mercoledì 26 ottobre 2016

AUTOBIOGRAFIA

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Quale titolo dare a questa storia vera? Quello di un fiore. Di quale fiore? Al tempo in cui io sono nata il biancospino spruzza di neve viva le siepi fino allora brulle, ed i suoi fioretti, candidi come piuma perduta da colomba in volo, carezzano le spine rosso-bru­ne dei suoi rami. In certi paesi di Italia chiamano il biancospino selvatico «Spina Christi» e dicono che la corona spinosa del Re­dentore era fatta di questi suoi rami che, se torturanti per la car­ne del Salvatore, sono protettori dei nidi che nuovamente s'em­piono di pispigli e d'amore. Ai piedi del biancospino, fiore quaresimale nella veste e cri­stiano nell'umiltà, odora mite la violetta... Un odore più che un fiore... un lieve e pur penetrante odore, un umile e pur tenace fiore che di tutto si accontenta per vivere e fiorire. Vorrei chiamare questa vita col nome di uno di questi due fio­ri e specie della violetta, che vive nell'ombra ma che sa che su lei splende il sole per darle vita e calore. Lo sa, anche se non lo ve­de; e odora, esalando tutta sé stessa in incenso d'amore, per dir­gli «grazie». Io pure, anche se paio dimenticata dall'eterno Sole, so - e l'anima non dice il suo segreto regale - che Egli, il mio Sole, è su me, e con tutta me stessa esalo il mio cuore a Lui per dirgli: «Grazie di avermi amata!».

PARTE PRIMA
Non con la mia parola ma con quella di Gesù inizio la narra­zione della mia vita. Questo per obbedire ad un desiderio espres­somi da Lei, (è il Padre Rumualdo M. Migliorini - 1884/1953 -, dell’Ordine dei Servi di Maria, direttore spirituale dell’inferma Valtorta dal 1942 al 1946)    desiderio che non discuto anche se, a mio modo di vedere, non trovo molto utile e soprattutto molto piacevole, né per me né per Lei, questa narrazione. Lei è un maestro di spirito, dunque se trova giusto che io le faccia conoscere la mia vita è se­gno che è giusto. Avanti dunque con sincerità, con umiltà e con pazienza... Dipanando il filo della mia vita, e dipanandolo a ritroso, mi sarà un conforto e un dolore perché lungo il filo, come perle su un rosario, troverò gioie, dolori, colpe, perdoni, speranze, e le pietre nere del dolore saranno molto numerose rispetto a quelle d'oro della gioia, così come le pietre grigie delle mancanze sa­ranno molto più numerose di quelle candide del bene. Pazienza, ripeto. Così, facendo l'inventario della mia esistenza, distrug­gerò completamente quel resto di orgoglio umano che è così du­ro a morire nei cuori - peggio di una gramigna è - e sempre tenta rimettere radici e steli. Creda però che l'inventario sarà sincero, spietato verso me stessa come lo è il coltello di un chirurgo sulle carni malate e... mi fido della sua bontà che non mi caccerà dal suo cospetto ma mi ripeterà le parole del Perdonatore divino notando che io pure ho molto amato, senza mai misurare quanto di sacrificio poteva impormi il mio amare e perciò, per la mia generosità che tutto calpestava per amore, anche sé stessa e il suo umano bene, Dio molto mi perdonerà.

«Nella colpa sono nato e nel peccato mi ha concepito mia madre», dice il salmo. E’ questa la sorte di tutti i nati di donna, e la colpa, per quanto lavata dal battesimo, resta larvata in noi su­scitando ritorni di male finché la vita è in noi. Come certi mali orrendi, vinti da fortunate cure, ma non mai cancellati del tutto e sempre pronti a rigerminare se non si tengono continuamente in freno con mille attenzioni. Io sono nata il 14 marzo 1897 a Caserta. Nascita molto con­trastata fin dal suo inizio, e già mio padre si era rassegnato a piangere sul mio cadaverino condannato prima di vedere la lu­ce. Povero papà mio! Non gli ho dato mai dispiaceri voluti e questo è il mio conforto, il conforto che mi fa alzare gli occhi in alto, cercando il mio caro papà nella pace di Dio. Ma gli sono costata lacrime nel mio apparire e nel suo disparire. Allora do­vevo esser morta ed egli piangeva. Mentre, quando era egli pros­simo a morire, io ero già tanto malata da angustiarlo fino ad ac­celerare la sua morte! Dovevo esser morta nel nascere a detta dei medici. Invece, per quanto non curata, come essere già estinto, ripresi da me le­na e respiro e gettai il mio primo lamento. Non ebbi cure di mamma. No. La vita in comune fra me e mia madre finì dal momento in cui io nacqui. Non si perpetuò per altri mesi attraverso il dolce legame del cibo che è latte, che è sangue, che è vita trasfusa da madre a figlio. Una mercenaria fu mia nutrice. Dicono alcuni fisiologi che la creatura lattante, così come as­sorbe le malattie attraverso il latte della nutrice, così può pren­dere le tendenze morali. É una opinione che molti ammettono, altri negano, come viene negata e ammessa alternativamente l'opinione che la terra dove nasciamo imprima in noi un caratte­re indelebile. Io non mi addentro in questo pro e contro. Dico solo che, per mio conto, trovo che non indifferentemente io nacqui da genitori lombardi, in Terra di Lavoro, nella Campania assolata, festante, opima e ricca di virtù e di difetti come poche altre terre, e ancor meno indifferentemente succhiai, sebbene per pochi mesi, il lat­te di una donna di laggiù, e una donna, per giunta, che era il ve­ro emblema di quelle terre per tutto quanto si riferisce a passio­nalità selvaggia e sfrenata. Piccina, un pulcino dagli occhietti appena aperti, dovevo poppare, digerire, dormire al suono, al ritmo e allo sconquassio delle più indiavolate tarantelle con accompagnamento di nac­chere o di tamburello... e mia madre, nonostante la sua autori­tarietà, doveva tacere e lasciar fare perché Teresa, la nutrice, di­ceva che se non cantava, suonava e ballava si immelanconiva e il latte ne soffriva. Credo che Teresa sia stata l'unica persona che abbia saputo imporsi a mia madre! E poco male sarebbe stato se tutto si fosse limitato a danze e suoni. Ormai io, povero pulcino, m'ero abituata a quella fiera perpetua. Ma c'erano le passeggiate... sempre per il latte, è na­turale! E non erano passeggiate platoniche, purtroppo. Subito dopo il battesimo, avvenuto con grande pompa non so di preciso quanti giorni dopo la nascita, ma non certo troppo sollecitamente perché si attendeva che mia mamma stesse me­glio, Teresa aveva intrapreso le sue passeggiate con la «piccerel­la», per la salute della «piccerella». Povera piccerella! Se avesse potuto parlare ne avrebbe dette di curiose! Teresa scendeva per via Giovan Battista Vico, in gran pompa, con me sulle braccia, passava davanti al Palazzo Reale, filava per lo stradone di S. Nicola e giù, verso la campagna. In cerca di aria e di sole? No, di cose ben più illecite. Sicura che mamma non l'avrebbe sorpresa perché non si curava di tanto, sicura che papa non l'avrebbe scovata perché occupato nel Reggimento, Teresa si abbandonava al suo istinto di Eva campagnola. E qui, se fossi nata nel medioevo, potrebbe intessersi la leg­genda. Io venivo deposta fra i solchi del grano frusciante, sulla terra già tutta una vampa, sotto al sole torrido di Terra di Lavo­ro, e restavo là una, due ore, con unici compagni i ramarri, le api, le farfalle e gli uccelli che, insieme al grano frusciante, mi cantavano la ninna nanna. Potevano venire vipere, cani randagi, altre bestie nuocermì, poteva il sole dardeggiante uccidermi, co­sì tenerella come ero. Ma non accadde mai nulla. L'angelo di Dio che m'aveva in custodia mi faceva velo al troppo sole con le sue ali paradisiache e fugava col suo aspetto tutte le cose nocive. Restava solo una gran fame, perché il latte, con quella vita e le sue conseguenze, se ne era andato e io venivo ingozzata come un pollo con granturco bollito, con frutta schiacciate e simili deli­catezze che farebbero inorridire un pediatra. Tornavo a casa strillando lo stesso, ma insomma... di fame non morivo. Così per quattro mesi, dall'aprile alla fine di luglio; poi, fi­nalmente, mia mamma venne messa sull'avviso da un buon uo­mo di vetturino che aveva sentito i miei gridi disperati e m'ave­va scovata in mezzo a un campo di pomidori. Furie materne, fu­rie della nutrice e furie del medico che trovò la donna prossima ad esser madre di un nato illecito. E io affamata, urlante, venni affidata a due caprette, molto più materne con me di Teresa. Delle volte penso che le poche stille di latte succhiate da quella donna lussuriosa abbiano lasciato il loro segno di passio­nalità in me. E meno male che sono state poche stille!!! Certo che io, nata dal più placido degli uomini e dalla più frigida delle donne, ho una psiche ben diversa e, se la bontà di Dio e l'educa­zione religiosa avuta in ottimo collegio non avessero provveduto a modificare la mia natura, io avrei potuto essere una disgrazia­ta senza freno. Ma è anche certo che questa passionalità, depo­sta in me da coincidenze fortuite quali sono la terra dove nacqui e la donna che mi allattò così malamente, o venuta a me da ori­gini lontane per discendenza da qualche mio avo dotato del mio stesso carattere, furono e sono cagione di non poche lotte e non poche sofferenze per me. Le due nature, dirò così, che erano in me: quella ereditata dai genitori - natura compassata, placida, metodica, tutta lombar­da - urtava contro quella succhiata dal sole, dall'aria, dal latte meridionale. L'una freddina e chiusa, l'altra ardente e espansi­va, sempre in lotta fra loro perché la prima imperava sulla men­te ed era prepotente, sempre più prepotente perché spalleggiata e di continuo aumentata dall'educazione familiare, e l'altra ur­geva nel cuore ed era una vera fame, una vera sete, una vera no­stalgia di affetti, di amore, un bisogno di amare e di essere ama­ta con passione, con fedeltà, con dedizione. Potrei dire di me che ero come un vulcano dalle pendici coperte di neve perpetua che ne cela i fianchi ribollenti di fuoco sotto una spennellatura di ghiaccio. A volte, a intervalli, il fuoco del cuore, troppo com­presso, esplodeva in improvvise, incontenibili eruzioni che scon­volgevano, arrossavano, liquefacevano la gelida neve esterna. Ma poi la mano ferrea dell'educazione familiare e una naturale ritrosia, una timidezza innata, un vergognarmi della mia ten­denza mi ricopriva di compassatezza fino a farmi apparire fred­da, indifferente, calma. Calma!... Ma torniamo all'infanzia. Si dice che i caratteri si delineino fin dai primi giorni di vita. Ebbene: io mostrai subito un lato, potrei dire il più essenziale, del mio carattere. Quello della fedeltà a quanto amo. Teresa mi aveva dato ben poco! Avare e venefiche stille di un latte che non era più latte, pericolosi abbandoni su zolle campe­stri; m'aveva turbato organi, psiche, sonni, digestioni con la sua eccitata frenesia di impudica sempre agitata dalla sua sete di il­leciti amori, dalla tema d'esser sorpresa dal marito o dai padro­ni; eppure io, con il mio cuoricino appena nato, le volevo bene, un bene rudimentale come è quello del cucciolo verso la femmi­na da cui trae alimento e calore, ma un bene sempre. E fui fede­le a quel mio primo amore. Cacciata Teresa, io rifiutai ogni altro seno di donna e rasentai la morte per inedia perché respingevo con un'ira disperata ogni mammella che mi venisse offerta... Preferii arrendermi al belare affannoso delle due caprette... Sentivo forse di già che nella mia triste vita avrei avuto conforti da Dio solo e, dopo Dio, dagli animali e dalle cose create da Dio eterno? Chissà! Certo si è che, se fra me ed i miei simili ben po­chi e buoni furono i contatti ed ebbi dal prossimo molto a soffri­re e poco a trarre conforto, dalle umili creature minori, dai fiori, dall'erbe, dal sole, dagli astri, dal mare testimonianza di Dio, dalla natura suo poema io ho tratto sempre forza e pace. Rimasi a Caserta fino al mio diciottesimo mese; poi mio padre venne trasferito, col Reggimento al quale apparteneva, a Faenza. Dal sole del meridione al ghiaccio delle Romagne! Io che avevo, posso dire, tratto vita nei miei primi quattro mesi di vita dal sole che mi fasciava di splendori e mi teneva in vita, dal sole che era per me nutrice... Perdetti in uno quel sole e le mie due caprette, e dicono che la mia accorata ricerca di queste due cose fosse veramente commovente. Detti qui la seconda prova di fedeltà negli affetti. Non presi mai più latte. Il mio stomachino non volle più digerire latte che non fosse di capra e, dato che di capre a Faenza non ve n'era traccia, non più latte. Punizioni, lusinghe, tutto era inutile perché non era capriccio il mio. Era una necessità fisica che mi im­pediva di digerire il pesante latte di mucca. Intristii per il freddo... Ne ho sempre sofferto fino ad essere ostacolata nel mio crescere. Intristii per la perdita del mio ali­mento prediletto. E intristii per una troppo rigida educazione che già si accaniva su me in così tenera età. Mia nonna - la mamma di mia mamma, il mio angelo - ci aveva lasciati per tornare presso il marito accasciato per la per­dita di un figlio diletto, ucciso in quarantott'ore da una menin­gite. Ed io ero rimasta con papà e mamma. Mio papà era il mio protettore, il mio innamorato, quello che mi capiva e mi rendeva felice. Ma mio papà fra le tattiche, le eser­citazioni, i doveri di caserma, era via quasi tutto il giorno. Lo ve­devo per brevi momenti a mezzodì, perché al mattino, quando lui andava in quartiere, io dormivo ancora; a sera, quando finalmen­te tornava a casa e l'avrei potuto godere, io dovevo essere a letto. Solo alla domenica papà era mio per tutto il pomeriggio... e le domeniche erano perciò per me sempre solari anche se l'acqua o la neve facevano di Faenza un paese nordico. Mia mamma invece era sempre in casa... Già sofferente di fe­gato, era come la grande maggioranza dei malati di fegato... In­segnante, prima delle nozze, era rimasta l'insegnante con tutto quanto questa professione ha di disciplina, di autoritarietà, di pedanteria. Donna perfetta per tutto quanto era dovere di mo­glie e di donna di casa, e anche di donna di società, non addolci­va la sua perfezione nel dovere con quella dolcezza nell'amore che rende così piacevole il convivere. Era ed è: il dovere. Credo che tutti quanti hanno avuto da lei del bene, perché del bene ne ha certo fatto - suo marito, io, sua madre, il fratello rimastole, i cognati, i dipendenti, gli amici - avrebbero preferi­to ricevere da lei molto meno di tutto quanto essa ha dato loro per dovere, ma di averlo ricevuto con l'addizionale di un poco di amorosa indulgenza. Invece l'indulgenza e lei sono due termini inconciliabili, due nemici perpetui. Credo che ella creda di diminuirsi amando ed essendo indulgente, voglio dire amando aper­tamente senza tormentarsi e tormentare col mettere degli odiosi e respingenti bavagli alla sua carità di figlia, di madre, di sposa, di parente, di amica, di padrona. A un tal carattere aggiunga Lei l'irascibilità del male epatico, allora molto serio, e calcoli l'entità esatta di quel che fosse il sistema di mia madre con tutti. Ho conosciuto insegnanti che erano indulgenti, come ho co­nosciuto malati gravi di fegato che erano dolci... ma sono le ec­cezioni. La regola è ben diversa, e mamma era nella regola. A mala pena sapevo distinguere gli oggetti, a malapena trotterel­lavo sulle mie gambette infantili e a fatica spiccicavo le prime parole, ma tutto era già regolato con una disciplina rispetto alla quale quella del mio collegio mi… un carnevale. Eppure era un collegio severo. Dovevo distinguere il bene dal male... e non avevo neppure due anni! Mi pareva d'essere sempre in procinto di precipitare in un abisso e tremavo, tremavo, tremavo. Guai a sbagliare! Ma anche se non si sbagliava, il «guai» c'era sempre. Lasciavo cadere un giocattolo? Guai! Spostavo una seggiola facendo ru­more? Guai! Gettavo uno strilletto per giuoco? Guai! Volevo scendere in giardino per sgranchirmi? Guai! Volevo andare in braccio a papà, all'attendente che mi voleva così bene, alla donna di servizio che era un angelo, tanto angelo che Dio la volle nel suo paradiso? Guai! Chiedevo a mamma un bacio? Guai! Avrei preferito andarle in grembo come tutti i bimbi con la mamma e non starle davanti come scolara in castigo, ripetendo a fatica pa­role francesi che dovevo imparare a masticare insieme alle ita­liane? Guai! Supplicavo che non mi venisse dato il latte che mi faceva star male? Guai! Sempre guai! Per il latte ci pensò il dot­tore e lo proibì. Che Dio gli dia pace per questa sua pietosa inter­cessione! Ma per tutto il resto, il «guai» restava. Per fortuna c'era papà. Egli, appena poteva, mi portava con sé, in caserma a vedere i bei cavalloni che mi piacevano tanto, per le strade di campagna, e apriva la mia mente al bello e alla lode di Dio che, mi diceva, aveva fatto tutto per gioia nostra. Oppure mi faceva giocare in giardino. Ero innamorata di papà mio. Gli dicevo tutto, gli chiedevo tutto e lui tutto ascoltava, e lui a tutti i miei «perché» risponde­va esaurientemente e pazientemente; e non era cosa da poco perché ero, fin da piccina, una fine osservatrice e una pensierosa meditatrice, e non mi mettevo quieta finché non sentivo che mi si era risposto con verità ed esattezza. Ho imparato tanto da mio papà che poi lo studio non mi fu mai fatica. Tutto: storia, geo­grafia, botanica, zoologia, leggi che regolano il moto degli astri  delle acque, arte che abbella le nostre città, le nostre chiese, le nostre gallerie, tutto entrò in me senza fatica, come una bella fola, attraverso le parole di mio padre. Egli non mi trattò mai da bimba rispetto all'intelligenza, ma fu però un maestro di una bontà suprema. Io mi sentivo sicura con lui, mi fidavo di lui, delle sue parole, del suo affetto, della sua comprensione. Ho cominciato a capire ben da piccina cosa vuole dire «Dio è Padre» solo guardando a mio padre. La misura della bontà, del sapere, dell'amore di Dio-Padre, io l'ho avuta paragonando il padre mio terreno al Padre mio celeste. E ho amato Dio perché ho capito cosa vuol dire essere il Padre.,Mio papà non mi trattò mai da bimba rispetto all'intelligen­za, e questo dava noia a mia mamma che aveva un altro concet­to educativo. Ma viceversa, anche fatta io donna, e donna adul­ta, mi trattò sempre come una bimba rispetto alla purezza. Che rispetto di me! Che cure perché nulla potesse offuscare l'anima della sua Maria!!! Povero papà mio! Mio primo profondo amore! Avevo per lui un attaccamento superiore alla mia età così piccina. Gli dicevo sempre: «Io starò sempre con te!», e lui di ri­mando: «Ma tu ti sposerai e allora andrai con il tuo sposo» (fin da piccina per me le spose erano qualcosa di regale, di cele­ste!...). Ma io rispondevo: «No, io sposerò te e starò con te solo», e lui, alludendo alla sua precoce calvizie che già diradava i suoi bei capelli morati e ricciuti, mi diceva ridendo: «Ma io, quando tu sarai grande, da manto, sarò pelato e tu non mi vorrai più». Io rispondevo con una piroetta, un salto, un abbraccio più stret­to: «Per regalo di sposa ti regalerò una parrucca (una "paucca", dicevo) e la pelata non si vedrà più». Avevo meno di tre anni allora, ma ragionavo così e me lo ri­cordo perché ho una memoria nata molto presto. Ho ricordato anche di recente a mamma abiti suoi di quel tempo, avvenimenti di quei giorni che lei, per la loro pochezza, aveva dimenticati. Ricordo benissimo Faenza così come era nel settembre 1901, quando la lasciammo per venire a Milano. Ma prima di parlare di Milano devo dire che nel dicembre 1899 mio nonno materno morì di peritonite fulminante. Era il 17 dicembre 1899. Una giornata di neve degna della Russia. Qual­cosa come ottanta centimetri di neve per le vie. La cittadina silenziosa, morta sotto la bufera gelata. E noi a piedi verso la sta­zione. Io in braccio a papà, se no la neve m'avrebbe ingoiata; mia mamma in lacrime a braccio di sua zia, in lacrime essa pure. Un triste viaggio verso Mantova, sperando di trovare nonno vivo. Poi a Codogno l'improvviso cedere del cuore della prozia mia... Arrivammo con una moribonda nella casa dove già era un morto. Mia mamma fra i due dolori si ammalò di itterizia e fu in fine di vita. Io spaurita, spaesata fra bare e agonie, fra lacrime e funera­li; papà che provvedeva a tutto, sempre paziente e amoroso. Poi il ritorno a Faenza con nonna, l'angelo che tornava per stare con noi fino alla sua morte. E allora ebbi due amori e due conforti, finché nel settembre del 1901 lasciai la mia puerizia a Faenza e andai a Milano.