domenica 28 agosto 2016

Qual è il rapporto tra monachesimo e liturgia?

 La preghiera incessante 

“VENITE E VEDRETE!”


Conferenza dal titolo “Il rapporto tra monachesimo e liturgia” – tenuta a Roma lo scorso 7 maggio da p. Cassian Folsom OSB, Priore del Monastero di Norcia, per aiutare a scoprire i Monaci e per pregustare il clima spirituale che respireranno i partecipanti al Pellegrinaggio nazionale dei Coetus Fidelium del Summorum Pontificum(3-5 luglio 2015), che abbiamo preannunciato qui.

Qual è il rapporto tra monachesimo e liturgia? 

Posso rispondere molto sinteticamente con una analogia: è il rapporto tra pesce e acqua. Ovviamente, il pesce abita nell’acqua, si muove nell’acqua, senza l’acqua muore. Così anche per il monaco: respira l’aria della liturgia, si nutre dalla liturgia, si muove nel mondo creato dalla liturgia, senza la liturgia muore spiritualmente.
Potrei finire qua – una conferenza di due minuti! – ma forse sareste delusi, aspettando una lezione più lunga. 

Quindi posso sviluppare il tema un po’ secondo le seguenti categorie: 
  1. La preghiera incessante
  2. Il tempo impiegato ogni giorno nella preghiera liturgica, secondo la Regola di San Benedetto
  3. I salmi
  4. Il canto
LA PREGHIERA INCESSANTE

Ci sono due indizi nella Regola che indicano chiaramente che secondo San Benedetto, la preghiera liturgica si colloca decisamente nella tradizione della preghiera incessante, come articolata dai Padri del deserto.

PRIMO INDIZIO:
Nel rito Romano, durante la Settimana Santa, la liturgia ritorna alle sue forme più arcaiche.  Ho in mente l’Ufficio Divino.  Prima delle Ore Minori (prima, terza, sesta e nona), troviamo questa rubrica: [Horae minoresabsolute inchoantur a psalmis infra signatis, ossia: “Le ore minori iniziano absolute, cioè senza versetti, segni di croce, senza nessun elemento introduttivo, direttamente – con i salmi indicati sotto.”
Ad esempio, l’Ora Prima inizia direttamente con Salmo 53: Dio, per il tuo nome, salvami. Si ricorda che questo stile di cantare i salmi è proprio arcaico – antichissimo.

Diversamente, secondo la Regola di San Benedetto, tutte le ore canoniche hanno qualche elemento introduttivo.  Vediamo, quindi, una innovazione da parte di San Benedetto che, parlando delle ore minori dice: “All’inizio si dica il versetto: Deus in adiutorium meum intende, Domine, ad adiuvandum me festina (Dio, vieni a salvarmi, Signore, vieni presto in mio aiuto)” (RB 18:1). Perché questa innovazione? Non si faceva così, infatti, prima di San Benedetto.  Perché questo versetto salmico in particolare? Nella tradizione monastica, dove si trova una trattazione intorno a questo versetto? Negli scritti di San Giovanni Cassiano, quando insegna un metodo da usare per la preghiera incessante. Cito un brano dalla Conferenza X di San Cassiano – lo stile è un po’ prolisso, ma il messaggio è chiaro:
Abba Isaia spiega a Cassiano e al suo compagno Germano:
“Per voi dunque sarà proposta come formula di questa disciplina e di questa preghiera, da voi richiesta, quella che ogni monaco, allo scopo di tendere al continuo ricordo di Dio, deve abituarsi a coltivare con una continua ripresa da parte del cuore e dopo avere espulsa la varietà di tutti gli altri pensieri, poiché egli non potrà applicarvisi in altro modo, se prima non si sarà liberato da tutte le preoccupazioni e sollecitudini corporali. Tale esperienza, come a noi è stata trasmessa da quei pochi che, tra gli antichissimi padri sono sopravvissuti, così pure do noi essa non viene proposta, se non a pochissimi, realmente sitibondi [assetati, bramosi] di accoglierla. Pertanto sarà da noi suggerita a voi, conseguentemente, questa formula di vera pietà, allo scopo di raggiungere un continuo ricordo di Dio: Deus in adiutorium meum intende, Domine ad adiuvandum me festina [Sal 69]” (Conf. X,10).
Poi, Abba Isaia spiega tutti i pregi di questo versetto salmico, e perché è adatto alla preghiera incessante.

Allora, San Benedetto è stato formato dalla tradizione monastica che esisteva già secoli prima di lui. Egli dispone che i suoi monaci leggano le Conferenze di San Cassiano. Infatti, San Benedetto individua il nucleo dell’insegnamento di Cassiano sulla preghiera incessante – e cioè l’uso di questo versetto – e con uno slancio innovativo, prefigge questo versetto a tutte le ore dell’Ufficio Divino.
Che cosa vuol dire tutto questo? San Benedetto vuole fare un ponte tra la preghiera personale e la preghiera liturgia. Il ponte è, infatti, la preghiera incessante.

SECONDO INDIZIO:
I nostri padri vivevano in un’epoca in cui si esprimeva il senso della vita per mezzo dei simboli. Un aspetto importante di questo mondo simbolico era costituito dai numeri. Ascoltate un brano della Regola, cap. 16, che insiste su questa simbologia:
“Si deve osservare quello che dice il Profeta: Sette volte al giorno io canto la tua lode. Questo sacro numero di sette sarà rispettato se adempiremo il dovere del nostro servizio a lodi, prima, terza, sesta, nona, vespri e compieta, poiché a queste ore diurne si è riferito il salmista dicendo: Sette volte al giorno canto la tua lode. Quanto alla veglie notturne infatti il medesimo Profeta dice: Nel mezzo della notte mi alzavo a celebrarti. Rendiamo dunque lodi al nostro Creatore per le sentenze della sua giustizia a lodi, prima, terza, sesta, nona, vespri e compieta, e alziamoci per celebrarlo nella notte” (RB 16).
Perché questa insistenza che i monaci cantino le ore diurne dell’Ufficio Divino sette volte ogni giorno? Perché il numero 7 significa completezza, totalità – significa che i monaci pregano sempre, incessantemente.
Ecco due piccole spie nella Regola di San Benedetto che ci aprono vasti orizzonti. La preghiera liturgica – e qui si tratta in particolare dell’Ufficio Divino – è organizzato in modo che queste forme liturgiche aiutano il monaco a pregare sempre, incessantemente. O in altre parole, aiutano il pesce a rimanere nell’acqua.

TEMPO IMPIEGATO NELLA PREGHIERA LITURGICA / PERSONALE

Questa immersione totale ha delle implicazioni concrete, perché la vita quotidiana del monaco viene organizzata attorno a questi momenti di preghiera. Poniamoci questa domanda: Quanto tempo ogni giorno viene impiegato nella preghiera liturgica, secondo la Regola di San Benedetto? (Potrei darvi subito la risposta, ma sarebbe un approccio noioso!  È più interessante scoprirlo personalmente).
Ci sono due considerazioni: 
  1. l’Ufficio Divino (preghiera liturgica per eccellenza) e
  2. la lectio divina (la ruminazione sulla Pagina Sacra della Bibbia).
Stranamente, San Benedetto dice ben poco sull’Eucaristia, non descrive la liturgia della Messa; questa lacuna viene riempita dalla tradizione sviluppatasi dopo San Benedetto.

La preghiera liturgica

Vorrei elencare tutti i momenti di preghiera liturgica della giornata, secondo la Regola e la tradizione. Però, la mia capacità matematica è pessima – dovete aiutarmi a fare il calcolo. Anzi, facciamo due calcoli: uno per i giorni feriali, l’altro per i giorni festivi.
  1. Il Mattutino: di solito dura attorno ad un’ora, ma la domenica e nei giorni festivi, può durare un ora e mezzo, o anche di più. [da un’ora: feriali; ad un’ora e mezzo. festivi]  
  2. Le lodi: attorno a 40 minuti 
  3. L’ora prima insieme all’ufficio del capitolo: 30 minuti
  4. Le ore minori terza, sesta e nona: 10 minuti ciascuna [30 minuti]    
  5. La Messa cantata – da 50 minuti ad un’ora. La Messa solenne – un ora e mezzo
  6. I Vespri: attorno a 30 minuti
  7. La compieta: 20 minuti
Per un totale di h 4,30 per i giorni feriali: h 5,30 per i giorni festivi.
Ecco il tempo impiegato per la preghiera liturgica.

L’orario monastico prevede anche la preghiera personale, la lectio divina. Leggo la descrizione di San Benedetto, e di nuovo, vi invito a fare il calcolo. La domanda è questa: quanto tempo viene dedicato alla lectio divina? Anche qui, si deve distinguere tra giorni feriali e giorni festivi.
Si tratta del cap. 48: Il lavoro manuale di ogni giorno. Non leggo tutto il capitolo, solo quei brani che dispongono l’orario per la lectio divina.
“L’ozio è nemico dell’anima, e perciò i fratelli devono essere occupati in ore determinate nel lavoro manuale e in altre ore nella lectio divina.
Riteniamo quindi che le due occupazioni siano ben ripartite nel tempo con il seguente orario:
  • da Pasqua fino alle calende di ottobre... dall’ora quarta (10,00) fino a quando celebreranno sesta (12,00) attendano alla lettura.  [2 ore]
  •  A partire invece dalle calende di ottobre fino all’inizio della quaresima attendano alla lettura fino a tutta l’ora seconda... (dalle 6,00 alle 8,00) [2 ore]
  •  Nei giorni della quaresima poi, dal mattino fino a tutta l’ora terza attendano alle proprie letture… (dalle 6,00 alle 9,00) [3 ore]
  •  Anche nel giorno della domenica, attendano tutti alla lettura, tranne quelli incaricati nei diversi servizi. [diverse ore]
Apro una parentesi: il sistema romano di calcolare il tempo consisteva nella divisione del giorno in 12 ore, e la notte in 12 ore: il che vuol dire che nel periodo estivo, le ore diurne sono più lunghe e le ore notturne più brevi; similmente, durante il periodo invernale, le ore diurne sono più brevi e le ore notturne più lunghe. Comunque sia, per comodità, facciamo il nostro calcolo basato su di un’ora di 60 minuti. Chiudo la parentesi.

La somma tra preghiera liturgica e preghiera personale?
Giorni feriali
  • fuori della quaresima: 6,30
  • quaresima: 7,30
  • Domenica e giorni festivi con l’orario domenicale: 7,30
Perché così tanto tempo di preghiera? Uso un’altra analogia, non quella del pesce, ma l’immagine di un campo sassoso che si deve arare. È necessario arare i solchi ripetutamente, anno dopo anno, per avere la terra veramente fertile. Allora, il nostro cuore è un campo sassoso, e ci vuole tanta preghiera, per arare bene quel campo.

I SALMI

Qual è il contenuto principale dell’Ufficio Divino? Una percentuale molto alta di tutte queste ore di preghiera consiste nella recita dei salmi.
Per capire l’importanza fondamentale dei salmi come parte essenziale della preghiera monastica, dobbiamo fare un piccolo esercizio di ermeneutica della Regola. Citerò tre brani, che si somigliano. Il vostro compito è di individuare le frasi uguali e la frasi diverse.
RB 4:21 Nihil amori Christi praeponere
               Nulla all’amore di Cristo anteporre
RB 72:11 Nihil omnino Christo   praeponant
                 Nulla a Cristo antepongano assolutamente
RB 43:3  Nihil operi Dei praeponatur
                Niente all’Opera di Dio deve essere anteposto
Quali sono le espressioni uguali? Le espressioni diverse?
Se cerchiamo di interpretare bene che cosa vuol dire Opus Dei nella Regola, cioè, l’Ufficio Divino, il parallelismo di questo schema può aiutarci. Si tratta di capire l’oggetto del verbo praeponere. Ovviamente, la parola Christo e la frase l’amore di Cristo sono intercambiabili. Ma sembrerebbe cheChristo sia anche intercambiabile con l’Opus Dei. In altre parole, il contenuto dell’Ufficio Divino altro non è che Cristo stesso: Nulla anteporre a Cristo, nulla anteporre all’Ufficio!

Questa affermazione va approfondita, perché la conclusione non è evidente.
In che cosa consiste principalmente l’Ufficio Divino? Nei salmi. Anzi, San Benedetto indica che se i monaci si alzano tardi e quindi si deve abbreviare qualche cosa, si possono abbreviare le letture, ma non i salmi! Possiamo dire, dunque, che il contenuto dell’Ufficio è Cristo, presente nei salmi.
Come è possibile? I salmi sono dell’Antico Testamento: che cosa hanno a che fare con Cristo? Ci sono due possibili risposte:
  1. Secondo i criteri del metodo storico-critico, i salmi non hanno niente a che fare con Cristo.
  2. Secondo i criteri dell’interpretazione della Sacra Scrittura come viene attualizzata nel Nuovo Testamento, nei Padri e nella Liturgia – cioè, l’interpretazione spirituale – i salmi hanno tutto a che fare con Cristo.
Vi do due esempi:
1. L’introito per la Messa di Natale a mezzanotte viene dal Salmo 2: Dominus dixit ad me: Filius meus es tu, ego hodie genui te. (Il Signore mi ha detto: Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato).
Secondo il senso storico, si tratta di un salmo di intronizzazione del re d’Israele, in cui Dio, con un decreto solenne, fa del re il suo figlio adottivo.
Ovviamente, la Liturgia fa una interpretazione cristologica. Chi parla? Dio Padre. Quando ha il Padre generato suo Unigenito Figlio? Non a Natale!  A Natale, la madre – Maria – partorisce il Figlio incarnato. Ma la generazione del Figlio è una realtà prima della creazione del mondo, prima che il tempo esistesse, un momento eterno si potrebbe dire. La liturgia, quindi, meditando su questo versetto salmico, approfondisce il testo del Credo che recita: “Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, dalla stessa sostanza del Padre”.
Questo metodo dell’interpretazione spirituale è stato descritto da Sant’Agostino con una frase lapidaria: “Tutto l’Antico Testamento parla di Cristo o ci esorta alla carità.”
In questo versetto preso dal Salmo 2, vediamo che il Salmo parla di Cristo.  Nel secondo esempio che vi darò, vedremo come un altro salmo ci esorta alla carità.

2. Nel prologo della Regola, c’è una allusione al Salmo 136 nel contesto di una descrizione della lotta spirituale:
“[Il monaco], tentato dal maligno, cioè dal diavolo, lo respinge lontano dalla vista del suo cuore insieme con la tentazione stessa, e così lo annienta e, afferrando subito al loro nascere i suoi suggerimenti, li infrange contro il Cristo” (Prol 28).
Vediamo il salmo che corrisponde a questo brano della Regola. È un lamento, cantato dai deportati in Babilonia, che termina con una maledizione abbastanza brutta.
Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo
al ricordo di Sion.
Ai sàlici di quella terra
appendemmo le nostre cetre.
Là ci chiedevano parole di canto
coloro che ci avevano deportati,
canzoni di gioia, i nostri oppressori:
“Cantateci i canti di Sion!”
Come cantare i canti del Signore
in terra straniera?
se ti dimentico, Gerusalemme,
si paralizzi la mia destra.
Mi si attacchi la lingua al palato
se lascio cadere il tuo ricordo,
se non metto Gerusalemme
al di sopra di ogni mia gioia.
Fin qua, tutto va bene. È un lamento molto bello, commovente, che ispira sentimenti di compassione. Ma il salmo prosegue; ci sono ancora due strofe che formulano una maledizione. Nella Liturgia delle Ore attuale, hanno tolto quest’ultima parte, perché il principio adoperato dai compilatori era quello dell’interpretazione esclusivamente storica. I Cristiani non possono usare una maledizione nella loro preghiera, e quindi, si devono omettere questi versetti.
La tradizione liturgica della Chiesa, però, ha sempre incluso questi versetti, perché il principio adoperato era sempre quello dell’interpretazione spirituale. Mi spiego. Ecco l’ultima parte del salmo:
Ricordati, Signore, dei figli di Edom,
che nel giorno di Gerusalemme
dicevano: “Distruggete, distruggete,
anche le sue fondamenta!”
(I popoli di Edom, che abitavano a sud-est del Mar Morto, erano nemici storici d’Israele, e hanno collaborato con i Babilonesi nella distruzione di Gerusalemme nel 587 a.C.)
Adesso viene la maledizione:
Figlia di Babilonia devastatrice,
beato chi ti renderà quanto ci hai fatto!
Beato chi afferrerà i tuoi piccoli
e li sbatterà contro la pietra!
L’uccisione crudele e barbarica dei bambini innocenti non è una cosa bella. Come è possibile che preghiamo questo salmo? Ascoltate ciò che fanno i Padri: un’interpretazione di profonda intuizione psicologica e spirituale.  Ecco il ragionamento:
  1. I Babilonesi sono nemici, e i nostri nemici sono il diavolo e tutto il suo esercito.
  2. Ma non si tratta di adulti Babilonesi, guerrieri, ma di bambini, quindi di tentazioni cattive del diavolo quando sono ancora piccole, impotenti, deboli.
  3. Si parla, poi, di una pietra. Che cosa vuol dire? San Paolo dice nella 1 Cor 10, che gli Israeliti durante l’Esodo “bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo” (1 Cor 10:4). San Paolo adopera il metodo spirituale per interpretare l’Antico Testamento.  Anche nel nostro caso, la roccia è Cristo.
  4. Conclusione: quando le tentazioni iniziano il loro attacco, quando sono ancora deboli, come bambini, precisamente in quel momento dobbiamo afferrarli e sbatterli contro la pietra che è Cristo. Se, invece, indugiamo, e lasciamo queste tentazioni / bambini crescere, diventeranno guerrieri, più forti di noi, e saremo sconfitti nella lotta spirituale.
Ascoltiamo ancora una volta le parole di San Benedetto:
“[Il monaco], tentato dal maligno, cioè dal diavolo, lo respinge lontanto dalla vista del suo cuore insieme con la tentazione stessa, e così lo annienta e, afferrando subito al loro nascere i suoi suggerimenti, li infrange contro il Cristo” (Prol 28).
Vedete? I salmi parlano di Cristo e della nostra vita spirituale in Cristo. Il monaco è immerso nel mondo dei salmi, ogni giorno. Il suo immaginario simbolico è formato dalla Bibbia (non dal televisore o dall’internet). La liturgia in genere, e i salmi dell’Ufficio in particolare, formano il monaco e lo nutrono.

IL CANTARE
L’ultima categoria è il canto. I monaci non recitano ma cantano la liturgia. Nel monastero di Norcia, cantiamo tutto – tutto l’Ufficio e tutta la Messa.
Quando io sono da solo, in viaggio, o fuori del monastero, anche da solo canto l’Ufficio. Il canto è essenziale per la liturgia monastica, perché esprime meglio tutti i sentimenti del cuore. Il Canto Gregoriano, a causa della sua antichità, del rapporto tra musica e parola, delle tonalità che sono diverse da quelle moderne – per tutti questi motivi, il canto gregoriano ha una bellezza del tutto particolare. È un canto creato per la liturgia, non per altri contesti, e quindi ha tutte le caratteristiche della musica liturgica di cui parla Papa Pio X: un musica sacra, bella, universale.
Cerchiamo di sviluppare questo tema del canto monastico, canto liturgico, prendendo in considerazione quattro punti:
  1. Il canto e i sentimenti del cuore
  2. Cantare: un atto comunitario
  3. Il cantare come partecipazione ai cori celesti
  4. Il canto esprime l’unità della fede
1. Il canto e i sentimenti del cuore
Il canto serve da veicolo per esprimere i sentimenti più profondi dell’anima – ha quindi un ruolo espressivo. Sant’Agostino descrive i suoi sentimenti quando ascoltava i canti a Milano, dove Sant’Ambrogio aveva dato uno slancio notevole alla forma musicale dell’inno.
Agostino era molto consapevole del potere emotivo del canto, e ne aveva un certo sospetto, allo stesso tempo riconoscendo l’effetto positivo del canto liturgico, confessava di essere stato commosso anche lui.

Talora esagero in cautela contro questo tranello [la pericolosa sensualità della musica]. Allora rimuoverei dalle mie orecchie e da quelle della stessa Chiesa tutte le melodie delle soavi cantilene con cui si accompagnano abitualmente i salmi davidici… Quando però mi tornano alla mente le lacrime che canti di chiesa mi strapparono ai primordi della mia fede riconquistata e alla commozione che oggi ancora suscita in me non il canto, ma le parole cantate, se cantate con voce limpida e la modulazione più conveniente, riconosco di nuovo la grande utilità di questa pratica (Confessioni, X, xxiii, 40).

La salmodia comunica efficacemente non soltanto il contenuto delle parole cantate, ma ha un altro effetto subliminale, intuitivo. Ad esempio, quando sono agitato, e vado ai Vespri in questo stato d’animo, dopo che le onde della salmodia hanno bagnato la sponda del mio cuore, mi sento più tranquillo, e quando i Vespri si concludono, mi trovo di nuovo in pace. Troviamo la stessa esperienza nella Bibbia. Si ricorda che il re Saul era afflitto da un tipo di follia. “Allora i servi di Saul gli dissero: 
“Vedi, un cattivo spirito sovrumano ti turba. Comandi il signor nostro ai ministri che gli stanno intorno e noi cercheremo un uomo abile a suonare la cetra. Quando il sovrumano spirito cattivo ti investirà, quegli metterà mano alla cetra e ti sentirai meglio… Quando dunque lo spirito sovrumano investiva Saul, Davide prendeva in mano la cetra e suonava; Saul si calmava e si sentiva meglio e lo spirito cattivo si ritirava da lui” (1 Sm 16:15-16; 23).
2. Cantare: atto comunitario
L’atto di cantare non è soltanto una questione personale, ma anche comunitaria. I monaci cantano insieme. Questo fatto è già una scuola di formazione! Il prefazio della Messa descrive gli angeli, gli arcangeli, i Cherubini e i Serafini cantando all’unisono: una voce dicentes. Questa armonia è anche l’obiettivo del coro monastico, e quindi dobbiamo ascoltare agli altri confratelli, moderare la voce, il ritmo, il volume per conformarsi al canto della comunità. Il monaco singolo deve diventare umile.
Se no, se il monaco è superbo e vuole esibirsi, o vuole manipolare il coro affinché la comunità segua il suo ritmo e il suo stile personale, non c’è più armonia, e si sente la dissonanza. Papa Benedetto XVI, nel suo famoso discorso al Collège des Bernardins a Parigi, sulla cultura monastica, cita San Bernardo, che rimprovera severemente i monaci che disturbano l’unità del canto. San Bernardo dice che con tale comportamento, il monaco abbandona la somiglianza di Dio, e si precipita nella regio dissimilitudinis, “nella zona della dissomiglianza, in una lontananza da Dio nella quale non Lo rispecchia più e così diventa dissimile non solo da Dio, ma anche da se  stesso, dal vero essere uomo.”1
Questo giudizio di San Bernardo è molto severo, ma si vede quanto importante per lui è il canto all’unisono.

3. Partecipazione ai cori celesti
Abbiamo citato la formula conclusiva del prefazio che descrive il canto dei cori celesti una voce dicentes. È significativo che il canto dei monaci non è semplicemente un’attività umana, di cultura musicale. È invece una partecipazione alla liturgia celeste. Per questo, San Benedetto dice:
“Sappiamo per fede che dappertutto Dio è presente e che gli occhi del Signore guardano in ogni luogo i buoni e i cattivi, ma dobbiamo crederlo senza dubbio alcuno soprattutto quando partecipiamo all’Opera di Dio. Perciò teniamo presente sempre quello che dice il profeta:Servite il Signore nel timore, e ancora: Salmodiate con sapienza e: In presenza degli angeli canterò per te. Badiamo dunque con quale atteggiamento dobbiamo stare davanti a Dio e ai suoi angeli, e poniamoci a cantare i salmi in modo che il nostro spirito sia in accordo con la nostra voce” (RB 19:1-7).
4. L’unità della fede
Ci sono tanti aspetti del canto liturgico che potrei sviluppare ancora, ma mi limito ad uno in più. Il canto ha la capacità di unire tutti i misteri della fede nell’unità di una singola intuizione. Vi do un esempio.

Il Martirologio per il Natale, traccia tutta la storia della salvezza, fino all’incarnazione del Figlio di Dio. In un crescendo di intensità, dopo aver menzionato il periodo di pace sotto l’imperatore Augusto, il Martirologio proclama la nascita del Salvatore con queste parole e con questa melodia:

Ripeto l’ultima frase: Nativitas Domini nostri Iesu Christi secundum carnem. Avete mai sentito questa intonazione, questa melodia? Da dove viene? Quando viene usata nella liturgia?
Ascoltate: Passio Domini nostri Iesu Christi secundum Matteum.
Vedete? La melodia della proclamazione della nascita di Cristo riprende esattamente la melodia della passione. Perché? Perché il Figlio di Dio è venuto nel mondo per salvarci dai nostri peccati per mezzo della sua passione. Ecco: l’unità dei misteri della fede, comunicata con grande semplicità, per mezzo di una cantilena liturgica.

CONCLUSIONE
Il rapporto tra Monachesimo e Liturgia è un rapporto di immersione totale. In questo breve incontro, vi ho dato uno schizzo di alcuni elementi che formano quest’ambiente speciale.
  1. La preghiera incessante
  2. La mole di tempo impiegato ogni giorno nella preghiera liturgica
  3. I salmi
  4. Il canto
Ce ne sono tanti altri. Concludo, quindi, con un invito: Venite e vedrete! La mia descrizione stasera è una cosa; la vostra esperienza sarà un’altra.
Vi invito ad un mondo di bellezza, di ascetismo, di profonda spiritualità, di incontro con il Signore. Venite, “voi tutti che siete affaticati e oppressi…e troverete ristoro per le vostre anime” (cf. Mt 11:29).
________________________
1 Benedetto XVI, Incontro con il mondo della cultura, Collège des Bernardins, Parigi: 12 settembre 2008), p.4.

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