gerusalemme, col suo tempio immensamente ricco. Una prima cerchia di mura chiude la città, una seconda la reggia; infine il tempio, cinto da una più interna. I Giudei potevano accedere fino alle porte; la soglia era vietata a tutti, eccetto ai sacerdoti. Finché l'Oriente fu soggetto agli Assiri, ai Medi, ai Persiani, i Giudei furono la parte più spregiata dei loro sudditi; quando prevalsero i Macedoni, il re Antioco tentò di estirpare il loro fanatismo, introducendo i costumi greci, ma la guerra contro i Parti gli impedì di incivilire quella gente sconcia; infatti, proprio allora si era ribellato Arsace. Allora i Giudei, profittando del declino dei Macedoni e della potenza non ancora affermata dei Parti - e i Romani erano lontani - si diedero propri re. Questi, cacciati dalla volubilità del popolo, ripresero il dominio con le armi, non indietreggiando di fronte a fughe di cittadini, a distruzioni di città, a uccisioni di fratelli, di spose, di genitori e di fronte agli altri misfatti propri dei re, e tennero viva quella superstizione, perché assegnavano alla dignità sacerdotale il ruolo di sostenere la propria potenza. 

9. Primo fra i Romani, Gneo Pompeo domò i Giudei e, per diritto di vittoria, entrò nel tempio. Si seppe, allora, che non vi era alcuna immagine di divinità, che il luogo era vuoto e che il santuario tanto segreto non nascondeva nulla. Le mura di Gerusalemme furono abbattute, ma il tempio rimase. Più tardi, al tempo delle guerre civili fra noi Romani, dopo che quelle province finirono sotto il controllo di Marco Antonio, il re dei Parti Pacoro si impadronì della Giudea, ma venne ucciso da Publio Ventidio e i Parti furono ricacciati oltre l'Eufrate; Gaio Sosio allora assoggettò i Giudei. Il regno, affidato da Antonio a Erode, subì ingrandimenti per merito di Augusto, dopo la sua vittoria. Morto Erode, un certo Simone usurpò, senza attendere la volontà dell'imperatore, il nome di re. Costui venne giustiziato da Quintilio Varo, allora governatore della Siria; il popolo fu ridotto all'obbedienza e il regno tripartito fra i figli di Erode. Sotto Tiberio ci fu pace; ma, in seguito all'ordine di Caligola di collocare nel tempio una sua statua, preferirono prendere le armi e solo la sua morte troncò la rivolta. Morti i re o ridotti a un potere limitato, Claudio affidò la provincia di Giudea a cavalieri romani o a liberti. Uno di questi, Antonio Felice, esercitò i poteri regali con animo da servo, fra violenze e arbitrii di ogni tipo; sposò Drusilla, nipote di Cleopatra e Antonio, sicché era progenero di quell'Antonio di cui Claudio era nipote. 

10. Tuttavia i Giudei pazientarono fino al procuratore Gessio Floro: con lui scoppiò la guerra. Nei suoi tentativi di soffocarla, il legato di Siria Cestio Gallo li affrontò in diversi scontri con alterna, ma più spesso avversa, fortuna. Come questi ebbe a morire, o per destino o per i crucci patiti, Vespasiano, inviato da Nerone, grazie alla sua fortuna, alla fama e a ottimi collaboratori, nel giro di due estati, occupava col suo esercito vincitore tutto il piano e tutte le città, tranne Gerusalemme. L'anno seguente, tutto occupato dalla guerra civile, passò tranquillo per i Giudei. Garantita la pace in Italia, ripresero anche i problemi di politica estera. Il risentimento cresceva per il fatto che solo i Giudei non avevano ceduto; ma nel contempo sembrava utile che alla testa degli eserciti rimanesse Tito, per poter far fronte a tutte le evenienze del nuovo principato. 

11. Posto dunque il campo, come s'è detto, davanti alle mura di Gerusalemme, Tito presentò le sue legioni pronte alla battaglia. I Giudei si schierarono proprio a ridosso delle mura, decisi ad avanzare in caso di successo, ma sicuri della ritirata, se respinti. Li affrontò la cavalleria, col sostegno di truppe leggere, in un combattimento d'esito incerto; poi il nemico ripiegò e, nei giorni successivi, s'accendevano di frequente scontri davanti alle porte, finché le continue perdite li ricacciarono dentro le mura. I Romani si accinsero all'assalto, parendo indegno attendere la resa dei nemici per fame e volevano sfidare il pericolo, alcuni per coraggio, molti per fierezza e brama di ricompense. A Tito, poi, s'affacciava alla mente Roma con tutte le sue ricchezze e i suoi piaceri; e gli pareva di tardare a goderli, se Gerusalemme non fosse caduta al più presto. Ma la città, già in posizione ostica, era difesa da un sistema di solide fortificazioni, bastevole a proteggerla tranquillamente anche in pianura. Infatti, i suoi due colli alti e scoscesi erano chiusi da mura volutamente oblique e ad angoli rientranti, perché i fianchi degli assalitori restassero scoperti e sotto tiro. Il lato esterno della roccia era a picco e le torri, alte sessanta piedi, dove aiutava la costa del monte, salivano a centoventi nelle depressioni, sicché, viste da lontano, davano la sorprendente impressione d'essere di eguale altezza. Altre mura all'interno attorniavano la reggia e su tutte spiccava per altezza la torre Antonia, così chiamata da Erode in onore di Marco Antonio. 

12. Sorgeva il tempio a mo' di rocca, con mura particolari, che avevano richiesto maggiore fatica e abilità delle altre; il porticato avvolgente il tempio costituiva di per sé una valida difesa. Potevano disporre di una fonte d'acqua perenne, di sotterranei nella montagna, di piscine e cisterne per l'acqua piovana. L'atipicità dei costumi aveva fatto prevedere ai fondatori guerre frequenti e, quindi, tutto era attrezzato per un assedio anche lunghissimo; e molto avevano suggerito la paura e l'esperienza dopo l'espugnazione operata da Pompeo. Profittando dell'avidità del regime claudiano, acquistarono il diritto di costruire fortezze e così innalzarono, in tempo di pace, mura come per una guerra. E la popolazione s'era ingrossata, per il riversarsi di una massa di gente dalle altre città distrutte; là avevano, infatti, trovato rifugio i più irriducibili avversari di Roma e lo spirito ribelle vi era più diffuso. Tre i capi, altrettanti gli eserciti: Simone presidiava la cinta esterna, la più ampia; Giovanni [chiamato anche Bargiora] il centro della città ed Eleazaro il tempio. Giovanni e Simone traevano la loro forza dal gran numero di armati, Eleazaro dalla posizione: ma non si contavano, fra loro, scontri, tradimenti, incendi, e le fiamme s'erano divorate una gran scorta di frumento. Più tardi Giovanni, fingendo di offrire un sacrificio, manda uomini a massacrare Eleazaro e i suoi, impadronendosi così del tempio. La città si divise allora in due fazioni, finché, con l'avvicinarsi dei Romani, la guerra esterna riportò la concordia. 

13. S'eran verificati dei prodigi; prodigi che quel popolo, schiavo della superstizione ma avverso alle pratiche religiose, non ha il potere di scongiurare, con sacrifici e preghiere. Si videro in cielo scontri di eserciti e sfolgorio di armi e, per improvviso ardere di nubi, illuminarsi il tempio. S'aprirono di colpo le porte del santuario e fu udita una voce sovrumana annunciare: «Gli dèi se ne vanno!» e intanto s'avvertì un gran movimento, come di esseri che partono. Ma pochi ricavavano motivi di paura; valeva per i più la convinzione profonda di quanto contenuto negli antichi scritti dei sacerdoti, che proprio in quel tempo l'Oriente avrebbe mostrato la sua forza e uomini venuti dalla Giudea si sarebbero impadroniti del mondo. Questa oscura profezia annunciava Vespasiano e Tito, ma il volgo, come sempre sollecitato dalla propria attesa, incapace di fare i conti con la realtà anche nei momenti più difficili, interpretava a suo favore un destino così glorioso. La massa degli assediati, d'ogni età e dei due sessi, maschi e femmine, ascendeva, come ci hanno confermato, a seicentomila. Chiunque poteva imbracciare armi; e ad affrontare i rischi eran pronti più di quanto il numero comportasse. Eguale determinazione vivevano uomini e donne e, nella prospettiva d'esser costretti a mutar sede, la vita li spaventava più della morte. Contro questa città e questa gente, poiché la posizione non consentiva un assalto o improvvisi colpi di mano, Cesare Tito decise di combattere impiegando terrapieni e tettoie. Ripartisce i compiti fra le legioni e gli scontri furono sospesi, finché non vennero affrontati con tutti i mezzi escogitati dagli antichi e dai moderni, per espugnare la città.
 

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