VON BALTHASAR/ La chiamata di Dio? Un meraviglioso “sequestro di persona”…
Più di venticinque anni fa moriva Hans Urs von Balthasar (1905-1988), tra i massimi teologi del XX secolo. Innovò la teologia nel rispetto della tradizione. Lo ricorda l’allievo MASSIMO SERRETTI
Tutta l’esistenza di un uomo che non fugge dalla chiamata di Dio e, ad un certo momento, nella sua libertà accompagnata e sostenuta dalla Grazia, acconsente e risponde ad essa, tutta quella esistenza è segnata, orientata e definita dalla vocazione e si precisa come risposta. Così, nell’estate del 1927, quando il promettente dottorando Hans Urs von Balthasar, partecipa ad un corso di esercizi spirituali, non lontano da Basilea (Whylen), nello Schwarzwald, avverte distintamente la chiamata che deciderà della sua persona, dei suoi talenti e della sua intera vita.
Così egli stesso la descrive: «Ancora oggi, dopo trent’anni, potrei ritrovare in uno sperduto sentiero della Foresta Nera, non lontano da Basilea, l’albero sotto il quale fui colpito come da un lampo improvviso … Ma non furono né la teologia né il sacerdozio quel che allora balenò davanti ai miei occhi. Era unicamente: “Tu sei chiamato, tu non servirai, c’è chi si servirà di te; tu non devi far progetti, non sei che una piccola tessera in un mosaico già da tempo preparato”. Io dovevo solo “abbandonare tutto e seguire”, senza fare piani, senza desideri né riflessioni; dovevo solo stare in attesa e osservare per che cosa sarei stato utilizzato» (testo originale integrale: Por qué me hice sacerdote, Salamanca 1959).
L’ingresso nella Compagnia di Gesù e quindi la formazione ignaziana determinarono il quadro della risposta a quel “sequestro di persona” che fu la sua chiamata. Quel che balza all’occhio di chi si appresta a conoscere la sua biografia (cfr. Elio Guerriero, Hans Urs von Balthasar, Milano 1991) e la sua bibliografia è la mole della sua produzione letteraria: più di cento sono i volumi e un migliaio i titoli delle sue pubblicazioni. Pochi autori nella storia dell’umanità vantano una fecondità letteraria così estesa. Ma a chi gli chiedeva delucidazioni riguardo alla sua produzione teologica e filosofica egli rispondeva che un sacerdote, quando scrive, è solo perché non ha niente di meglio da fare. E quando iniziarono a uscire i primi volumi (il primo è del 1961) della sua grande trilogia (Estetica, Drammatica e Logica, cui seguì Epilogo, 1987, un anno prima della sua dipartita) e qualcuno gli chiedeva se pensava di riuscire a condurre a termine un’opera così monumentale, egli rispondeva che la sua più grande preoccupazione non era quella di completare la sua opera, quanto quella di conchiudere l’edizione dell’opera di Adrienne von Speyr da lui curata. L’autoironia che traspare dalla prima risposta e il disinteresse, nel senso della gratuità che bada all’altro più che a sé, che si rivela nella seconda, manifestano lo spirito col quale il p. Balthasar svolgeva il suo lavoro come uno che è «preso a servizio».
Papa Benedetto, legato a lui da «sincera amicizia», come egli stesso ebbe a testimoniare, lo ricordava «come un uomo di fede, un sacerdote che nell’obbedienza e nel nascondimento non ha mai ricercato l’affermazione personale, ma in pieno spirito ignaziano ha sempre desiderato la maggior gloria di Dio» (Messaggio del 6 ottobre 2005). È in virtù di questo legame amicale operativo, nella collaborazione a imprese comuni come la rivista internazionale “Communio”, che il beato Giovanni Paolo II incaricò l’allora cardinal Ratzinger di presiedere alle esequie di von Balthasar il primo luglio del 1988 nella Cattedrale di Lucerna. Ed è sufficiente leggere il testo dell’omelia funebre, per intendere la qualità della conoscenza reciproca e del legame che li univa. Entrambi splendono nel firmamento del Novecento cattolico come due stelle di prima grandezza, nella diversità delle sensibilità intellettuali e delle vocazioni ecclesiali.
Nella conferenza pubblica tenuta dal p. Balthasar, poche settimane prima della sua morte, a Madrid (10 maggio 1988) egli riassume in cinque pagine (in a nutschell com’egli stesso afferma) la sua opera e presenta il mistero dell’Incarnazione e quello della SS. Trinità come i due contenuti della Rivelazione irriducibili ad una ragione che intenda rimanere nei limiti di se stessa. In questa stessa occasione egli preconizza una specie di fine del pensiero filosofico, in quanto naturalmente aperto al Mistero, proprio a partire dal rifiuto previo del Mistero stesso. Dall’altra sponda già Friedrich Nietzsche aveva messo in guardia dal fatto che la conoscenza e la verità erano le ultime trappole tese dal cristianesimo ed aveva conseguentemente richiamato alla necessità di sorpassarle qualora si fosse voluto sorpassare, cioè far fuori il cristianesimo stesso.
Se, a venticinque anni dalla morte di Hans Urs von Balthasar, ci interroghiamo oggi sulla vitalità e sul futuro della sua opera, non possiamo non tornare a riprendere l’interrogativo che egli stesso si pose nella premessa del suo ultimo libro (Epilogo, Milano 1994). In ordine compositivo si tratta dell’ultima pagina del libro. L’introduzione infatti si scrive sempre per ultima. «Se da queste ultime mie parole scritte si possa trarre qualcosa di utile alla moderna didattica e catechetica per l’umanità che oggi incontriamo, ho molti dubbi. Bisogna prendere l’uomo là dove sta, si va dicendo. “In America un ragazzo di sedici anni ha passato in media quindicimila ore, dunque quasi due anni interi, davanti alla televisione». … Un missionario della giungla ha un compito relativamente facile: si trova davanti un’anima naturaliter christiana, per quanto primitiva. (…) Ma qual è l’aggancio con un’anima technica vacua? Io non lo so. … Questo volumetto [epilogo dell’intera opera] non intende essere di più che una bottiglia gettata nell’acqua del mare, sarebbe un miracolo se toccasse terra da qualche parte e trovasse qualcuno. Ma queste cose a volte succedono» (96).
AMDG et DVM
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