giovedì 18 ottobre 2018

UN TUFFO NELL'ARTE... e nel mistero della conchiglia e dell'uovo

Pala di Brera (Pala Montefeltro)
Piero della Francesca 046.jpg
AutorePiero della Francesca
Data1472
Tecnicatempera e olio su tavola
Dimensioni248×170 cm
UbicazionePinacoteca di BreraMilano



Piero della Francesca
Piero della Francesca, Madonna and Child with Saints (1472-1474)
Piero della Francesca, La Pala di Brera (Pala Montefeltro), 1472-1474, tempera e olio su tavola, 248 x 170 cm, Pinacoteca di Brera, Milano

Piero della Francesca | La Pala di Brera, o Pala Montefeltro (1472-1474)
La Pala di Brera, o Pala Montefeltro (Sacra Conversazione con la Madonna col Bambino, sei santi, quattro angeli e il donatore Federico da Montefeltro), è un'opera di Piero della Francesca, tempera e olio su tavola (248 x 170 cm), databile al 1472 circa e conservata nella Pinacoteca di Brera a Milano, che le dà il nome. Alcune parti della pala (in particolare le mani del duca) sono da attribuire ad un intervento di completamento o modifica da parte di Pedro Berruguete, pittore di corte, databile a dopo il 1474 circa.[1]Storia

La tavola fa parte delle opere commissionate ad Urbino da Federico da Montefeltro a Piero, assieme al Doppio ritratto, alla Madonna di Senigallia e, forse, la Flagellazione.

Non si conosce l'originaria destinazione ufficiale dell'opera né la data di realizzazione, ma un indizio è fornito dal ritratto di Federico inginocchiato sulla destra: egli non porta ancora l'onorificenza dell'Ordine della Giarrettiera (che si vede ad esempio nel Ritratto col figlio Guidobaldo di Pedro Berruguete), ricevuta nel 1474, quindi il dipinto dev'essere anteriore a quella data.

La commissione viene quindi in genere collocata al 1472 circa, quando il duca, persa improvvisamente e prematuramente la moglie, iniziò a preoccuparsi della sua sepoltura ed aveva potuto richiedere l'immagine votiva a Piero, nell'ambito di un progetto di un mausoleo mai realizzato. Alcuni legano l'occasione della commissione alla conquista di alcuni castelli in Maremma, oppure alla nascita dell'erede del duca Federico, Guidobaldo da Montefeltro e la conseguente commemorazione della morte successiva della moglie Battista Sforza.


L'ipotesi è suffragata anche da una nota settecentesca nei registri del Convento di San Bernardino a Urbino, dove la pala si trovava, in cui si legge che l'opera fu eseguita nel 1472, anche se come autore viene fatto il nome di Fra Carnevale. A proposito di tale evento si legge ancora nella nota che il Bambino presenterebbe le sembianze del piccolo Guidobaldo, mentre la Vergine quelle della duchessa Battista Sforza, sepolta proprio in San Bernardino. Inoltre dal 1474 si iniziano a registrare opere desunte dall'innovativa composizione pierfrancescana.

In ogni caso la pala non poteva essere stata dipinta per San Bernardino, perché la chiesa venne cominciata solo nel 1482. Probabilmente il dipinto si trovava anticamente nella "cappella delli Conti" o dell'Assunta, nella Chiesa di San Francesco, luogo di sepoltura storico dei Montefeltro o in quella di San Donato, dove il Duca venne poi sepolto provvisoriamente. Forse la destinazione pianificata per l'opera era da sempre il mausoleo ducale, mai realizzato, che doveva essere costruito in forma di tempietto rotondo nel terzo cortile, detto "del Pasquino", di Palazzo Ducale.

Quando nel 1482, subito dopo la morte del Duca, Francesco di Giorgio Martini iniziò a costruire il Mausoleo Ducale di san Bernardino, lui e, forse, Donato Bramante - che conoscevano esattamente le volontà di Federico - presero subito in considerazione di collocare la pala sull'altar maggiore del nuovo tempio; così in effetti fu e, sebbene l'opera sia più antica della chiesa di circa dieci anni, creava un rilevante dialogo tra architettura reale ed architettura dipinta. La pala rimase in San Bernardino per ben 329 anni.
Nel 1810, a causa delle soppressioni napoleoniche, il dipinto venne trasferito, nel 1811, a Milano nella nuova istituzione di Brera, dove rimase fin da allora.

Per quanto riguarda la paternità dell'opera, è ormai scartata da tutti gli studiosi l'attribuzione a Fra Carnevale ed è riconosciuta unanimemente come opera autografa di Piero della Francesca. Tuttavia, già nel 1891 il critico Cavalcaselle, che per primo pose in discussione l'attribuzione a Fra Carnevale, notava un divario rispetto al resto dell'opera nelle mani del Duca Federico: Longhi avanzò il nome di Pedro Berruguete raccogliendo un pressoché totale consenso tra gli studiosi.
Descrizione e stile
La pala di Brera è esemplare delle ricerche prospettiche compiute dagli artisti del centro Italia nel secondo Quattrocento. Si tratta di un'opera estremamente monumentale, con un trattamento magnifico della luce, astratta e immobile, e un repertorio iconografico di straordinaria ricchezza. Innanzitutto sono inconsuete sia le dimensioni sia l'assenza di scomparti laterali, come nei tradizionali polittici, risultando la prima Sacra Conversazione sviluppata prevalentemente in verticale: numerose tavole da altare, in tutta l'Italia centrosettentrionale, vi si ispirano.

L'opera presenta al centro la Madonna in trono in posizione di adorazione, con le mani giunte verso Gesù Bambino addormentato sul suo grembo. La particolare disposizione del gruppo sacro centrale è rara ma documentata già nella bottega muranese dei Vivarini o in un polittico di Antonio da Ferrara presente nella chiesa urbinate di San Donato dal 1439. Probabilmente la posizione venne scelta dal committente per il collegamento con un sentimento a lui caro, la pietà filiale.

Attorno vi è una schiera di angeli e santi. In basso a destra si trova, appunto, inginocchiato e in armi, il duca Federico. Fa da sfondo alla composizione l'abside di una chiesa dalla struttura architettonica classicheggiante.

La Madonna è la figura che domina la rappresentazione e il suo volto è il punto di fuga dell'intera composizione. Il trono si trova poggiato su un prezioso tappeto anatolico, un oggetto raro e prezioso ispirato a dipinti analoghi dell'arte fiamminga.

Il Bambino ha appeso al collo un ciondolo di corallo che cela rimandi al rosso del sangue, simbolo di vita e di morte, ma anche della funzione salvifica legata alla resurrezione di Cristo. La stessa posizione addormentata era una prefigurazione della futura morte sulla croce.

Federico è esposto più all'esterno, fuori dall'insieme degli angeli e dei santi, come prescriveva il canone gerarchico dell'iconografia cristiana rinascimentale.

I santi ai lati sono (da sinistra):

* San Giovanni Battista, barbuto, con la pelle e il bastone, la cui presenza è giustificata dal fatto che egli era patrono di Gubbio, di Urbino e della moglie del Duca
* San Bernardino da Siena, in secondo piano, la cui presenza è giustificata dal fatto che Bernardino conobbe Federico, ne divenne amico e forse confessore; inoltre spiega la collocazione nel convento che porta il suo nome;
* San Girolamo, a sinistra della Madonna, con la veste lacera dell'eremita e il sasso per percuotersi il petto; egli, in quanto studioso e traduttore della Bibbia, era considerato il protettore degli umanisti;
* San Francesco d'Assisi, che mostra le stimmate la cui presenza viene messa in relazione con una possibile destinazione originaria per la chiesa francescana di San Donato degli Osservanti, che peraltro ospitò per un periodo la stessa tomba del Duca Federico;
* San Pietro martire, con il taglio sulla testa;
* San Giovanni Evangelista, con il libro e il mantello tipicamente rosato.
Gli abiti, molto ricercati, le pietre degli angeli e l'armatura sono dipinti con minuziosi particolari, secondo un gusto tipicamente fiammingo.

Federico da Montefeltro è vestito dell'armatura, con la spada e un ricco mantello a pieghe, mentre in terra si trovano l'elmo, descritto fin nei più ricercati riflessi metallici della luce e dell'elsa della spada, il bastone del comando e le parti dell'armatura che coprono mani e polsi, per permettergli di giungere le mani in preghiera. Le sue mani hanno trattamento minuzioso e tondeggiante che è estraneo alla pittura "di luce" di Piero: vengono attribuite allo spagnolo di formazione fiamminga Pedro Berruguete, artista di corte di Federico dal 1474 al 1482. Il profilo mostrato è, come di consueto quello sinistro, poiché quello destro era mutilato dalla perdita di un occhio durante un torneo.

La sua figura inoltre non solo è di proporzioni uguali alle divinità, come aveva già rivoluzionato Masaccio, ma è anche coinvolta inequivocabilmente nello spazio della sacra conversazione, suscitando anche nell'osservatore, per emulazione, la sensazione di trovarsi nello spazio della chiesa. Molti dei santi mostrano le ferite del loro martirio, e anche il duca, nell'elmo ammaccato, ricorda la sofferenza terrena.

Nei gioielli indossati dagli angeli o nella croce tenuta da san Francesco nella mano destra il pittore poté dare un saggio di virtuosismo nel rendere i riflessi luminosi sulle diverse superfici, anche quelle più preziose e ricercate, come facevano i fiamminghi.


Lo sfondo
La scena è ambientata davanti a un'abside monumentale che, contrariamente alla prima impressione, si trova molto indietro rispetto alle figure, come dimostrano lo studio delle proporzioni architettoniche. Secondo il critico Clark le strutture dipinte sarebbero ispirate dalla chiesa di Sant'Andrea a Mantova di Leon Battista Alberti. L'opera venne iniziata nel 1471, ma è probabile che tra i due artisti ci sia stato uno scambio di pareri e magari di disegni progettuali durante un loro probabile incontro a Rimini e forse nella stessa Urbino. La struttura riecheggia anche lo schema dell'architettura reale della chiesa di San Bernardino, di Francesco di Giorgio Martini, anche se la chiesa è un'opera ritenuta successiva, edificata dal 1482.

Entro un monumentale arco di trionfo, retto da paraste al di sopra di un'elaborata trabeazione con una fascia continua di marmo rosso, si sviluppa una volta a botte con cassettoni scolpiti con rosette. Il numero dei cassettoni su ciascuna fila è dispari, come nell'architettura classica, ma diversamente dalle opere dell'Alberto o dalla stessa Trinità di Masaccio, di brunelleschiana ispirazione. Archi analoghi sono impostati sui, come in un ipotetico transetto. Nella parte inferiore si trovano specchiature marmoree policrome, accordate su toni delicati che fanno risaltare le figure, amplificando la sacralità e la monumentalità. L'impianto prospettico è esaltato dai contrasti fra luce e ombra che si creano nei cassettoni della volta a botte.


La conchiglia e l'uovo 

In fondo alla nicchia si trova un'esedra semicircolare dove colpisce la geometrica purezza della calotta della semicupola dove è scolpita una conchiglia (esempi simili si trovano nell'arte fiorentina dell'epoca, a partire dalla donatelliana nicchia della Mercanzia in Orsanmichele, del 1425 circa), magnificamente evidenziata dalla luce, al culmine della quale è appeso un uovo di struzzo, che sembra fluttuare sulla testa di Maria. L'uovo è messo in risalto dalla luce su uno sfondo in ombra, proiettandosi otticamente in primo piano.

La conchiglia è simbolo della nuova Venere, Maria e della bellezza eterna. L'uovo è un complesso richiamo al dogma della verginità di Maria, che doveva essere noto agli umanisti del XV secolo. Si rifà alla storia di Leda, sposa del re di Sparta, dove si trovava appeso in un tempio un analogo uovo, che venne fecondata da Zeus sotto forma di cigno, precorrendo la fecondazione di Maria tramite i raggi divini emanati dalla colomba dello Spirito Santo.

L'uovo era anche inteso comunemente come simbolo di vita, della Creazione (vedi Uovo cosmico). In numerose chiese dell'Abissinia e dell'Oriente cristiano-ortodosso viene spesso appeso nel catino absidale un uovo proprio con quest'ultimo valore, come segno di vita, di nascita e rinascita. Proprio questa valenza rimanderebbe alla nascita del figlio del duca, tanto più che lo struzzo era uno dei simboli della casata del committente. Inoltre l'uovo, illuminato da una luce uniforme, esprime l'idea di uno spazio centralizzato, armonico e geometricamente equilibrato: "centro e fulcro dell'Universo".

Secondo altri la figura ovoidale sarebbe invece una perla, generata dalla conchiglia senza alcun intervento maschile.
La conchiglia e l'uovo

La questione dell'integrità dell'opera
Secondo il critico Ragghianti l'opera sarebbe mutilata su tutti i lati. Nella sua ricostruzione l'intera opera sarebbe apparsa “incorniciata in primo piano da pilastri laterali (di cui si scorgono ancora i cornicioni terminali) e da un arcone in controluce”. La sua ricostruzione è apparsa plausibile anche a molti altri studiosi e critici.

Ragghianti, che aveva già notato e provato una simile mutilazione anche in un'altra opera di Piero della Francesca, l'Annunciazione di Perugia, cercò di individuare l'estensione originale della tavole basandosi sulla concordanza armonica della composizione: egli vi ravvisava uno “stacco” fra la massa complessiva dei personaggi e il vuoto soprastante. L'equilibrio armonico tra le due parti sarebbe stato garantito dalla sezione aurea impostata sulla linea – parallela alla base – tangente l'apice della testa di Maria. Inoltre secondo questa estensione l'uovo verrebbe a trovarsi sul centro geometrico di tutta la composizione ribadendo l'equilibrio e la simmetria ricercata dai pittori umanisti.

Successivi studi compiuti sull'opera hanno dimostrato che effettivamente l'opera potrebbe aver subito una riduzione: difatti mancano lungo i bordi le consuete sbavature, solitamente presenti in un'opera pittorica indipendentemente dalla perizia dell'esecutore. L'opera potrebbe dunque essere stata ridotta sui quattro lati e poi accuratamente piallata ai bordi. Gli esami effettuati hanno infatti mostrato evidenti tracce di questa piallatura. Risulta difficile datare l'evento.

Tecnica

Gli angeli con i gioielli
La tavola è composta da ben nove assi lignee affiancate in orizzontale e tenute insieme da bacchette saldate negli scassi rinforzate da anelli metallici, secondo uno schema di carpenteria che era in uso a Urbino, utilizzato ad esempio anche nella Pala del Corpus Domini di Giusto di Gand o nel ciclo degli Uomini Illustri per lo Studiolo.

L'imprimitura chiara, stesa prima della disegno e del colore, appare, secondo una tecnica appresa dai fiamminghi, in sottili porzioni lungo i perimetri delle forme, lasciati liberi dalle velature pittoriche, con l'effetto di creare una luminosità vibrante che accentua la tridimensionalità.

Il colori usati non sono moltissimi, ma gli effetti cromatici sono moltiplicati dall'uso di diversi leganti, a seconda delle superfici. Se nello sfondo architettonica viene usata la tempera all'uovo, gli incarnati sono resi con un'emulsione di uovo e olio, mentre alcuni dettagli, come gli abiti, presentano una serie di velature a olio stese sopra una base a tempera, o viceversa. Il variare delle superfici e i diversi tipi di brillantezza vengono così resi in maniera eccellente.

Non è chiaro perché le mani del duca vennero ridipinte: forse il committente ne era insoddisfatto, desiderando un effetto più veristico, oppure si era reso necessario di aggiungere l'anello vedovile al dito, necessitando una nuova predisposizione dell'intero dettaglio. Durante tali interventi venne anche probabilmente soppresso il gioiello profano sul capo della Vergine, come hanno rivelato le radiografie, poiché giudicato sconveniente.


Retaggio
L'opera ebbe un ruolo nodale nello sviluppo della cultura figurativa italiana, a partire dall'influenza su artisti come Giovanni Bellini e Antonello da Messina. Il ricordo dello spazio profondo e definito prospetticamente, su cui indugia una luce immobile, fu senz'altro importante per un artista urbinate quale Bramante.

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