lunedì 19 marzo 2018

NON UCCIDERE - Sì sì, No no! IL RESTO VIENE DAL MALIGNO -

La civiltà della vita e le leggi che la minacciano.

Lunedì 19 febbraio l’arcivescovo Giampaolo  Crepaldi,vescovo di Trieste e presidente dell’Osservatorio cardinale Van Thuân, ha tenuto a Milano una conferenza su invito del Centro Studi Livatino sul tema “Civiltà della vita e legislazioni che la minacciano”. Di seguito il testo del suo intervento


Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thân sulla dottrina sociale della Chiesa
21 febbraio 2018
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La “svolta” nell’attuale legislazione contro la vita
L’Osservatorio Cardinale Van Thuân ha dedicato molta attenzione all’evoluzione negativa del quadro legislativo, nazionale e internazionale, riguardante il tema della vita. Lo ha fatto in particolare dedicando a questo argomento uno dei suoi Rapporti annuali sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo, precisamente quello dell’anno 2013 dal titolo “La crisi giuridica ovvero l’ingiustizia legale. [1].
Ha poi continuato con la pubblicazione di un fascicolo del “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa” incentrato sulla lotta contro le leggi ingiuste riguardanti appunto la vita e la famiglia [2]. Molti altri interventi sono stati fatti, ma ho voluto qui ricordare questi due in quanto noto una omogeneità di prospettiva con la ricerca del Centro Studi Livatino.
Questa analisi dell’evoluzione (negativa) della recente legislazione sulla vita ci ha condotto ad alcune conclusioni che vorrei qui richiamare sinteticamente, per poi procedere ad un loro approfondimento.
La prima e fondamentale conclusione è che nelle leggi sul diritto alla vita c’è stata una svolta molto significativa quando è stato proclamato il “diritto” a questi nuovi diritti. Per una lunga fase la legislazione in materia aveva tollerato alcuni comportamenti contrari al rispetto della vita nascente con leggi che prevedevano l’aborto solo in casi particolari ed eccezionali. Nei fatti, l’applicazione delle leggi sull’aborto fu fin da subito molto più ampia di quanto la lettera del testo legislativo permettesse.
Va comunque riconosciuto che fino ad un certo stadio della sua evoluzione, il diritto alla vita veniva addirittura proclamato nei primi articoli dei testi di legge sulla disciplina dell’aborto volontario per poi passare a prevedere la possibilità di alcune eccezioni. E’ rimasto famoso quanto dichiarato dal ministro francese Simone Veil all’indomani dell’approvazione della legge sull’aborto nel suo Paese avvenuta il 29 novembre 1974, e cioè che secondo la sua interpretazione la legge tollerava l’aborto solo in caso di pericolo di morte per la madre. Non fu così, ma la cosa conferma che ci fu una prima fase della legislazione che tollerava alcuni comportamenti contrari alla vita, ma non riconosceva il diritto all’aborto.
In seguito le leggi iniziarono invece a contemplare l’aborto come diritto. La legge francese è stata cambiata e l’espressione «a tutte le donne incinte che si trovano in una situazione di sofferenza a causa del loro stato», è stata sostituita con la seguente: «a tutte le donne incinte che non vogliono una gravidanza». Di conseguenza, da due anni una legge francese punisce chi nel web cercasse di dissuadere le donne ad abortire.
Il riconoscimento del diritto all’aborto cambia completamente il quadro. Se l’aborto è un diritto umano e lo Stato protegge e sviluppa i diritti umani, allora lo Stato deve promuovere l’aborto per dare realizzazione ad un diritto umano, deve favorirne l’accesso, deve perfino educare ad esso le nuove generazioni e l’obiezione di coscienza diventa inammissibile.
Questo passaggio strategico si è verificato recentemente in interventi legislativi altri rispetto all’aborto che direttamente o indirettamente riguardano la vita, il che conferma che si tratta di una tendenza generale e in via di consolidamento, anche se nuove esperienze negli Stati Uniti e nell’Europa orientale lasciano nutrire qualche speranza di inversione di tendenza.
Si pensi, per esempio, alla sentenza con cui la Corte suprema degli Stati Uniti ha abolito la legge federale secondo la quale il matrimonio era da intendersi tra uomo e donna, così obbligando gli Stati a riconoscere per legge il matrimonio omosessuale. Oppure spensi alla legge Taubira sul “matrimonio per tutti” [3] che non prevede il diritto all’obiezione di coscienza da parte dei sindaci. In Italia abbiamo avuto la sentenza della Corte costituzionale sulla fecondazione artificiale, con la proclamazione del diritto costituzionale di una coppia al figlio. Per venire, infine, a due recenti leggi del Parlamento italiano: la legge Cirinnà e la cosiddetta legge sulle DAT che pure non ammettono obiezione di coscienza.
In tutti questi casi si è superata una soglia: lo Stato non solo tollera comportamenti contro la vita, ma li fa propri e li impone. Se le relazioni omosessuali godono di riconoscimento pubblico e, quindi, contribuiscono al bene comune, lo Stato le deve insegnare nelle scuole, come insegna l’uguaglianza in dignità di tutte le persone contro il razzismo.
Da questa caratteristica derivano poi le altre che contribuiscono a definire la pericolosità della situazione. Mi riferisco al carattere sistemico e a quello istituzionale delle leggi contro la vita. Il primo è particolarmente preoccupante: se un cittadino fa ricorso alle Corti di giustizia internazionali contro il proprio ordinamento statale, in genere non trova soddisfazione, data la omogeneità dello spirito che informa le decisioni delle Corti internazionali e quello che informa gli ordinamenti nazionali.
Anzi, come è noto, sono spesso le Corti internazionali di giustizia a processare gli ordinamenti giuridici degli Stati membri quando questi non prevedano una legislazione contro la vita. Questo per quanto riguarda l’aspetto “sistemico”. Il secondo – ossia l’aspetto “istituzionale” – ci dice che tutto ciò è diventato “macchina” che, procedendo per inerzia in virtù di atti dovuti all’interno dell’apparato burocratico, permea univocamente la pubblica amministrazione.
I casi italiani dell’UNAR e dei progetti nazionali e regionali di educazione alla sessualità nella scuola pubblica hanno ampiamente dimostrato l’esistenza di una istituzionalizzazione della lotta contro la vita e la famiglia.
Il moderno Leviatano e la sua nascita dall’angoscia
Tenendo presente questo quadro piuttosto preoccupante, cerchiamo di proporre qualche analisi delle sue cause, dal punto di vista del pensiero giuridico e politico e nella visione della Dottrina sociale della Chiesa. La prima cosa da mettere a fuoco è il lungo percorso per cui il potere politico e quello giuridico si sono emancipati dai contenuti e si sono collocati su un piano di “neutralità” rispetto ad essi. Si tratta del lungo processo di secolarizzazione della nostra civiltà giuridica che insigni giuristi come Carl Schmitt o Wolfgang Bökenförde hanno, da punti vista differenti, ben descritto.
Carl Schmitt ha illustrato in modo forse insuperato la prospettiva giuridico-politica di Thomas Hobbes e come essa sia alla base di ogni forma di “positivismo giuridico”. Il Leviatano di Hobbes è nello stesso tempo Dio, uomo, animale e macchina. Il proton pseudos, l’’errore iniziale del pensiero politico moderno, come ricordava Marino Gentile [4], è stato di affidare al consenso pattizio gli stessi fondamenti della comunità politica.
Questo fece appunto Hobbes, secondo l’interpretazione datane da Schmitt: “questo patto non concerne una collettività già data, creata da Dio, e neppure un ordine naturale preesistente; piuttosto lo Stato – come ordine e come collettività – è il risultato dell’intelletto umano e dell’umana capacità creativa, e solo da patto trae la propria origine” [5].
Si noti che secondo Hobbes anche nello stato di natura si potevano fare patti, ma sarebbero stati anarchici patti sociali, mentre il Leviatano si origina oltre questi patti, non viene a costituirsi tramite l’accordo ma al di là di esso e quindi è qualcosa di incomparabilmente superiore. Per questa superiorità, il Leviatano è come un Dio in terra, data la sua artificialità funzionale esso è una macchina, e siccome Cartesio aveva detto che l’uomo è un “intelletto in una macchina”, il Leviatano di Hobbes è il grande uomo che coincide con la grande macchina [6].
In questo modo si giunge alla neutralità dello Stato rispetto ai contenuti. Se lo Stato è magnun artificium, allora esso è uno strumento tecnico-neutrale [7] il cui valore sta nell’essere una buona macchina “indipendente da ogni contenuto di fini o di convincimenti politici, e acquisisce la neutralità rispetto ai valori e alla verità propria di uno strumento tecnico” [8].
Schmitt giustamente distingue tra “tolleranza” e “neutralizzazione”: nella prima lo Stato tollera il male perché si sente investito dal bene, ma nella seconda lo Stato è neutro rispetto sia al bene che al male. Nella neutralità, auctoritas e potestas coincidono. Non è forse vero che le attuali leggi contro la vita presuppongono questa concezione del potere e della legge? Anche oggi ci si trova di fronte ad uno Stato “neutrale” e ad una macchina tanto efficace quanto formale e puramente procedurale.
Un aspetto non deve però sfuggire dell’analisi del Leviatano condotta da Schmitt. Gli uomini sono costretti ad inventare il Leviatano data la situazione di disperazione in cui si trovano nello stato di natura. Solo un uomo disperato può mettersi nella mani di un potere che è Dio, uomo, animale e macchina.
Il pensiero politico e giuridico moderno di Hobbes o di Bodin nasce non solo dalla disperazione dell’uomo del Seicento davanti alle guerre di religione, ma dalla disperazione dell’uomo solo e nudo nello stato di natura, l’uomo talmente disperato di poter godere la pace al punto da affidarne l’attuazione non ad un Defensor pacis, come suonava ancora nel XIV secolo l’opera di Marsilio che pure iniziava questo lungo processo di reductio ad unum da parte dello Stato, ma di un Creator pacis, quale appunto il Leviatano è.  Disperato quell’uomo dato che il Dio-Stato che gli garantisce la pace non può garantirgli la speranza.
Con lo Stato-macchina di Hobbes viene lucidamente e tragicamente fondata la “neutralità”, secondo cui lo “Stato ha il proprio ordine in se stesso e non fuori di sé”. Esso può pretendere obbedienza incondizionata e se oggi lo Stato non consente l’obiezione di coscienza – come ricordavo all’inizio – è perché il Leviatano non può ammettere un “diritto di resistenza”, di cui l’obiezione di coscienza è tuttavia espressione.
Il moderno “Stato di diritto”
La neutralità dello Stato rispetto a contenuti e verità stabilita in modo così determinato da Hobbes e così plasticamente espressa nella sintesi di Dio, uomo, animale e macchina, alimenta anche lo Stato liberale costituzionale e parlamentare del XIX secolo, quello che si è soliti chiamare “Stato di diritto”. E’ la situazione in cui, come disse Max Weber, la legalità coincide con la legittimità e lo Stato è un “sistema di legalità statale funzionante in modo calcolabile senza riguardo a contenuti di fini o di verità o di giustizia” [9].
Solitamente lo Stato borghese di diritto viene inteso come contrapposto al Leviatano di Hobbes. Proprio per questo è degna di attenzione la versione di Schmitt che, invece, lo vede come un suo prolungamento. Nello Stato di diritto “custode ultimo di ogni diritto, garante ultimo dell’ordine costituito, fonte ultima di ogni legalità, tutela e difesa ultima contro l’ingiustizia è il legislatore e la procedura legislativa da esso impiegata” [10].
Quando poi la volontà dello Stato fu identificata nella volontà del popolo, ogni legge che fosse frutto della volontà popolare espressa dal Parlamento ebbe l’autorità e la dignità che le derivava dal suo rapporto col diritto. Arriviamo così alla attuale nozione di legge: “La legge in una democrazia è la volontà contingente del popolo di volta in volta dato, cioè in pratica la volontà di quella che di volta in volta è la maggioranza dei cittadini elettori” [11].
Il principio della “neutralità” fondato da Hobbes continua e si specifica nello Stato costituzionale e democratico ove diritto, legge e legalità diventano forme procedurali, indifferenti e disponibili ad ogni contenuto. La neutralità tra diritto e ingiustizia rende possibile che la fattispecie del “tiranno” sia presente anche nello Stato borghese di diritto.
Tiranno è chi ha ottenuto il potere in modo illegale o che, ottenutolo in modo legale, lo esercita in modo illegale. Chi ha la maggioranza non rientra in nessuna di queste due tipologie e quindi non può essere tiranno. La maggioranza “non commetterà mai ingiustizia ma trasformerà ogni sua azione in diritto e legalità” [12]. Ma proprio questa è la peggiore tirannia.
Insufficienza della formula di Böckenförde
E’ agevole riscontrare nell’attuale legislazione contro la vita la perfetta applicazione di queste concezioni della legalità vista come coincidente con la legittimità. La hobbesiana e weberiana “neutralità” della macchina diventa la neutralità della macchina legislativa, parlamentare e democratica. Anche le moderne democrazie liberali rientrano nella fattispecie del Leviatano.
Qui nasce però un problema di interessante portata. All’inizio di questo mio intervento ho segnalato una soglia oltre la quale lo Stato da tollerante quel era ha assunto in proprio un impegno sistemico e istituzionale contro i principi non negoziabili, tra i quali il diritto alla vita si colloca al primo posto. Carl Schmitt spiega bene come si sia arrivati alla “neutralità” della politica e della legge rispetto a questioni di verità e di contenuto.
Ma questo stadio – così dicevo – oggi è superato perché la legge non si colloca più come neutrale rispetto alla natura, ma si pone a servizio della contro-natura. Oggi lo Stato pone come obbligatori i principi contrari a quelli naturali, ossia quelli innaturali. Ad essere non negoziabile oggi è il diritto all’aborto, o il diritto al matrimonio per tutti, o il diritto al figlio tramite la fecondazione artificiale. E’ evidente che non si tratta più di semplice neutralità.
Può essere utile riprendere a questo punto, la nota formula di Böckenförde secondo cui “lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non può garantire”. E’ una frase che potremmo estendere al capitalismo il quale, secondo Schumpeter, distrugge valori che non è in grado di ricostruire, e alla democrazia alla cui base stanno valori, come diceva Maritain in contrasto con Kelsen, che essa deve presupporre per funzionare.
La formula di Böckenförde pone il problema della secolarizzazione, in questo caso della secolarizzazione del diritto, e conclude con una posizione che potremmo chiamare provocatoriamente ratzingeriana: lo Stato secolarizzato dovrebbe vivere “come se Dio fosse”, etsi Deus daretur [13]. Ma tutti vedono che si tratta di una posizione insostenibile.
Organizzarsi come se Dio fosse vorrebbe dire organizzarsi in via ipotetica, basandosi su una ipotesi operativa, tale da assumersi non in sé quanto nelle conseguenze di funzionalità che permette. Significherebbe dare credito al carattere ipotetico-deduttivo del pensiero politico e giuridico moderno, che nella ipotesi dello stato di natura poneva l’inizio di un ragionamento deduttivo impeccabile quanto artificiale. Anzi, impeccabile proprio per la sua artificialità.
Böckenförde pone il problema della secolarizzazione del diritto, ma pensa che ad un certo punto – non si sa per quale motivo – lo Stato secolarizzato dovrebbe ravvedersi, e considerando gli effetti devastanti della secolarizzazione, darsi il compito di vivere come se Dio fosse, recuperando non il fondamento, ma l’ipotesi condivisa, e quindi convenzionale, del fondamento. E’ una proposta di origine kantiana.
Anche il filosofo di Königsberg diceva che Dio e l’anima non sono conoscibili, ma bisogna vivere come se (als ob) lo fossero. L’atteggiamento ricorda anche Jürgen Habermas, il quale sente la mancanza del concetto di “natura” per orientarsi in campo bioetico, ma nella impossibilità di conoscere veramente la natura umana chiede almeno che si proceda in via ipotetica come se essa esistesse.
Questa visione della secolarizzazione è insostenibile, dato che non spiega perché tale processo dovrebbe ad un certo punto fermarsi, cercando un ipotetico punto di equilibrio. D’altro canto, la soluzione di Böckenförde non spiega l’attraversamento della soglia da me segnalata all’inizio del mio intervento. Può forse spiegare la “neutralità” ma non la pretesa dello Stato di farsi Dio imponendo il male, oltre che tollerarlo, e vietando l’obiezione di coscienza come espressione del diritto di resistenza verso il tiranno.
Nei confronti del processo di secolarizzazione il pensiero cattolico ha nel tempo espresso una sudditanza poco giustificabile. Essa è vista come una corrosione dell’indisponibile, ma si pensa – come fa per esempio Böckenförde – che ad un certo punto lo Stato secolarizzato possa decidere di vivere come se tale corrosione dell’indisponibile non fosse avvenuta. Ciò, tra l’altro, comporta che la corrosione dell’indisponibile ad un certo punto, non si sa per quale motivo, si fermi e si crei un sistema di libertà favorevole anche al Cristianesimo.
Ma la scenografia che ho descritto in partenza smentisce tutto ciò: oggi la legislazione contro la vita vuole riplasmare la natura umana e annullare la presenza di Dio nel mondo. Nella secolarizzazione c’è quindi un’anima coerente e inarrestabile che, senza l’azione frenante di un Kathecon, tende alla soluzione finale [14].
Anche la disperazione ha una logica a cui non si sfugge. Bisogna comprendere che la fase della “neutralità” preludeva alla fase successiva della sistematicità e istituzionalizzazione del male. Dapprima il pensiero politico fa a meno di Dio, ma poi lo combatte per eliminarlo; dapprima fa a meno della natura, ma poi la combatte per eliminarla e riplasmarla. Normalmente si ritiene che il positivismo, compreso il positivismo giuridico alla Kelsen per esempio, sia un esempio di neutralità. Invece quando la ragione, in questo caso la ragione giuridica, si stacca dalla religione non può non diventare antireligiosa. Sia Augusto Del Noce sia Cornelio Fabro ci avevano messo in guardia da questo possibile equivoco, invitandoci a non cadere nel tranello [15].
Alcune considerazioni di prospettiva
Quando Joseph Ratzinger, nel suo non dimenticato discorso di Subiaco del 1 aprile 2005 [16], invitò i non credenti a vivere come se Dio fosse, tutti colsero il carattere provocatorio dell’affermazione. Con quella provocazione il Cardinale e futuro Pontefice voleva criticare la secolarizzazione della ragione che, una volta staccatasi dal fondamento religioso, non può che procedere in una continua corrosione del senso, portatrice di sventura. La critica di Ratzinger al processo di secolarizzazione è più profonda di quanto non si pensi solitamente. Egli ne diede molti esempi, dal Discorso all’Università di Regensburg del settembre 2006 fino al Discorso al Bundestag tedesco del 22 settembre 2011 che, dato il suo tema, ci riguarda da vicino in questa occasione.
Concentrandoci brevemente su questo ultimo testo, notiamo una condanna spietata nei confronti della democrazia della maggioranza, che riprende le affermazioni di Schmitt. Sentenza di condanna della equiparazione tra legalità e legittimità che non può fermarsi solo alla neutralità dello Stato ma che necessariamente si evolve nello Stato creatore di un nuovo diritto: l’ingiustizia legale.
La visione positivistica della natura, fa notare Ratzinger, non solo non riesce a cogliere nella natura un discorso sulla giustizia tale da dare legittimità alla legalità, ma addirittura pone le basi per la riplasmazione della natura, compresa la natura dell’uomo. La posizione positivista non è solo di neutralità, come abbiamo più volte detto, ma è una contro-natura, una violazione della natura che lo Stato fa propria e che promuove in prima persona.
L’invito, allora, è di ritornare pienamente alla natura come espressione di una legge morale naturale e di un diritto naturale. Nel Discorso al Bundestag, Benedetto XVI ha ben chiarito che “il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, mai un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto, ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio” [17].
Si faccia attenzione alle due parti di questo importante passo. Si dice che il terreno della giustizia è prima di tutto quello del diritto naturale, ma si aggiunge subito dopo che ciò non è in grado di stare in piedi da solo senza il fondamento trascendente in Dio creatore. E non può essere sufficiente fondare il diritto naturale sulla ipotesi del Dio creatore – etsi Deus daretur – mentre è possibile attraverso il riconoscimento dell’esistenza del diritto naturale recuperare il suo fondamento in Dio creatore, come garanzia della stessa laicità del diritto naturale. Con il che il processo di secolarizzazione viene combattuto fino infondo.
Ecco allora la sintetica conclusione di questo mio lungo intervento. La secolarizzazione ha dapprima prodotto la neutralità dello Stato, poi però ha fatto dello Stato il primo soggetto impegnato nell’imporre una contro-verità. La risposta deve essere quella di ribadire il valore universale e puramente razionale del diritto naturale [18] ma come via per un recupero anche del suo fondamento trascendente, senza del quale anche il diritto naturale viene concepito come neutrale e, quindi, incapace di reggere e sempre incline ad essere manipolato nella contro-natura.
S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi

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