sabato 28 luglio 2012

<< Un ricco mugik ... >>


Purtroppo ci sono tanti che, dimenticando il fine per cui Dio ci ha creati, vivono come se non dovessero morire mai. Dalla mattina alla sera (e ora nelle disco­teche anche la notte) si agitano, si affannano per accu­mulare denaro e beni terreni, per gustare i piaceri del­l'erotismo, per avere tutte le comodità della vita, ecc. Ma ecco che arriva la morte che in un istante strappe­rà via tutte queste cose, facendo sanguinare il loro cuo­re nella delusione e forse nella disperazione. 


Cosa ri­mane a costoro dei beni terreni? Quello che rimase al fattore del ricco mugik, narrato dallo scrittore russo, Dostoievski, in uno dei suoi romanzi.

« Un ricco mugik (contadino russo benestante), che possedeva grandissime estensioni di terre, chiamò un giorno il più povero dei suoi fattori e gli disse: "Voglio premiare la tua lunga fedeltà. Avrai terra per te, quan­to ti basta. Tutto il terreno che domani riuscirai ad at­traversare dall'alba al tramonto, sarà tuo! ».
Il povero uomo credette di sognare. Quella notte non dormì per l'ansia. Al primo chiarore dell'alba era già in cammino, per non perdere un solo minuto di un giorno così prezioso. Quante versete (misura russa uguale a m. 1066) avrebbe percorso prima del tramon­to? Correva, correva... Non aveva corso così neppure negli anni giovanili. La rugiada irrorava i suoi piedi e una brezza freschissima batteva la sua fronte ardente. A poco a poco il sole saliva. Anche egli ora saliva l'erta scoscesa, gettando avide occhiate su quella terra uber­tosa, che sarebbe stata sua e dei suoi figli.

A mezzogiorno, col fianto ansante, con gli occhi stravolti, non volle arrestare la corsa folle, neppure per mangiare un tozzo di pane, o per dissetarsi a una sor­gente. Avrebbe perduto mezza verseta di terreno; e si trattava dell'avvenire suo, della sua famiglia, e perfi­no dei lontani parenti, che avrebbeo avuto la loro par­te di tanta fortuna.

Trascorsero altre ore spossanti, finché il cielo im­brunì; l'ombra delle alte piante ormai si allungava. Avanti, avanti!... Ma ora non correva più, cammi­nava trascinando i piedi, premendo forte il cuore... Oh, tra poco, avrebbe dormito, e sulla terra di sua proprie­tà! 
Quando l'ultimo raggio del sole morente arrivò ai suoi occhi stravolti dall'immane fatica, egli disse: Ba­sta! Ma i piedi non lo sostennero più, gli occhi non vi­dero più... il cuore, scoppiatogli in petto, aveva cessa­to di battere. Il povero uomo non si rialzò per godere la terra sua. L'indomani fu scavata la fossa: lunga tre metri, larga uno, profonda due.
Ecco la terra che basta a un uomo!" ».

La morte dovrebbe servire a far riflettere tanta gente che vive e si comporta come se non dovesse mai morire, e che spesso si accapiglia per accumulare be­ni labilissimi, perché li considera qualche cosa di as­soluto, mentre il Signore ci dice (Mat. 8,36 e 16,26): «Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi per­de l'anima?». Con queste parole, che hanno suscitato tante conversioni, Gesù ci spinge a un orientamento corretto della vita terrena, per non correre il rischio di perdere la vita eternamente beata

Il vero cristiano deve considerare la morte come il momento che lo libera dai tanti guai di questa vita terrena; che lo libera da ogni dolore; che lo ricongiun­ge ai suoi cari che l'hanno preceduto alla Casa del Pa­dre; che l'introduce nel Paradiso: Regno di pace, di gioia, d'amore, di felicità eterna.

Il 3 giugno 1963 il Papa Giovanni XXIII, ora Beato, lasciava questa terra per sempre. Quando gli fu annunciato che il suo tumore era maligno e che ormai si avvicinava alla fine, egli disse: «Non vi preoccupate per me perché le valigie sono preparate. Io sono pronto, anzi prontissi­mo a partire». Ai suoi fratelli che piangevano disse: «Non piangete, perché io sto per incontrarmi con pa­pà, con mamma, coi fratelli e le sorelle che mi hanno preceduto nella patria beata». Le sue ultime parole pro­nunziate nell'agonia furono: «Soffro con dolore, ma con amore... con la morte incomincia una nuova vita, e chi muore vive eternamente».

San Carlo Borromeo, Arcivescovo di Milano, pas­sava spesso davanti a un quadro in cui la morte era raf­figurata con una mano armata di falce. Un giorno fece cancellare la falce e ordinò al pittore di mettere, al po­sto della falce, una chiave d'oro, perché la morte ci apre la porta della vita eterna, della beatitudine celeste.

"AVE MARIA PURISSIMA!"

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