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Carissimo/a Amico/a
Nell’ultimo quarto del XV secolo, l’espansione conquistatrice dell’Impero ottomano rappresenta per la cristianità una minaccia temibile. Nell’XI secolo, i Turchi selgiuchidi provenienti dall’Asia centrale, che hanno aderito all’islam, hanno invaso l’Impero bizantino. A partire dal 1299, il principe Osman, da cui prenderà nome la dinastia ottomana, unisce i clan turchi sotto il suo dominio e minaccia l’Impero bizantino fin nel suo centro.
Nel 1453, i Turchi entrano vittoriosi in Costantinopoli, la “seconda Roma”. Il sultano ottomano Mehmet (Maometto) II, dopo aver profanato l’antica basilica di Santa Sofia, la trasforma in moschea. Tutto l’Oriente cristiano e già una parte dei Balcani sono ormai nelle mani dei musulmani. Ma il conquistatore non vuole fermarsi lì: il suo obiettivo è quello di sottomettere l’intera Europa per farne una terra dell’islam.
Infelice città!
Nel 1480, sembra a Maometto II il momento favorevole per invadere l’Italia, devastata da guerre intestine nelle quali è coinvolto il re di Napoli, Ferdinando d’Aragona. Il sultano prevede due offensive congiunte: una verso il Veneto, via terra attraverso i Balcani (questa offensiva verrà arrestata dalla resistenza ungherese); l’altra verso l’Apulia (oggi la Puglia, nel sud-est dell’Italia), via mare. Papa Sisto IV mette in guardia i suoi connazionali contro la minaccia turca con queste parole: «Italiani, se volete potervi dire ancora cristiani, difendetevi!» Il suo appello cade nel vuoto; Mehmet II dichiara al Papa con sarcasmo: «Farò mangiare l’avena ai miei cavalli sulla tomba di San Pietro.»
Dal canto suo, san Francesco da Paola (1415-1507), il famoso eremita della Calabria, ha più volte predetto l’imminente invasione del regno di Napoli da parte dei Turchi. All’inizio del 1480, alla presenza dei suoi confratelli dell’Ordine dei Minimi, il santo esclama, guardando in direzione di Otranto: «Ah, infelice città, di quanti cadaveri saranno cosparse le tue strade! Quanto sangue cristiano ti inonderà!» Francesco da Paola fa avvertire del pericolo il re di Napoli: lo scongiura di richiamare le sue truppe che conducono in Toscana una guerra fratricida e di difendere il suo regno. Ma Ferdinando accusa il santo di disfattismo e gli ordina di tacere.
Il capo di Otranto, o penisola salentina, il “tallone” e il punto più orientale dello stivale italiano, si protende come una sentinella verso l’uscita del mare Adriatico, a meno di 100 km dall’Albania, in potere dei Turchi dal 1478. Città greca nell’antichità, Otranto ha probabilmente visto sbarcare san Pietro, proveniente da Antiochia sulla strada per Roma. A lungo amministrata da Bisanzio, è stata nel 1095 il punto di imbarco dei dodicimila crociati normanni guidati da Boemondo di Taranto. Nel 1219, san Francesco d’Assisi, di ritorno dalla Terra Santa, vi è stato ricevuto con onore. Vicino a Otranto si trova il monastero basiliano di San Nicola, i cui monaci celebrano la liturgia in lingua greca.
Tenuta in scacco a Rodi dalla difesa dei Cavalieri di San Giovanni, la flotta ottomana – più di centocinquanta navi – abbandona l’assedio di questa isola e si dirige verso il capo di Otranto, con a bordo diciottomila soldati; arriva in vista delle coste il 29 luglio 1480. L’obiettivo iniziale era il porto di Brindisi, ma un vento contrario costringe le navi ad approdare 50 miglia più a sud – a Roca, luogo situato a qualche chilometro da Otranto. Al momento dello sbarco dei Turchi, la città può contare solo su una guarnigione di quattrocento uomini. La popolazione otrantina si affretta a chiamare in aiuto il re Ferdinando: «Se vostra Maestà non adotta immediatamente le misure necessarie, siamo in grande pericolo di essere presi; faremo il nostro dovere, ma la nostra morte non sarebbe la cosa peggiore: quello che è da temere è il danno inflitto al servizio di Dio e agli interessi di vostra Maestà.» Tuttavia, Ferdinando non ha truppe disponibili e non potrà intervenire a Otranto prima di diverse settimane.
Le chiavi gettate in mare
Il 1° agosto, i Turchi sbarcano senza aver incontrato resistenza. Gli abitanti si sono barricati all’interno delle fortificazioni. Il pascià Agometh, generale dell’esercito turco, invia un messaggero per proporre loro una resa a condizioni vantaggiose: se non opporranno resistenza, uomini e donne verranno lasciati liberi o di rimanere senza subire danni, o di andarsene. Dopo una discussione animata, i notabili della città decidono all’unanimità di resistere all’invasore e di combattere “per Dio e per la patria”. Essi non vogliono tradire il loro re né aprire agli infedeli un accesso all’Italia. Uno degli anziani della città, Ladislao De Marco, risponde all’interprete turco: “Se il pascià vuole Otranto, dovrà prenderla con la forza, perché dietro le mura ci sono i petti dei cittadini.» Per eliminare ogni equivoco, De Marco afferra le chiavi della città e, in modo ben visibile, le getta in mare dalla cima di una torre.
Le bombarde ottomane sparano allora su Otranto un uragano di palle di pietra. Durante la notte, una buona parte dei soldati della guarnigione napoletana scavalca le mura della città per mezzo di funi e fugge. A difendere la città rimangono solo i suoi abitanti; la battaglia è quindi impari. All’alba del secondo giorno, gli assalitori aprono una breccia nelle mura. Vi si precipitano, ma vengono respinti dai difensori. Un altro attacco non avrà maggiore successo: gli Otrantini gettano acqua bollente sui Turchi che tentano di scalare le fortificazioni. Tuttavia, il bombardamento incessante dell’artiglieria ottomana finisce con il provocare, l’11 agosto, il crollo della parte più debole delle mura; gli assedianti s’introducono attraverso questa larga breccia. I difensori della città, guidati da Zurlo e Falconi, che combattono con accanimento, soccombono sotto il numero degli assalitori. Le orde ottomane si precipitano urlando nelle strade, saccheggiando e poi bruciando le case una per una, e massacrando i loro abitanti. Molti Otrantini si sono rifugiati e barricati nella cattedrale difesa con l’energia della disperazione da alcuni uomini armati. L’anziano arcivescovo Stefano Pendinelli, vestito con i suoi abiti pontificali, distribuisce per l’ultima volta ai suoi fedeli il Pane di vita; poi un domenicano, fra Fruttuoso, li esorta a prepararsi cristianamente al martirio. Le sue parole vengono interrotte dal fracasso del portone, abbattuto dagli arieti degli aggressori. Questi mettono a tacere definitivamente il predicatore, poi si precipitano verso il vescovo, seduto sulla sua cattedra. Agometh gli chiede chi è: «Sono l’indegno pastore di questo gregge di Cristo.» Uno dei Turchi gli ordina di non pronunciare più il nome di Cristo, ma solo quello di Maometto. L’arcivescovo esorta il suo aggressore a convertirsi se non vuole subire la sorte di Maometto, che è stato giudicato nel tribunale di Dio per la sua empietà. Fuori di sé, il pascià ordina allora che il vescovo venga decapitato. Questa esecuzione è il segnale di un massacro generale. Il sangue dei cristiani scorre a fiotti nella cattedrale profanata.
Dopo tre giorni, il pascià Agometh sospende la strage e ordina ai soldati di raccogliere tutti gli uomini validi di età superiore ai quindici anni. Gli vengono condotti circa ottocento uomini (ottocentotredici secondo una tradizione). Un prete calabrese rinnegato sta accanto al capo ottomano; traducendo le sue parole, si sforza di convincere gli Otrantini a rinnegare Cristo. «La vittoria dei musulmani, dice loro, è una prova che Maometto è più potente di Cristo. Se vi convertirete all’islam, avrete salva la vita e conserverete i vostri beni; in caso contrario, verrete tutti massacrati.»
Un sarto valoroso
Allora, un sarto già avanti negli anni, Antonio Primaldo, si alza e rivolge ai suoi compagni il seguente discorso: «Fratelli miei, abbiamo sentito a che prezzo ci viene proposto di acquistare il diritto di prolungare questa miserevole vita. Abbiamo combattuto fino ad oggi per la nostra patria, la nostra vita e i nostri signori terreni. È giunto ormai il momento di combattere per salvare le nostre anime redente da Nostro Signore. Poiché Egli è morto sulla Croce per noi, è giusto che anche noi moriamo per Lui, saldi e costanti nella fede. Con questa morte temporale, avremo la gloria del martirio e la vita eterna.» A queste parole, tutti esclamano ad una sola voce e con fervore che preferiscono mille volte morire di qualsiasi morte piuttosto che rinnegare Cristo. Ognuno esorta i suoi compagni, chi suo figlio, chi suo padre, a dire “sì” a Cristo e “no a Maometto”, quali che ne siano le conseguenze.
Tuttavia, il capo dei Turchi promette ancora una volta ai prigionieri cristiani di restituire loro le mogli, i figli e tutti i loro beni, se pronunciano la “shahada”, formula rituale che farà di loro dei musulmani: “Non c’è altro Dio che Allah, e Maometto è il profeta di Dio”. In realtà, pronunciare questa frase equivale a un’apostasia. Primaldo vi si rifiuta e rinnova il suo giuramento di fedeltà a Cristo, che la folla ripete con fervore; essa sa, in effetti, che Gesù Cristo è Dio, e che non vi è, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini che quello di Gesù, nel quale è stabilito che noi siamo salvati (At 4,12).
Gesù Cristo è, infatti, l’unico Salvatore degli uomini, come lo ricordava la Congregazione per la Dottrina della Fede in un documento approvato di san Giovanni Paolo II: «Lui solo, quale Figlio di Dio fatto uomo, crocifisso e risorto, per missione ricevuta dal Padre e nella potenza dello Spirito Santo, ha lo scopo di donare la rivelazione e la vita divina all’umanità intera e a ciascun uomo. In questo senso si può e si deve dire che Gesù Cristo ha un significato e un valore per il genere umano e la sua storia, singolare e unico, a lui solo proprio, esclusivo, universale, assoluto. Gesù è, infatti, il Verbo di Dio fatto uomo per la salvezza di tutti. Raccogliendo questa coscienza di fede, il Concilio Vaticano II insegna: “Il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutto è stato creato, è diventato egli stesso carne, per operare, lui l’uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale. Il Signore è il fine della storia umana, il punto focale dei desideri della storia e della civiltà, il centro del genere umano, la gioia d’ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni. Egli è colui che il Padre ha risuscitato da morte, ha esaltato e collocato alla sua destra, costituendolo giudice dei vivi e dei morti” (Gaudium et spes, 45). È proprio questa singolarità unica di Cristo che a lui conferisce un significato assoluto e universale, per cui, mentre è nella storia, è il centro e il fine della stessa storia: Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine (Ap 22,13)» (Dichiarazione Dominus Jesus, 6 agosto 2000, n. 15).
Irritato dalla costanza degli ottocento prigionieri nella loro confessione della fede, Agometh decreta allora la loro condanna a morte. Il 14 agosto mattina, vengono condotti, con la corda intorno al collo e le mani legate dietro la schiena, al colle della Minerva, a poche centinaia di metri dalla città. Il prete apostata calabrese gira tra di loro mostrando una tavoletta sui cui è scritta in caratteri latini la “shahada”: «Pronunciate questa semplice frase, e avrete salva la vita.» Ma tutti i condannati, invocando Gesù e Maria, si dicono pronti a morire. Il pascià ordina che per primo venga giustiziato Antonio Primaldo. Prima di posare la testa sul ceppo, l’anziano esorta i suoi compagni a essere forti nella fede e a guardare il Cielo che li attende. La sua sicurezza viene dalla certezza della sua fede:
«La fede è certa, più certa di ogni conoscenza umana, perché si fonda sulla Parola stessa di Dio, il quale non può mentire. Indubbiamente, le verità rivelate possono sembrare oscure alla ragione e all’esperienza umane, ma la certezza data dalla luce divina è più grande di quella offerta dalla luce della ragione naturale». (Catechismo della Chiesa Cattolica, 157).
Segni certissimi
Riprendendo le parole di santo Stefano, Primaldo esclama che vede i cieli aperti e gli angeli consolatori. Viene decapitato con un colpo di scimitarra, ma, tra lo stupore generale, si rimette in posizione eretta; il suo corpo senza testa, nonostante gli sforzi furiosi dei carnefici che lo spingono e lo tirano con funi, rimarrà in piedi fino alla fine del supplizio di tutti. Di fronte a questo miracolo, uno dei carnefici, di nome Berlabei, si dichiara cristiano. Questa conversione illustra l’affermazione del Catechismo della Chiesa Cattolica: i miracoli di Cristo e dei santi, le profezie, la diffusione e la santità della Chiesa, la sua fecondità e la sua stabilità «sono segni certissimi della divina Rivelazione, adatti ad ogni intelligenza» (CCC, 156). Furioso, il pascià condanna il nuovo convertito al supplizio del palo, e Berlabei viene così battezzato nel suo sangue. Quattro testimoni oculari (ancora bambini o adolescenti nel 1480), hanno riferito nel 1539, durante il processo di beatificazione, il prodigio del corpo decapitato ma che rimase in piedi di Antonio Primaldo, e la conversione di Berlabei. Il colle della Minerva bagnato da tanto sangue verrà ormai chiamato la “Collina dei Martiri”, e i religiosi minimi vi fonderanno ben presto un monastero.
La caduta di Otranto e il massacro di gran parte della sua popolazione immergono l’Italia e anche tutto l’Occidente cristiano nello sgomento e nel terrore. Papa Sisto IV a un certo punto pensa di fuggire da Roma minacciata e lancia un appello alla crociata; spaventati, i potentati italiani e il re di Francia mettono a tacere i loro dissidi. Il re Ferdinando si affretta, in pochi giorni, a concludere la pace con Lorenzo de’ Medici; un esercito internazionale di crociati provenienti da diverse nazioni europee si mette immediatamente in viaggio verso il capo di Otranto, sotto il comando del Duca Alfonso di Calabria, figlio del re di Napoli. Nel frattempo, i Turchi hanno rapidamente ricostruito le fortificazioni della città. I crociati procedono a rilento per tutto l’inverno, mentre i musulmani ricevono via mare viveri e munizioni in vista di una grande offensiva di primavera nell’Apulia. Ma il 3 maggio 1481, il sultano Mehmet II muore improvvisamente, e la lotta per il potere tra i suoi figli Bayezid e Cem distoglie dall’Italia l’attenzione degli Ottomani. Questo evento provvidenziale permette ad Alfonso di Calabria, dopo un assedio di tre mesi, di entrare da liberatore nella città martire, il 10 settembre 1481. Il duca si è lasciato convincere a evitare un assalto che avrebbe provocato un grande spargimento di sangue. Gli occupanti turchi hanno capitolato, in cambio di aver salva la vita e avere il diritto di ritirarsi su quattro navi; Alfonso li costringe a liberare i loro prigionieri cristiani che erano in procinto di condurre via in schiavitù.
Resistenza salvatrice
Appena arrivati davanti a Otranto, i crociati hanno scoperto i corpi degli ottocento martiri, intatti pur essendo rimasti insepolti per un anno. Alfonso li fa seppellire provvisoriamente nelle vicinanze. Il 13 ottobre, una gran parte delle reliquie viene trasportata nella cattedrale di Otranto: si può vedere oggi attorno all’altare di Maria un ossario contenente le reliquie di cinquecentosessanta corpi; il resto delle reliquie è stato trasferito a Napoli. Il bilancio della tragedia è pesante: dei ventiduemila abitanti di Otranto, dodicimila sono morti durante e dopo l’assedio; ottocentotredici uomini sono stati decapitati (i martiri di recente canonizzati); la maggioranza degli altri abitanti, donne e bambini, sono stati presi in schiavitù. Solo un ridottissimo numero di Otrantini è riuscito a sfuggire al massacro o alla schiavitù. Ma le due settimane di resistenza degli abitanti assediati e il sacrificio dei loro martiri hanno salvato l’Italia permettendo ai principi cristiani di riprendersi e di organizzare la spedizione di salvataggio. I cronisti del tempo hanno potuto affermare a giusto titolo che la resistenza di Otranto ha permesso la salvezza dell’Italia del Sud e forse di Roma stessa.
I miracoli compiuti invocando i martiri di Otranto – i cui nomi rimangono sconosciuti, eccetto quello di Primaldo – o attraverso le loro sante reliquie sono stati innumerevoli fino ai nostri giorni: aura luminosa attorno alle ossa, guarigioni improvvise, protezione della città di Otranto contro nuovi assalti dell’islam o contro terremoti... Il 5 ottobre 1980, per il cinquecentesimo anniversario della strage, san Giovanni Paolo II si è recato a Otranto allo scopo di venerare i suoi martiri. Alla gioventù venuta ad incontrarlo, il Papa ha detto: «Voi... portate nel cuore, come una preziosissima eredità, il mirabile esempio di quegli Otrantini che, il 14 agosto del 1480, all’alba di quello che viene considerato storicamente l’evo moderno, preferirono sacrificare la vita stessa anziché rinunciare alla fede cristiana. È questa una pagina luminosa e gloriosa per la storia civile e religiosa dell’Italia, ma, specialmente, per la storia della Chiesa pellegrina in questo mondo, la quale deve pagare, attraverso i secoli, il suo tributo di sofferenza e di persecuzione per mantenere intatta ed immacolata la sua fedeltà allo Sposo, Cristo, uomo-Dio, Redentore e Liberatore dell’uomo... Voi... siete legittimamente fieri di appartenere ad una stirpe generosa, coraggiosa e forte, che..., dopo aver difeso con tutti i mezzi... la sua diletta città..., seppe anche difendere, in maniera sublime, il tesoro della fede, ad essa comunicato nel Battesimo... Erano forse degli illusi, degli uomini fuori del loro tempo? No, carissimi giovani! Quelli erano uomini, uomini autentici, forti, decisi, coerenti...; tra di loro c’erano dei giovani, come voi, e desideravano, come voi, la gioia, la felicità, l’amore... E fecero, con lucidità e con fermezza, la loro scelta per Cristo!... Di fronte alle suggestioni di certe ideologie contemporanee, che esaltano e proclamano l’ateismo teorico o pratico, io chiedo a voi...: siete disposti a ripetere... le parole dei beati martiri: “Scegliamo piuttosto di morire per Gesù Cristo con qualsiasi genere di morte, anziché rinnegarlo”? Essere disposti a morire per Cristo comporta l’impegno di accettare con generosità e coerenza le esigenze della vita cristiana, cioè significa vivere per Cristo.»
Il processo diocesano tenutosi a Otranto nel 1539 ha permesso l’audizione di dieci testimoni oculari del martirio. Essi hanno riferito i dettagli di cui disponiamo, in particolare per quanto riguarda il ruolo essenziale di Antonio Primaldo. Il culto reso agli ottocento martiri “da tempo immemorabile” è stato ufficialmente autenticato nel 1771 dalla Santa Sede, il che equivaleva a una beatificazione. Per la loro canonizzazione, è stata riconosciuta l’autenticità di un miracolo nel 2012 da papa Benedetto XVI: si tratta della guarigione improvvisa e inspiegabile dal punto di vista medico di una monaca italiana, suor Francesca Levote, affetta da un cancro avanzato e incurabile; questo miracolo è stato ottenuto dal Signore nel 1980 per la preghiera della malata, tramite l’intercessione dei martiri di Otranto.
Chiediamo a Dio, per intercessione dei martiri di Otranto, la grazia di essere fedeli a Gesù Cristo nel “martirio quotidiano” e, se necessario, fin nel martirio di sangue. Allora, vedremo un giorno i cieli aperti e il Cristo alla destra del Padre.
Dom Antoine Marie osb
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