mercoledì 27 settembre 2017

JOSEPH RATZINGER La mia vita

JOSEPH RATZINGER 

La mia vita 

Il cardinale si racconta in un'autobiografia: dalla giovinezza in Baviera al sacerdozio, al Concilio Vaticano II. E ai lettori di "Famiglia Cristiana" indica le sfide del Vangelo nel nuovo millennio.


A settant'anni, il cardinale Joseph Ratzinger esce dall'abituale riservatezza sulla sua persona. Lo fa con un libro autobiografico ( La mia vita ) scritto per le Edizioni San Paolo. Il volume intreccia racconto e riflessione teologica, e se questa può essere la parte più interessante (dato il ruolo di "guardiano" della fede cattolica che l'autore ricopre), le pagine narrative sono la novità e scoprono tratti di candore in una personalità molto determinata.


Il cardinale racconta, ad esempio, d'essere nato il Venerdì Santo (16 aprile) del 1927 e battezzato il giorno dopo con l'acqua benedetta nella notte pasquale. Quindi annota: «L'essere il primo battezzato della nuova acqua era un importante segno premonitore. Personalmente sono sempre stato grato per il fatto che, in questo modo, la mia vita sia stata fin dall'inizio immersa nel mistero pasquale, dal momento che non poteva che essere un segno di benedizione».

Ventiquattro anni dopo, nella festa dei santi Pietro e Paolo, il brillante studente di teologia Joseph Ratzinger è ordinato sacerdote nel duomo di Frisinga dal cardinale Faulhaber. «Era una splendida giornata d'estate, che resta indimenticabile, come il momento più importante della mia vita. Non si deve essere superstiziosi, ma nel momento in cui l'anziano arcivescovo impose le sue mani su di me, un uccellino - forse un'allodola - si levò dall'altare maggiore della cattedrale e intonò un piccolo canto gioioso; per me fu come se una voce dall'alto mi dicesse: va bene così, sei sulla strada giusta».

Tra questi due eventi, il giovane Ratzinger ebbe una formazione di prim'ordine, grazie a genitori esemplari e a studi molto seri. In diverse pagine del libro emerge il sentimento di unione che legava la famiglia Ratzinger (il futuro cardinale era il più giovane dei tre figli) e si coglie forte il senso della "casa". Per il lavoro del padre, che era un gendarme, la famiglia dovette trasferirsi in diversi paesi della Baviera. Grazie alla laboriosità della madre, ogni nuovo alloggio acquistava presto il sapore del focolare.

D ei vari cicli di studio l'autore conserva piacevoli ricordi (non però delle attività sportive: non aveva "il fisico", e poi era sempre il più piccolo della sua squadra e quindi più o meno "tollerato"). Fece ottimi studi umanistici, tanto che nel primo periodo di servizio militare (a sedici anni) passava talvolta il tempo libero componendo versi in greco. In seminario ebbe maestri importanti, alcuni dei quali erano figure di primo piano del rinnovamento in campo biblico e liturgico. A proposito di liturgia, le chiese dei vari paesi in cui trascorse l'infanzia e l'adolescenza sono un altro dei "luoghi" importanti della memoria di Ratzinger. Il cardinale ricorda con gratitudine la possibilità di seguire la celebrazione eucaristica con un messalino (lo Schott) che offriva la traduzione di gran parte dei testi liturgici, rievoca la suggestione dei riti della Settimana Santa e richiama tanti altri momenti legati al culto. «L'inesauribile realtà della liturgia cattolica», osserva, «mi ha accompagnato attraverso tutte le fasi della mia vita; per questo non posso non parlarne continuamente».

L a formazione del giovane Ratzinger avviene negli anni della devastante tragedia nazista. Egli ricorda la fermezza di giudizio del padre, fondata sulla fede cristiana. Richiamando l'ambiguità di sentimenti (preoccupazione mescolata ad orgoglio) che, all'inizio della seconda guerra mondiale, le vittorie delle armate del Terzo Reich provocavano nei tedeschi, l'autore sottolinea: «Mio padre vedeva con inalterabile chiarezza che la vittoria di Hitler non sarebbe stata una vittoria della Germania, ma dell'Anticristo, e sarebbe stata l'inizio dei tempi apocalittici per tutti i credenti, e non solo per loro». Ratzinger, che dovette prestare un sia pure blando servizio militare, si salvò dall'arruolamento "volontario" nelle SS dichiarando di voler diventare sacerdote cattolico. Alla fine della guerra fu internato per alcune settimane in un campo di prigionia degli Alleati. Poi tornò a casa, e poco dopo rientrò anche il fratello, che aveva combattuto sul fronte italiano. «I mesi successivi, in cui potemmo gustare la ritrovata libertà, che ora avevamo imparato a stimare nel suo giusto valore, sono tra i più bei ricordi della mia vita».

Finita la guerra, il futuro cardinale riprese gli studi di Teologia, fatti con grande fervore e con la fortuna di poter studiare sui testi dei principali teologi dell'epoca, parecchi dei quali precursori del Concilio Vaticano II. Annota Ratzinger: «Quando ripenso agli anni intensi in cui studiavo teologia, posso solo meravigliarmi di tutto quello che oggi si sostiene a proposito della cosiddetta Chiesa "preconciliare". Tutti noi vivevamo nella percezione della rinascita, avvertita già negli anni Venti, di una teologia capace di porre domande con rinnovato coraggio e di una spiritualità che si sbarazzava di ciò che era ormai invecchiato e superato, per farci rivivere in modo nuovo la gioia della redenzione». Dopo l'ordinazione sacerdotale e un breve periodo di attività pastorale, l'autore si dedicò all'insegnamento della Teologia, non senza aver prima sofferto per un contrasto con il grande teologo Michael Schmaus, che gli respinse la prima stesura della tesi per la libera docenza.

Seguirono anni di grande fervore intellettuale, a contatto con illustri colleghi come Karl Rahner, Hubert Jedin, Johann Auer, Hans Küng e altri. Quando cominciò il Vaticano II, Joseph Ratzinger era professore di Teologia a Bonn e l'arcivescovo di Colonia, cardinale Frings, lo volle con sé a Roma, dove lo fece nominare perito del Concilio. Pur avvertendo che «il dramma teologico-ecclesiale di quegli anni non rientra nell'intento di questi ricordi», Ratzinger accenna al "drammatico scontro" sulle "fonti della rivelazione". Il Concilio respinse le tesi che sembravano ancorare la rivelazione solo alla corretta e completa interpretazione delle Scritture (privilegiando così gli esegeti rispetto al magistero) ma, dice il cardinale, «il dramma dell'epoca postconciliare è stato ampiamente determinato da questa parola d'ordine e dalle sue conseguenze logiche». E chiarisce: «La rivelazione non è una meteora precipitata sulla terra, che giace da qualche parte come una massa rocciosa da cui si possono prelevare dei campioni di minerale, portarli in laboratorio e analizzarli. La rivelazione ha degli strumenti, ma non è separabile dal Dio vivo, e interpella sempre la persona viva a cui essa giunge. Il suo scopo è sempre quello di raccogliere gli uomini, unirli tra loro: per questo essa implica la Chiesa».

Del "clima" conciliare il cardinale ha questo ricordo: «Ogni volta che tornavo a Roma trovavo nella Chiesa e tra i teologi uno stato d'animo sempre più agitato. Sempre più cresceva l'impressione che nella Chiesa non ci fosse nulla di stabile, che tutto potesse essere oggetto di revisione. Sempre più il Concilio pareva assomigliare a un grosso parlamento ecclesiale, che poteva cambiare tutto e rivoluzionare ogni cosa a modo proprio. Evidentissima era la crescita del risentimento nei confronti di Roma e della Curia, che apparivano come il vero nemico di ogni novità e progresso». Secondo il cardinale, in quel clima si percepiva anche «l'idea di una sovranità ecclesiale popolare, in cui il popolo stesso stabilisce quel che vuole intendere col termine Chiesa, che anzi appariva ormai chiaramente definita come Popolo di Dio. Si annunciava così l'idea di "Chiesa dal basso", di "Chiesa del popolo", che poi, soprattutto nel contesto della teologia della liberazione, divenne il fine stesso della riforma».

Il dopo-Concilio fu assai amaro per Ratzinger anche come docente. Chiamato ad insegnare Teologia dogmatica a Tubinga, per insistenza di Hans Küng, vi trovò un cambiamento culturale sorprendente: «Quasi nello spazio di una notte, lo schema esistenzialistico crollò e fu sostituito da quello marxista». In quegli anni a Tubinga insegnavano anche il filosofo marxista Ernst Bloch (che «denigrava Heidegger come piccolo borghese») e il teologo evangelico Jürgen Moltmann, che «ripensava completamente la teologia a partire da Bloch». Stanco di polemiche, Ratzinger accettò la cattedra di Teologia a Ratisbona, e per reagire contro «la distruzione della teologia, che avveniva attraverso la sua politicizzazione in direzione del messianismo marxista», cercò il collegamento con teologi come Hans Urs von Balthasar e Henri de Lubac, con i quali collaborò alla rivista Communio .

Prima di parlare della sua esperienza di vescovo, Ratzinger espone alcune drastiche critiche sul rinnovamento liturgico avvenuto dopo il Concilio. Scrive di essere rimasto sbigottito dal «divieto del messale antico» e dalla sbrigativa «creatività» in campo liturgico. E afferma: «Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipenda in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita etsi Deus non daretur : come se in essa non importasse più se Dio c'è e se ci parla e ci ascolta».


«Il nunzio portò una lettera... 
essa conteneva la mia nomina ad arcivescovo di Monaco». Pubblichiamo un capitolo delle memorie del cardinale Ratzinger 

Non pensai a niente di pericoloso quando il nunzio Del Mestri, con un pretesto, mi fece visita a Ratisbona, chiacchierò con me del più e del meno e, alla fine, mi mise tra le mani una lettera che dovevo leggere a casa, pensandoci sopra. Essa conteneva la mia nomina ad arcivescovo di Monaco e Frisinga. Fu per me una decisione immensamente difficile. Mi era concesso di consultare il mio confessore. Ne parlai con il professor Auer, che conosceva molto realisticamente i miei limiti, teologici e umani. Mi aspettavo che egli mi sconsigliasse. Ma... egli disse, senza pensarci su molto: "Devi accettare". Così, dopo aver ancora una volta esposto i miei dubbi al nunzio, sotto i suoi occhi, sulla carta da lettera dell'albergo dove era alloggiato, scrissi la dichiarazione con cui assentivo alla mia nomina...


...Quel giorno fu straordinariamente bello. Era una raggiante giornata d'inizio estate, alla vigilia di Pentecoste del 1977. La cattedrale di Monaco, che dopo la ricostruzione seguita alla seconda guerra mondiale dava un'impressione di sobrietà, era magnificamente adornata trasmettendo un'atmosfera di gioia, che coinvolgeva in maniera irresistibile. Ho sperimentato la realtà del sacramento, che qui accade davvero qualcosa di reale. Poi, la preghiera davanti alla Colonna della Vergine Maria - la Mariensäule  - nel cuore della capitale bavarese, l'incontro con le molte persone che accoglievano il nuovo venuto, a loro sconosciuto, con una cordialità e una gioia, che non riguardavano tanto me, ma che mi mostravano ancora una volta che cosa è il sacramento. Essi salutavano il vescovo, colui che porta il mistero di Cristo, anche se forse la maggior parte dei presenti non ne era consapevole. Ma la gioia di quel giorno era appunto qualcosa di realmente diverso dal consenso a una determinata persona... Era la gioia di vedere nuovamente presente quel ministero, quel servizio, in una persona, che non agisce e vive per sé stessa, ma per Lui e, dunque, per tutti.

Con la consacrazione episcopale comincia nel cammino della mia vita il presente. Poiché il presente non è una determinata data, è l'Adesso di una vita. E questo Adesso può essere lungo o breve. Per me quello che è cominciato con l'imposizione delle mani durante la consacrazione episcopale nella cattedrale di Monaco è ancora l'Adesso della mia vita...

...Ma, allora, che cosa devo dire a conclusione di questi appunti? Come motto episcopale ho scelto due parole dalla terza lettera di Giovanni, Collaboratori della verità , anzitutto perché mi pareva che potessero bene rappresentare la continuità tra il mio compito precedente e il nuovo incarico: pur con tutte le differenze si trattava e si tratta sempre della stessa cosa, seguire la verità, porsi al suo servizio. E dal momento che nel mondo di oggi il tema "verità" è quasi scomparso, perché appare troppo grande per l'uomo, e tuttavia tutto crolla se non c'è una verità, proprio per questo il mio motto episcopale mi è sembrato il più in linea con il nostro tempo, il più moderno, nel senso buono del termine. Sullo stemma dei vescovi di Frisinga si trova da circa mille anni il moro incoronato: non si sa quale sia il suo significato. Per me è l'espressione dell'universalità della Chiesa, che non conosce nessuna distinzione di razza e di classe, poiché noi tutti "siamo uno" in Cristo (Gal 3,28).

I noltre, ho scelto per me altri due simboli. Il primo è la conchiglia, che è anzitutto il segno del nostro essere pellegrini, del nostro essere in cammino: "Non abbiamo qui una stabile dimora". Ma essa mi ricorda anche la leggenda secondo cui Agostino, che si lambiccava il cervello intorno al mistero della Trinità, avrebbe visto sulla spiaggia un bambino che giocava con una conchiglia, con cui attingeva l'acqua del mare e cercava di travasarla in una piccola buca. Gli sarebbe stato detto: tanto poco questa buca può contenere l'acqua del mare, quanto poco la tua ragione può afferrare il mistero di Dio. Per questo la conchiglia rappresenta per me un richiamo al mio grande maestro, Agostino, un richiamo al mio lavoro teologico e, insieme, alla grandezza del mistero, che è sempre molto più grande di tutta la nostra scienza. Infine, dalla leggenda di Corbiniano, fondatore della diocesi di Frisinga, ho preso l'immagine dell' orso .

 Un orso  così racconta questa storia  aveva sbranato il cavallo del santo, che stava recandosi a Roma. Corbiniano lo rimproverò aspramente... e, come punizione, gli caricò sulle spalle il fardello che fino a quel momento era stato portato dal cavallo. L' orso dovette trasportare il fardello fino a Roma e solo qui il santo lo lasciò libero di andarsene. L' orso che portava il carico del santo mi ricorda una delle meditazioni sui Salmi di sant'Agostino. Nei versetti 22 e 23 del salmo 72 (73) Agostino vedeva espressi il peso e la speranza della sua vita. Quel che egli trova espresso in questi versetti, e che presenta nel suo commento, è come un autoritratto, tracciato davanti a Dio e, dunque, non solo un pio pensiero, ma spiegazione della vita e luce nel cammino. Quel che Agostino scrive qui, mi è parso rappresentare il mio destino personale.

Il salmo, appartenente alla tradizione sapienziale, mostra la situazione di bisogno e di sofferenza che è propria della fede e che deriva dal suo insuccesso umano; chi sta dalla parte di Dio, non sta necessariamente dalla parte del successo: proprio i cinici sono spesso persone che la fortuna pare viziare. Come va inteso questo fatto? Il salmista trova la risposta nello stare davanti a Dio, che gli permette di capire che la ricchezza e il successo materiale sono ultimamente irrilevanti e di riconoscere che cosa è davvero necessario e apportatore di salvezza. Ut iumentum factus sum apud te et ego semper tecum . Le traduzioni moderne interpretano così: "Quando si agitava il mio cuore..., ero stolto e non capivo, davanti a te stavo come una bestia. Ma io sono con te sempre...".

Agostino ha interpretato un po' diversamente l'espressione riguardante la bestia. Il termine latino iumentum designava soprattutto gli animali da tiro, che vengono usati dai contadini per lavorare la terra; per questo egli vi riconosce un'immagine di sé stesso, sotto il carico del suo servizio episcopale: "Un animale da tiro sono davanti a te, per te, e proprio così io sono vicino a te". Aveva scelto la vita dell'uomo di studio e Dio lo aveva destinato a fare l'"animale da tiro", il bravo bue che tira il carro di Dio in questo mondo. Quante volte è insorto contro tutte le inezie che si trovava caricate addosso e che gli impedivano il grande lavoro che sentiva come la sua vocazione più profonda. Ma proprio qui il salmo lo aiuta a uscire da tutta l'amarezza: sì, è vero, son divenuto un animale da tiro, una bestia da soma, un bue, ma proprio in questo modo io ti sono vicino, ti servo, tu mi hai nella mano. Come l'animale da tiro è il più vicino al contadino e compie per lui il suo lavoro, così anch'egli, proprio in questo umile servizio, è vicinissimo a Dio, è tutto nella sua mano, è fino in fondo un suo strumento...

...L' orso con il carico, che sostituì il cavallo, o più probabilmente il mulo di san Corbiniano, divenendo  -contro la sua volontà-  il suo animale da soma, non era e non è un'immagine di quel che deve essere e di quel che sono? "Sono divenuto per te come una bestia da soma e proprio così io sono in tutto e per sempre vicino a te".

Che cosa potrei raccontare di più e di più preciso sui miei anni come vescovo? Di Corbiniano si racconta che a Roma restituì la libertà all' orso . Se questo se ne sia andato in Abruzzo o abbia fatto ritorno sulle Alpi, alla leggenda non interessa. Intanto io ho portato il mio bagaglio a Roma e ormai da diversi anni cammino con il mio carico per le strade della Città Eterna. Quando sarò lasciato libero, non lo so, ma so che anche per me vale: «Sono divenuto la tua bestia da soma, e proprio così io sono vicino a te».

AMDG et BVM

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