LE ISTITUZIONI CENOBITICHE
di GIOVANNI CASSIANO
Libro IV
1. INDICAZIONI PER L’ACCETTAZIONE
DEGLI ASPIRANTI ALLA VITA MONASTICA NEI MONASTERI DELLA TEBAIDE
Dall’esposizione delle norme da
osservare per le preghiere e per la recita dei Salmi nelle riunioni di ogni
giorno e nei vari monasteri, noi passeremo ora a trattare, per esigenze di
ordine progressivo, della formazione di colui che intende rinunciare al mondo.
Noi cercheremo anzitutto di esporre brevemente le condizioni poste a coloro che
desiderano consacrarsi a Dio nei monasteri, associandovi insieme alcune regole
proprie degli egiziani e alcune proprie dei Tabennesiti, il cui monastero si
trova nella Tebaide (Nota: A Tabennesi, nell’Alto Egitto, Pacomio aveva fondato
nel 323 il suo primo monastero di vita cenobitica.). Questo centro, quanto, per
numero, supera tutti gli altri, altrettanto si distingue per il rigore di vita
che vi si conduce, poiché in esso più di cinquemila fratelli vivono sotto la
direzione di un solo abate, ed è tanta l’obbedienza con cui un numero così
straordinario di monaci vive sottomesso al proprio superiore, quanta uno solo
di noi potrebbe prestarne a un altro, oppure esigerne, fosse pure per breve
tempo.
2. LA
PERSEVERANZA DI QUEI MONACI DURA FINO AL TERMINE DELLA LORO VITA IN MODO
ESEMPLARE
Io ritengo di dover anzitutto
premettere in che modo questa loro ininterrotta perseveranza e questa umile
loro soggezione riesca a durare, e attraverso quali forme essa si maturi, visti
gli effetti, per i quali essi perseverano nel cenobio fino alla più tarda età.
Tale perseveranza è talmente avanzata che in nessuno, una volta entrato nei
nostri monasteri, per quanto mi riesce di ricordare, è riuscito a osservarla
anche solo per un anno intero. Così, dopo aver bene sottolineato quali sono gli
inizi della loro rinuncia, noi potremo facilmente comprendere come mai i princìpi
fondamentali di una vita iniziata così li aiutino a raggiungere le sommità di
una perfezione tanto sublime.
3. PROVE E
DIFFICOLTÀ IMPOSTE AI NUOVI POSTULANTI
1. Pertanto chiunque aspiri a
essere ammesso a sostenere la disciplina del monastero, non sarà accolto prima
d’aver trascorso dieci giorni e anche di più alle porte del convento, dando
così le prove della sua perseveranza e della sua aspirazione, come pure della
sua umiltà e della sua sapienza. Una volta postosi con le ginocchia a terra davanti
al passaggio dei fratelli, da tutti intenzionalmente respinto e disprezzato
quasi si trattasse di uno che chiede di essere ammesso al monastero non per
motivi religiosi, ma solo per necessità, divenuto pertanto bersaglio di
ingiurie e di biasimo, dovrà dare prove sicure della sua costanza e dimostrare
quale sarà il suo futuro comportamento nelle tentazioni e nel saper tollerare
le ingiurie a lui inflitte. Quando poi, dopo aver sofferto le prove del fervore
del suo spirito, egli sarà stato accolto, con somma cura si dovrà indagare se
in lui rimane alcun segno di attaccamento ai beni già posseduti, o anche al
possesso di un solo denaro.
2. È infatti fin troppo noto che
nessuno potrebbe durare a lungo sotto la disciplina di un monastero, e neppure
acquistare la virtù dell’umiltà e dell’obbedienza, come pure rassegnarsi alla
povertà e alle ristrettezze del convento, se egli fosse cosciente di poter
nascondere una somma di denaro per quanto ridotta: in tal caso, non appena
un’occasione qualunque provocherà in lui una reazione anche minima, egli,
confidando nell’uso di quella pur piccola somma, immediatamente fuggirà dal
monastero come il sasso lanciato dalla fionda rotante qua e là.
4. LE RICCHEZZE, RINUNCIATE DAI
NUOVI ENTRATI, NON VENGONO ACCETTATE IN POSSESSO DEL MONASTERO
E proprio per questo motivo essi
non accettano dai nuovi aspiranti denaro che potrebbe servire a beneficio del
monastero. Il motivo si spiega anzitutto col fatto che il donatore, insuperbito
per la confidenza di questa sua donazione, non si degni di mettersi a pari con
i fratelli più poveri. La seconda ragione occorre cercarla nel fatto che
l’interessato, proprio per quella sua elargizione, non riesca a discendere
all’umiltà voluta da Cristo e a perseverare sotto la disciplina del monastero.
Una volta che egli abbia deciso di uscirne, perché divenuto molto tiepido,
farebbe di tutto per riavere tutto quello che egli, nei primi giorni della sua
rinuncia, aveva offerto ancora pieno del suo fervore spirituale, pronto però
adesso ad esigerlo non senza danno del monastero e con spirito sacrilego.
Purtroppo, dopo molte esperienze del genere, essi sono stati indotti a tenere
tale condotta. In effetti, in altri monasteri, dove non si era messa in atto
questa cautela, alcuni, già accolti con certa fiducia, tentarono poi di riavere
quello che avevano apportato e che ormai era stato destinato ad opere di Dio, e
questo avvenne non senza grave scandalo.
5. LE NUOVE RECLUTE DEPONGONO IL
VECCHIO ABITO E NE RIVESTONO UNO NUOVO
Perciò, quando qualcuno è accolto,
viene privato di ogni suo bene posseduto in precedenza, al punto che non gli si
permette nemmeno di continuare a indossare gli indumenti di cui prima era
rivestito. Condotto in mezzo all’assemblea dei fratelli, egli viene spogliato
dei propri abiti e rivestito, per mano dell’abate, del vestito proprio del
monastero. In questo modo egli rimarrà persuaso non solo di essere stato
spogliato di tutti i beni in precedenza posseduti, ma anche di essere disceso
al livello della povertà e dell’indigenza di Cristo, una volta che egli abbia
deposto ogni lusso mondano. Così dovrà essere convinto di doversi sostentare
non con le ricchezze acquistate con le arti del mondo e messe in serbo con
discutibile fedeltà ormai passata; al contrario, dovrà ricevere il compenso del
suo servizio dalle pie e sante elargizioni del monastero, e solo con questi
mezzi egli dovrà in avvenire essere provvisto di vitto e di vestito, persuaso
di nulla possedere e di non dover essere preoccupato per il domani, secondo il
precetto del Vangelo (cf. Mt 6, 34); non dovrà arrossire di trovarsi nello
stesso stato dei poveri, ed è quanto dire, allo stesso grado del corpo di tutti
i fratelli, nel cui numero si è inscritto Cristo e per i quali Egli non è
arrossito di chiamarsi fratello; al contrario il monaco si glorierà di essere
stato fatto compartecipe della eredità di Cristo e di essere stato ammesso tra
i suoi familiari.
6. I VECCHI ABITI, GIÀ DEPOSTI,
VENGONO CONSERVATI PER UN CERTO TEMPO. IL CONGEDO DEGLI INDEGNI
Gli abiti deposti sono consegnati
all’economo del monastero, quindi vengono custoditi finché non si constati con
sicurezza il profitto del giovane monaco nella professione e nella capacità
della sua pazienza nell’affrontare le più diverse tentazioni e prove. In
seguito, quando sarà evidente che egli è in grado di poter durare in quella
vita nonostante il corso del tempo, e di perseverare con lo stesso fervore del
tempo iniziale, solo allora i suoi vestiti saranno dati in dono ai poveri. Se
invece i monaci sorprenderanno in lui qualche tendenza alla mormorazione oppure
la colpa della disobbedienza, anche se piccola, dopo averlo fatto spogliare
della veste del monastero, di cui era stato coperto, fattigli indossare i
vestiti già messi in disparte, lo obbligano ad allontanarsi. Di fatto non è permesso
ad alcuno di allontanarsi con quello che ha ricevuto, e neppure tollerano che
continui a indossare quegli stessi vestiti colui che essi hanno constatato
essere venuto meno alle regole della sua professione iniziale. Inoltre a
nessuno è concessa la facoltà di andarsene liberamente: in tale caso egli,
approfittando della notte più profonda, se ne andrà come un servo fuggitivo;
oppure, una volta giudicato sicuramente indegno della vita e della professione
monastica, verrà dimesso con note di confusione, dopo aver deposte le vesti del
monastero in presenza di tutti i fratelli.
7. UNA VOLTA ACCOLTI, GLI
ASPIRANTI NON VENGONO INSERITI SUBITO NELLA COMUNITÀ DEI PROFESSI, MA NEL
SERVIZIO DEGLI OSPITI DEL MONASTERO
Quando dunque qualcuno è stato
accolto e riconosciuto perseverante, come in precedenza abbiamo rilevato, una
volta che abbia deposto i propri abiti e abbia indossato la veste del
monastero, non gli si permette subito di essere aggregato alla comunità dei
fratelli, ma viene affidato alla guida di un anziano il quale tiene la sua
dimora in luogo appartato e non lontano, ha cura dei pellegrini e di quanti
sopravvengono e presta loro ogni servizio per un accoglimento premuroso e
umano. L’aspirante, trascorso un anno intero in quest’incarico, e dopo che egli
avrà prestato per i pellegrini il suo doveroso servizio senza provocare alcun
biasimo sul proprio conto, raggiunti ormai i primi gradi della pazienza e
dell’umiltà attraverso l’esercizio di quegli uffici, e fattosi ormai
riconoscere maturo in quella lunga operosità, da quel momento egli verrà
destinato, per essere aggregato nel numero dei fratelli, a un altro anziano, il
quale presiede a un gruppo di dieci giovani a lui affidati dall’abate perché li
educhi e li guidi secondo quanto si legge che venne praticato da Mosè
nell’Esodo (cf. Es 18,25).
8. I GIOVANI MONACI DOVRANNO
IMPARARE ANZITUTTO A RINUNCIARE ALLA PROPRIA VOLONTÀ
La preoccupazione maggiore
dell’istruzione e dell’educazione affidata al nuovo maestro sarà anzitutto
quella di insegnare al suo allievo a vincere la sua propria volontà: sarà
questa la strada, per la quale egli riuscirà a raggiungere in seguito i più
alti gradi della perfezione. Tenendolo esercitato in questo campo con diligente
attenzione, egli tenterà continuamente e intenzionalmente di fargli eseguire
tutto quello che egli s’accorgerà essere contrario al suo carattere. Per
esperienze ormai provate da tanti esempi è già una convinzione fondata che un
monaco, e specialmente i più giovani, non riusciranno nemmeno a frenare i più
elementari stimoli della concupiscenza, se prima non avranno imparato a
mortificare la propria volontà grazie all’obbedienza. Perciò essi dichiarano
che nessuno, se prima non avrà imparato a dominare la propria volontà, riuscirà
a mortificare la propria collera, la propria tristezza e lo spirito della
fornicazione, e neppure sarà in grado di raggiungere la vera umiltà del cuore
né una costante unità con i fratelli e neppure una ferma e continuata volontà
di concordia.
9. I GIOVANI
NON DEVONO NASCONDERE AL LORO SUPERIORE NEMMENO I PROPRI PENSIERI
Basandosi dunque su questi primi
criteri formativi essi s’adoperano, come ricorrendo ai primi elementi
dell’istruzione elementare, a istruire questi principianti e a condurli verso
il cammino della perfezione. È una vita molto adatta per arrivare a ben
distinguere se essi sono fondati sulle basi di una umiltà vera, oppure falsa e
immaginaria. Ora, per giungere facilmente a un tale risultato, vengono
naturalmente convinti a non tener nascosto in nessun modo, per falso pudore,
alcun pensiero che s’annidi con lusinga nel loro cuore, e sono indotti invece a
manifestarli immediatamente al loro superiore, non appena se li vedono sorgere.
Vengono invitati a diffidare del loro proprio giudizio intorno a quei pensieri;
e a ritenerli buoni o cattivi così come, dopo attento esame, li avrà ritenuti e
giudicati lo stesso padre anziano. Ne risulta che l’astuzia del demonio non
potrà in nessun modo assalire il giovane, approfittando della sua inesperienza
e della sua ignoranza, e tanto meno potrà circuirlo con le sue frodi, vedendolo
difeso dal discernimento del più anziano, e non chiuso nell’esperienza sua
propria. Così il nemico non riuscirà a indurre il giovane a nascondere al padre
anziano le sue suggestioni che, come frecce di fuoco, il demonio avrà cercato
di lanciare in direzione del suo cuore. Il nemico, nonostante tutta la sua
astuzia, non riuscirà a ingannare e far cadere il giovane in altro modo, se non
col convincerlo a nascondere al padre anziano i suoi pensieri per orgoglio o
per vergogna. I nostri padri indicano come un segno generale, evidente e
dimostrativo della condotta diabolica, quando noi ci asteniamo per vergogna di
manifestarla al padre anziano.
10. NECESSITÀ
DELL’OBBEDIENZA
Ciò premesso, la regola
dell’obbedienza è praticata con tale scrupolo che i giovani, senza che il
superiore ne sia informato e lo permetta, non solo non osano uscire dalle
loro celle, ma neppure presumono, senza esserne autorizzati, di provvedere alle
comuni necessità naturali. S’affrettano a eseguire tutto quello che da lui
viene comandato come se fosse ordinato da Dio e senza alcuna discussione.
Accade talvolta che essi accolgano ordini anche di cose impossibili, e lo fanno
con tale fede e con tale devozione da indursi a eseguirli fino in fondo con
tutto l’impegno e senza alcuna esitazione del cuore, e senza per questo
accentuarne l’impossibilità per il rispetto che essi nutrono nei confronti del
loro superiore. Io tralascio qui, per ora, di parlare con maggiori particolari
della loro obbedienza. Intendo di trattarne a suo luogo, tra breve, ricorrendo
anche agli esempi, se, per le vostre preghiere, il Signore me ne concederà la
possibilità. Per ora continueremo a parlare delle altre loro istituzioni,
tralasciando di richiamarci a quelle che in questa regione o non vengono
pretese nei monasteri o non possono esservi praticate, come abbiamo promesso di
fare nella nostra breve Prefazione; tale si può considerare
l’esclusione di indumenti di lana per attenersi unicamente a quelli di lino, e
questi mai raddoppiati; s’aggiunga che ogni superiore, per quanto riguarda il
suo gruppo di dieci soggetti, provvede al ricambio ogni qualvolta s’avvede che
i loro vestiti hanno bisogno di pulizia.
11. FRUGALITÀ DEI MONACI
Io lascerò pure di parlare, per
gli stessi motivi, di un genere arduo e sublime di continenza da essi
praticato: essi considerano un elemento di estrema delizia, qualora venga
presentato mentre i fratelli sono a mensa, certa erba condita con sale, da essi
chiamata labsanion, lavata prima con l’acqua, come pure altre cose
simili che in questa nostra regione non sono compatibili né per il clima né per
la nostra debolezza fisica. Io mi atterrò unicamente a quegli elementi permessi
dalla fragilità delle nostre persone e dalle condizioni di queste località, a
meno che non siano d’impedimento né la debolezza dello spirito né la tiepidezza
della mente.
12. AL MINIMO
SEGNALE DELL’OBBEDIENZA OCCORRE LASCIARE TUTTO
Pertanto, quando essi stanno
chiusi nello loro celle, interamente dediti al lavoro o alla meditazione, non
appena odono il battito alla loro porta da parte dell’incaricato che con quel
segnale, recato alle diverse celle, invita alla preghiera o all’esecuzione di
qualche lavoro, ognuno d’essi, a gara, lascia il proprio posto al punto che
uno, addetto all’esercizio di scrivano, non oserebbe condurre fino al termine
la lettera appena iniziata: allorché giunge al suo orecchio il segnale di chi
ha battuto alla porta, si alza con tutta rapidità senza interporre alcuna
dilazione, neppure per quanta ne occorrerebbe per completare la figura di
un’apice già cominciata; al contrario, lasciando incomplete le prime linee
della lettera già iniziata, egli non si preoccupa tanto del compenso lucrativo
del suo lavoro, quanto di eseguire a puntino gli ordini dell’obbedienza con
tutta la prontezza dell’animo e col pensiero del buon esempio. E tale
obbedienza essi l’apprezzano al di sopra del lavoro manuale, della lettura e dello
stesso silenzio e quiete della cella, come pure di tutte le altre virtù, al
punto di tutto posporre ad essa, contenti di tollerare qualunque danno pur di
non sembrare d’avere trascurato, anche in minima parte, questo vantaggio.
13. OGNI
POSSESSO PRIVATO È DA ESCLUDERE
Fra le altre loro istituzioni ve
n’è una che io credo quasi superfluo ricordare, ed è questa: a nessuno è
permesso di possedere un piccolo canestro o un piccolo paniere personale o
qualche altro oggetto contrassegnato con qualche indicazione come indice di
proprietà individuale. Abbiamo constatato in ogni parte che quei monaci vivono
talmente spogli di tutto che, se si eccettua il colobio, il maforte, i sandali,
la melote e lo psiathion, altro essi non hanno in proprio uso
(Nota: Il colobio corrispondeva a una tunica di lino; il maforte al
cappuccio: la melote al mantelletto, e ilpsiathion a
una stuoia per dormire). Ora, mentre in altri monasteri è pure
concessa qualche altra larghezza, tuttavia anche in quegli stessi vediamo
praticata fino ai nostri giorni, in forma molto rigida, questa regola della
povertà al punto che nessuno osa, neppure a parole, definire sua qualunque cosa
(cf. At 4, 32), ed è considerato grande colpa il fatto che dalla bocca di un
monaco escano espressioni come le seguenti, e si parli perciò del «mio calice»,
delle «mie tavolette», della «mia tunica», e dei «miei sandali». Per una colpa
di tal genere occorre dare soddisfazione con una degna penitenza, anche nel
caso che qualcuno, per inavvertenza o per ignoranza, si sia lasciata sfuggire
dalla bocca qualche simile espressione.
14. ANCHE IL PROFITTO PER UNA
MAGGIORE OPEROSITÀ NON COMPORTA MAGGIORI PRIVILEGI
E intanto, benché ognuno di essi
procuri al monastero col proprio lavoro e col proprio sudore ogni giorno tanti
guadagni da poter supplire con essi non soltanto alle sue poche esigenze
individuali, ma perfino alle necessità di molti altri, tuttavia egli non se ne
inorgoglisce, e tanto meno approfitta dei suoi guadagni così larghi, che pur
sono frutto dei suoi sudori. Se si fa eccezione di due piccoli pani, del
valore, sul luogo, di appena tre denari, nessuno pretende per sé più di quello.
Fra di loro - mi vergogno anche solo a dirlo, e volesse Dio che nei nostri
monasteri potessimo ignorarne la realtà -, nessuno aspira a un genere di lavoro
particolare e diverso da un altro, e non solo di fatto, ma nemmeno col
pensiero. E benché ognuno ritenga come sua proprietà tutte le riserve del
monastero e abbia cura e sollecitudine per tutti i beni del convento come ne
fosse il padrone assoluto, di fatto però, allo scopo di preservare intatta la
virtù della povertà da lui acquistata e che si sforza di conservare fino alla
fine perfettamente e integralmente, egli si mantiene al di fuori di tutto e
alieno da tutto, tanto da comportarsi come un pellegrino e uno straniero in
questo mondo (cf. 1 Pt 2, 11), e da ritenersi come un addetto e un servitore
del monastero, anziché un padrone di qualsiasi cosa.
15. ECCESSI E ABUSI IN OCCIDENTE
IN FATTO DI PROPRIETÀ
1. E allora che
cosa dire di noi, in fatto di abusi, dico di noi che, pur dimorando nei
monasteri sotto il governo premuroso e sollecito dell’abate, portiamo tuttavia
con noi chiavi destinate ad un uso personale e, senza sentirne vergogna, posta
sotto i piedi ogni considerazione e ogni rispetto della nostra professione,
portiamo sfacciatamente al dito degli anelli, con i quali facciamo mostra di
altre cose nascoste? Non ci bastano soltanto le cassette e le sporte, ma
neppure gli scrigni e gli armadi per accumularvi le cose da noi riposte, o
quelle da noi riservateci dopo l’abbandono del secolo. Talvolta può avvenire
perfino che oggetti di ben poco o nessun valore, noi li reclamiamo come nostra
esclusiva proprietà e ci eccitiamo a tal punto che, se qualcuno ha l’ardire di
toccarne uno anche solo con la punta di un dito, ci sentiamo presi da tale
reazione furiosa contro di lui da non saper trattenere, neppure a parole e
senza l’alterazione di tutta la nostra persona, l’agitazione del nostro animo.
2. Lasciando
perciò da parte la nostra debolezza e passando sotto silenzio quanto non
conviene rilevare, atteniamoci al precetto: «Non parli la mia bocca delle opere
degli uomini» (Sal 16 [17], 4). E allora riprendiamo il discorso sulle loro
virtù e su quello che noi, con ogni sforzo, dovremmo cercare di imitare secondo
il disegno che ci siamo proposto. Noi quindi intendiamo ora esporre rapidamente
e brevemente le loro regole e i loro modelli in modo da giungere, una volta
esaurito l’argomento, alla descrizione di certa operosa attività, tutta propria
degli anziani, e che ci premuriamo con ogni cura di affidare alla memoria. E
quanto ora ci disponiamo a descrivere, intendiamo confermarlo con testimonianze
validissime, e tutto quello che da noi verrà dichiarato, troverà rispondenza
nei loro esempi e nella validità autorevole della loro vita.
16. NORME E MISURE PER LA
CORREZIONE
1. Se ad alcuno
avverrà di rompere, in qualche caso, un vassoio di terracotta, quello che essi
chiamano baucalide, egli non compenserà quella sua negligenza
in altro modo, se non con una pubblica penitenza: allorché si saranno adunati
tutti i fratelli per la sinassi, egli implorerà il perdono
prostrato a terra per tutto il il tempo necessario per arrivare al termine
dell’orazione, e soltanto allora egli otterrà il perdono, quando, per ordine
dell’abate, gli sarà ordinato di rialzarsi in piedi. Nello stesso modo dovrà
dare soddisfazione chiunque, chiamato a compiere qualche lavoro o alla riunione
consueta, arriverà con ritardo oppure, nel cantare un Salmo, commetterà qualche
errore, fosse pur lieve.
2. Egualmente
sarà soggetto a simile penitenza, se avrà dato risposte inutili oppure con
durezza o anche con arroganza; se avrà compiuto con negligenza quanto gli era
stato ordinato; se avrà mormorato, anche per poco; se, preferendo la lettura al
lavoro e all’obbedienza, avrà compiuto gli uffici impostigli in modo
trasandato; se, al termine della sinassi, non si sarà raccolto
sollecitamente nella propria cella; se si sarà trattenuto, anche per poco, a
parlare con qualche altro o si sarà ritirato in disparte con lui per qualche
tempo; se avrà tenuto la sua mano in quelle dell’altro; se si sarà indugiato a
parlare per qualche tempo con uno che non è il suo compagno di cella; se si
sarà messo a pregare con chi è stato escluso dalla preghiera comunitaria; se
avrà veduto o avrà tenuto qualche conversazione, in assenza del superiore, con
qualche parente o con qualche amico secolare; se avrà tentato di ricevere una
lettera o avrà cercato di rispondervi, senza il permesso dell’abate.
Per queste inadempienze e altre
simili si procede a un’ammenda spirituale.
3. Vi sono poi altre mancanze
che, presso di noi, non sono ammesse con nessuna diversità e che, anche da noi,
sono considerate con maggiore riprensione. Si tratta delle colpe seguenti:
insulti aperti; disprezzi manifesti; reazioni impulsive; comportamento libero e
incontrollato; familiarità con donne; collera, risse, rivalità e litigi;
pretese di un lavoro particolare; segni d’avarizia; attaccamento e possesso di
cose superflue, non possedute da altri fratelli; nutrirsi fuori tempo e di
nascosto di qualche cibo; altre colpe simili.
Tali mancanze non sono punite con
un’ammenda di natura spirituale, come quelle accennate in precedenza, ma sono
sottoposte alla pena della battiture oppure alla decisione dell’espulsione dal
monastero.
17. COME VENNE INTRODOTTO L’USO
DELLA LETTURA DURANTE LA MENSA. IL SILENZIO DEGLI EGIZIANI
Noi sappiamo che l’uso invalso e
diffuso di tenere letture sacre durante la refezione dei fratelli non deriva da
una regola dei monaci egiziani, ma dai cappadoci. Non v’è dubbio che il motivo
di una tale decisione non può essere derivato dal proposito di introdurre un
esercizio utile allo spirito, quanto piuttosto con l’intenzione di frenare le
conversazioni inutili e oziose, ma, più ancora, per togliere in radice ogni
possibilità di contrasti, facili a nascere specialmente quando si è a mensa.
Essi non videro altro modo più adatto per impedire tali inconvenienti. In
realtà, presso gli egiziani, e soprattutto presso i monaci di Tabennesi, tutti
praticano un tale silenzio che, per quanto sia così grande il numero di coloro
che insieme si recano e si siedono a mensa, nessuno oserebbe mettersi a parlare
anche sottovoce, se si eccettua il capo d’ogni gruppo di dieci; se poi egli s’accorgerà
che sia necessario recare qualche cosa alla mensa oppure ritirarla, interverrà,
ricorrendo di preferenza a un segnale anziché alla voce. E mentre tutti
attendono a rifocillarsi, osservano il silenzio con tanta cura che, abbassati i
cappucci fin sopra le ciglia perché i loro occhi non estendano lo sguardo
troppo liberamente e curiosamente qua e là, nulla riescono a vedere se non la
mensa e le vivande che vi sono depositate e che essi intendono prendere, al
punto che nessuno può notare né il modo né quanto cibo intende prendere l’altro
che gli sta vicino.
18. DIVIETO DI PRENDERE CIBO
FUORI TEMPO
Prima e dopo la refezione
regolare e comune si osserva con cura straordinaria che nessuno, fuori della
mensa, osi concedere qualche cibo alle proprie labbra. Se essi camminano per i
giardini e per i frutteti, allorché i frutti pendono dolcemente dai rami degli
alberi qua e là, e non solo si offrono spontaneamente al desiderio di chi vi
passa vicino, ma talvolta, caduti per terra, restano come tra i piedi, pronti,
anche solo a vederli, per essere raccolti e così accontentare la voglia del
desiderio, ebbene, anche allora, quando l’opportunità e l’abbondanza
suggerirebbero di soddisfare la gola perfino ai più osservanti e ai più
astinenti, essi ritengono di commettere un sacrilegio, non soltanto
nell'assaggiare qualcuno di quei frutti, ma perfino nel toccarlo con la mano,
salvo il caso in cui lo si porti per la refezione comune e venga offerto
pubblicamente, con il permesso dell’economo, come un servizio reso ai fratelli.
19. I SERVIZI CHE VICENDEVOLMENTE
E A TURNO SONO RESI DAI FRATELLI NEI MONASTERI DELLA MESOPOTAMIA, DELLA
PALESTINA E DELLA CAPPADOCIA
1. E perché non
sembri che noi abbiamo trascurato qualche aspetto intorno alle istituzioni dei
monasteri, intendo ora parlare brevemente anche dei servizi d’ogni giorno
prestati ai fratelli in altre regioni. Per tutta la Mesopotamia, la Palestina,
la Cappadocia e per tutto l’Oriente, ogni settimana i fratelli si succedono a
turno per rendersi vicendevolmente questi servizi. Il numero degli inservienti
viene stabilito secondo il numero dei componenti la comunità. Essi d’adoperano
a compiere tali servizi con tanta dedizione e con tanta umiltà, quanta non ne
offrirebbe un servo al proprio padrone, per quanto duro e prepotente. Non si
accontentano dei soli uffici richiesti dalla regola, ma si alzano anche in
piena notte per sollevare con il loro intervento coloro, a cui spetterebbe
questa particolare incombenza. In questo modo essi cercano, prevenendoli, di
praticare di nascosto quei servizi che dovrebbero essere compiuti dagli
incaricati.
2. Ognuno di
essi compie i servizi della propria settimana fino alla cena della domenica; al
termine della cena si conclude il servizio reso durante tutta quella settimana.
Allora, quando i fratelli si radunano insieme per il canto dei Salmi che per
consuetudine vengono recitati prima del riposo della notte, coloro che hanno
cessato il loro compito, si dispongono per lavare i piedi a tutti, a turno, e
intanto, come compenso per la dedizione loro all’ufficio prestato per tutta la
settimana, implorano con tutta sincerità la benedizione, in modo che, dopo aver
obbedito al precetto di Cristo (cf. Gv 13, 14), la preghiera dei fratelli,
unitamente elevata, li accompagni: quella preghiera dovrebbe servire a
compensare le loro negligenze, a riparare i peccati commessi per umana
fragilità e ad affidare a Dio, come «un ricco sacrificio» (Sal 19 [20], 4), i
servizi dedicati ai fratelli in segno di devozione.
3. E così, al lunedì, dopo gli
inni del mattino, essi consegnano a quanti loro succedono gli utensili e i
vassoi adoperati durante il loro incarico. E quelli trattano gli oggetti
ricevuti in consegna con una sollecitudine così premurosa perché nessuno di
essi rimanga danneggiato o rovinato, da considerare perfino il più umile di
quegli oggetti come una cosa sacra, e da credere di dover rendere conto, non
solo all’amministratore in sua presenza, ma anche al Signore, se per caso, per
loro negligenza, anche uno di essi ne risultasse rovinato. E fino a qual punto
giunga questa loro sollecitudine, e con quale fedeltà e cautela essi la mettano
in pratica, voi potrete constatarlo anche da una sola testimonianza che io, a
modo di esempio, ora intendo addurre. Di fatto, come mi faccio un dovere di soddisfare
il vostro desiderio di aver un’esposizione completa su tutto anche a costo di
ripetere in questo mio libro informazioni già da voi assai ben possedute,
tuttavia non posso non temere di oltrepassare i limiti della brevità che ci
siamo imposta.
20. ESEMPI DI OSSERVANZA
ESTREMAMENTE RIGIDA
Durante la settimana, a cui uno
dei fratelli era addetto, l’economo della casa, passando, scorse tre granelli
di lenticchie sfuggiti dalla mano di quel fratello mentre si affrettava a
prepararli per farli cuocere: erano caduti in terra assieme a dell’acqua, con
cui venivano lavati. Immediatamente l’economo si recò dall’abate a riferirgli
la cosa, e così quel fratello, giudicato per cattiva amministrazione e
negligenza in fatto di proprietà sacre, venne escluso dalla preghiera
comunitaria. E quella sua colpa, dovuta a negligenza, non gli fu condonata, se
non dopo averla espiata con pubblica penitenza. E in realtà non solo essi sono
convinti di non appartenere più a se stessi, ma credono pure che tutto quello
che ad essi appartiene sia stato, di fatto, consacrato al Signore. Ne segue che
ogni oggetto, una volta entrato in monastero, deve essere adoperato con ogni
cura come un oggetto sacro. Hanno cura di tutto e trattano tutto con tanta
fedeltà da essere persuasi, con tutta fiducia, di ricevere dal Signore la
ricompensa per atti come questi: rimuovere dal suo posto un oggetto di poco
valore, anche se poco utile e trascurabile, e rimetterlo in luogo più adatto;
riempire d’acqua una brocca per poter offrire da bere a qualcuno, oppure
raccogliere un fuscello di paglia dal pavimento dell’oratorio o della cella.
21. UN ESEMPIO DI LAVORO
SPONTANEO
Siamo informati del fatto
seguente intorno ad alcuni fratelli, da noi ben conosciuti, che erano in
servizio nella settimana a loro destinata. Ebbene, proprio in quei giorni,
venne a mancare la legna con tale penuria da non sapersi come preparare le
solite vivande ai fratelli, e allora, prima che potesse giungere la legna
comperata, venne disposto, per ordine dell’abate, che i fratelli si accontentassero
di cibi disseccati. Quella disposizione fu bene accolta da tutti, e nessuno
poteva ormai ripromettersi l’arrivo di qualche alimento già cotto. Ma quei
fratelli, quasi si sentissero defraudati del frutto e della ricompensa dovuta
alle fatiche del loro ufficio, qualora nei giorni del loro servizio non
avessero procurato ai fratelli le vivande consuete, s’imposero questa serie di
fatiche spontanee e di stenti. In quei luoghi aridi e sterili non è possibile
trovare legna in nessun modo, se non viene tagliata direttamente dagli alberi
da frutto, poiché in quelle regioni non esistono boschi naturali, come da noi.
Essi, perciò, percorrendo grandi distese, in cui non c’erano strade, e
inoltrandosi fin nel deserto che porta al Mar Rosso, dopo aver raccolto in
grembo piccoli rami e legnetti spinosi, qua e là dispersi dal vento, riuscirono
a preparare, per effetto di questa loro spontanea dedizione, le vivande
conformemente alla consuetudine di ogni giorno. Essi non sopportarono che nulla
venisse meno del loro servizio con tanta generosità che, pur essendo del tutto
giustificati per la mancanza della legna e per la disposizione dell’abate,
tuttavia non vollero usufruire di questa licenza in vista del frutto e del
premio che ne avrebbero ricavato.
22. IN EGITTO GLI UFFICI
DESTINATI AL SERVIZIO DELLA COMUNITÀ SONO PERMANENTI, E NON DIVISI A SETTIMANE
ALTERNATE
Tutto questo va riferito, secondo
quanto abbiamo già premesso fin dall’inizio, alle consuetudini diffuse in tutto
l’Oriente, e tali norme noi dichiariamo che dovrebbero necessariamente essere
adottate anche nelle nostre parti. Tuttavia presso gli egiziani, per i quali la
massima delle funzioni è quella del lavoro, non è in uso il succedersi
vicendevole e distributivo delle settimane, affinché, sotto il pretesto di quel
servizio, non vengano tutti distolti dall’attendere alla loro abituale
operosità; invece quella funzione di dispensiere e di cuciniere viene affidata
ad uno solo dei fratelli, riconosciuto molto esperto, ed egli la esercita in
continuità, finché le forze e l’età glielo consentiranno. Di fatto però egli
non deve sostenere un grande peso fisico, perché presso gli egiziani non è
richiesta una grande cura allo scopo di preparare e cuocere le varie vivande:
essi si nutrono soprattutto di cibi secchi e crudi. Sono di loro gradimento le
foglie di porri, tagliate a turno ogni mese, come pure certe erbe, fritture,
salse, olive e piccoli pesci salati, da essi chiamati maenomenia.
23. L’OBBEDIENZA DEL MONACO
GIOVANNI
E poiché questo libro, scritto
intorno alle «Istituzioni cenobitiche», è diretto a chi intende rinunciare al
mondo, e proprio perché con questa guida, una volta introdotto alla vera umiltà
e all’obbedienza perfetta, egli possa aspirare alle vette delle altre virtù, io
ritengo necessario richiamare, a modo d’esempio, come abbiamo già promesso,
certi comportamenti degli anziani, ed è proprio per questa loro condotta che
essi si segnalarono particolarmente in questa virtù. Tra un numero di esempi
molto grande noi faremo una scelta ridotta perché, a quanti aspirano a mete più
alte, non solo derivi da essi un incitamento per una vita perfetta, ma sia reso
manifesto anche il modello, a cui tendere. Perciò, per non allungare troppo il
contenuto di questa nostra opera, di mezzo a un numero così grande di padri
anziani, noi non ne sceglieremo se non due o tre, e collocheremo in primo piano
l’abate Giovanni (Nota: Giovanni di Licopoli, grande asceta, passato alla
storia col nome di «veggente della Tebaide» (300 c. - 394)).Egli visse nei
pressi di Lieo, un sobborgo della Tebaide. Elevato per la virtù della sua
obbedienza fino a ricevere il dono della profezia, divenne così famoso davanti
a tutto il mondo da renderlo celebre, per questo suo merito, perfino agli occhi
dei re di questa terra. E infatti fu proprio allora che, pur essendo la sua
dimora, come già abbiamo detto, nelle estreme parti della Tebaide, l’imperatore
Teodosio non ardiva affrontare le guerre contro i suoi prepotenti usurpatori,
se prima non era animato dagli oracoli e dalle risposte di lui. E così,
confidando nelle sue parole come se gli fossero derivate dal cielo, egli
riportò le sue vittorie contro i nemici e in guerre pressoché disperate.
24. OBBEDIENZA UMILE
1. Questo beato
Giovanni, a cominciare dalla sua giovinezza fino agli anni dell’età avanzata,
rimase al servizio di un monaco anziano fino agli ultimi giorni, in cui quello
visse, e durò in quel servizio con tale perseverante umiltà che la sua
obbediente sottomissione destò perfino in quell’anziano uno straordinario
stupore. E fu proprio lui a voler andare a fondo per vedere se tutta quella
virtù proveniva da vera fede e da profonda semplicità di cuore, oppure se essa
era un risultato d’affettazione e praticata in qualche modo per accaparrarsi la
stima del suo superiore. E allora, volendo rendersene più sicuro, cominciò a
ordinargli con certa frequenza l’esecuzione di parecchie cose superflue o poco
necessarie, e perfino impossibili.
2. Per questo
io ora proporrò tre esempi, per i quali possa divenire manifesta a quanti
desiderano conoscere la sincerità assoluta del suo spirito e della sua
sottomissione. Egli dunque scelse dalla sua legnaia un bastone di legno secco,
tagliato da tempo e messo là per essere destinato al fuoco. E poiché era mancata
l’occasione di bruciarlo, non soltanto si era inaridito, ma, col passare del
tempo, si era ridotto in uno stato marcescente. Dopo averlo piantato in terra
davanti ai suoi occhi, gli ordinò di portare acqua e di annaffiarlo due volte
al giorno in modo che l’umidità, così giornalmente assicurata, facesse crescere
le radici ed esso ridivenisse una pianta viva. Una volta divenuto albero come
era la sua forma antica ed estesi i suoi rami, avrebbe offerto un grande
godimento agli occhi e molta ombra a quanti, nell’imperversare del caldo
estivo, avrebbero cercato riparo sotto di esso.
3. Il giovane
accolse quell’ordine con la sua abituale venerazione, senza minimamente far
conto dell’assurdità di quell’imposizione, e l’eseguì fedelmente ogni giorno:
vi portò l’acqua con continuità, pur dovendola attingere a due miglia di
distanza, e non lo distolsero dall’annaffiare quel pezzo di legno e
dall’eseguire quel comando per tutta la durata dell’anno né l’infermità del
corpo né la ricorrenza delle festività né l’urgenza di qualche occupazione che
lo scusasse legittimamente dall’eseguire quell’ordine, e, infine, neppure il
sopravvenire dell’asprezza dell’inverno.
4. Il monaco anziano, in silenzio
e segretamente, ebbe modo di osservare e di constatare ogni giorno la sua costante
fedeltà e come egli adempisse il suo comando con la semplice adesione del cuore
quasi fosse un ordine venutogli da Dio, senza mai mutare l’espressione del
volto o discutere le ragioni di quell’imposizione. E allora, pienamente
convinto della sincerità della sua umiltà e della sua obbedienza, e, nel tempo
stesso, mosso a pietà per quella sua fatica sostenuta nel corso di tutto un
anno con tanta devota sottomissione, avvicinatosi a quell’arido pezzo di legno,
esclamò: «Quest’albero ha messo o non ha messo le radici?». Avendo il giovane
risposto di non saperlo, il vecchio, quasi volesse rendersi conto della realtà
e così assicurarsi se già quel legno si sostenesse sulle sue proprie radici, lo
estrasse davanti ai suoi occhi con ben poco sforzo, e così, gettatolo via e
lontano, gli ordinò che da quel momento non pensasse più ad annaffiarlo.
25. OBBEDIENZA CIECA
Intanto il giovane, formatosi in
esercizi di questo genere, ogni giorno più cresceva in questa virtù della
soggezione, e risplendeva la grazia della sua umiltà e il soave profumo della
sua obbedienza per tutti i monasteri. Ora avvenne che alcuni dei fratelli,
avendo sentito parlare delle sue prove e della sua edificazione, vennero fino a
quell’anziano per ammirare quella sottomissione, di cui avevano udito
l’esaltazione. Egli allora lo chiamò all’improvviso e gli diede quest’ordine:
«Sali qui su, prendi il vaso dell’olio e gettalo fuori della finestra». Si
tenga presente che il vaso dell’olio nelle regioni del deserto rappresentava
l’unica e tenuissima fonte di vero nutrimento per i monaci e per gli ospiti.
Egli dunque, montato in alto, gettò dalla finestra il vaso che andò in pezzi,
cadendo a terra; il giovane però lo fece senza badare neppure per poco
all’assurdità di quel comando e senza esitare ad eseguirlo. Eppure c’erano dei
motivi in contrario: il bisogno dell’olio, presente ogni giorno; le malattie,
la mancanza del denaro occorrente per comprarlo, le estreme difficoltà di
quello squallido deserto, nel quale, anche quando c’era disponibilità di denaro,
non era possibile trovare e compensare la perdita di quel liquido così
prezioso.
26. OBBEDIENZA
FIDUCIOSA
Ma vi furono anche altri, tra i
fratelli, desiderosi di edificarsi sull’esempio della sua obbedienza. Il monaco
anziano lo fece venire e gli diede quest’ordine: «Corri, Giovanni, e fa
rotolare quel masso al più presto fino qui!». Si trattava di un macigno di
grande mole che neppure un gran numero di uomini avrebbe potuto smuovere. Egli
però, immediatamente, accostandovi ora il capo ora tutto il corpo, cercava di
farlo smuovere con tali e ripetuti sforzi che il sudore, già grondante da tutte
le sue membra, bagnava non solo il suo vestito, ma dal suo capo colava perfino
su quel masso. E anche in quella circostanza egli non misurò l’impossibilità
dell’imposizione e della sua esecuzione per la riverenza che egli nutriva per
il suo superiore e per la sincerità spontanea della sua obbedienza, grazie alla
quale egli era convinto, con estrema fiducia, che l’anziano monaco non poteva
ordinargli nulla che fosse invano e senza ragione.
27. UMILTÀ E
OBBEDIENZA DELL’ABATE MUZIO
1. Intorno all’abate Giovanni
bastino, per ora, fra le molte, le poche notizie ora riferite. Adesso narrerò
un fatto intorno all’abate Muzio, ben degno di essere ricordato. Egli dunque,
deciso a rinunciare al mondo, si pose davanti alla porta del monastero e vi
rimase con tanta irremovibile perseveranza, finché, contro ogni tradizione dei
monasteri, non vi fu accolto assieme al figlioletto di circa otto anni. Quando
finalmente furono ricevuti, vennero subito assegnati non solo a maestri
differenti, ma anche separati di cella, affinché il padre, alla vista continua
del figlioletto, non pensasse, dopo aver rinunciato a tutti i suoi beni e ad
ogni umano attaccamento, che gli restava almeno il figlio suo. Ne risultava
così che, siccome egli era persuaso di non essere più, in nessun modo, ancora
ricco, così pure avrebbe dovuto egualmente dimenticare di essere ancora padre.
2. E per
provare con più fondamento la sua perseveranza e constatare se egli tenesse in
maggior conto l’amore del sangue e del suo cuore oppure l’obbedienza e la
mortificazione di Cristo che ognuno, dopo aver rinunciato al mondo, deve
preferire a tutto per suo amore, intenzionalmente il bimbo veniva lasciato in
abbandono, rivestito di panni sdruciti e non di indumenti adatti, e così
trasandato e perfino maleodorante da destare quasi più disgusto che attrazione
agli occhi del padre ogni volta che il bimbo appariva al suo sguardo. In più
egli veniva esposto alle percosse e agli schiaffi di parecchi, e il padre, non
poche volte, vedeva infliggere quel trattamento al suo bambino innocente sotto
i propri occhi e senza alcun motivo, sicché non gli avvenne mai di vedere il
volto del bambino se non con le guance segnate dallo scorrere grigio delle
lacrime.
3. Per quanto
il bambino venisse tutti i giorni trattato in quel modo sotto gli occhi stessi
del padre, il suo cuore tuttavia, per amore di Cristo e per la virtù
dell’obbedienza, si mantenne sempre fermo e incrollabile. Non lo considerava
più figlio suo, poiché, assieme alla propria vita, egli l’aveva offerto a
Cristo, e neppure si preoccupava delle ingiurie da lui sofferte, ma piuttosto
ne godeva, persuaso che esse non sono mai tollerate inutilmente, poco curandosi
così delle lacrime di lui e avendo a cuore di preferenza la propria umiltà e la
propria perfezione. Il superiore del cenobio considerava la fermezza del suo
spirito e la sua rigida osservanza, e volle perciò far prova fino in fondo
della sua costanza. Così un giorno, vedendo il bambino in preda al pianto,
simulando un’improvvisa irritazione nei suoi confronti, comandò al padre di
prenderlo e di gettarlo nel fiume.
4. Quegli allora, come se quel
comando gli fosse stato dato dal Signore, subito, di corsa, andò a prendere il
figlio tra le proprie braccia e si diresse alla sponda del fiume per gettarlo
dentro. E tutto questo egli l’avrebbe certamente portato a termine, dato il
fervore della sua fede e della sua obbedienza, se alcuni fratelli,
intenzionalmente già prima appostati sulla riva del fiume, non avessero
strappato in certo qual modo dall’alveo dell’acqua il bambino gettatovi dentro:
così fu impedito che fosse condotta a termine l’esecuzione di quell’ordine, a
cui il padre s’era disposto con la sua obbedienza e con la sua devozione.
28. COME ABRAMO
Questa sua fede e questa sua
devozione tornarono talmente gradite a Dio che ben presto esse vennero
comprovate da una testimonianza divina. Venne infatti immediatamente rivelato
al monaco anziano che quel padre, con quella sua obbedienza, aveva adempiuto
un’opera simile a quella di Abramo (cf. Gen 22).
Il vecchio, già abate del
cenobio, stando ormai, dopo breve tempo, per lasciare la dimora di questo mondo
per raggiungere Cristo, lo propose a tutti i fratelli come suo successore, e
così lo lasciò abate del monastero.
29. L’ESEMPIO
DI UN GIOVANE MONACO, DI GRANDE FAMIGLIA
E ora non lasceremo passare sotto
silenzio quanto riguarda un fratello, da noi stessi conosciuto, appartenente a
una famiglia di gran nome secondo le gerarchie di questo nostro mondo. Il padre
suo era conte e molto ricco; egli era stato perciò educato nelle arti liberali
con un’istruzione tutt’altro che ordinaria. Lasciati i parenti, s’era rifugiato
in un monastero. Per rendersi conto dell’umiltà del suo spirito e dell’ardore
della sua fede il superiore, assai per tempo, gli diede ordine di caricarsi
sulle spalle ben dieci sporte, che però non erano necessariamente destinate
alla vendita, e con quelle di recarsi per le pubbliche piazze. Aveva anche imposto
questa condizione, per obbligarlo a rimanere per più lungo tempo in quella
situazione di disagio: se, per caso, si fosse presentato anche un solo
acquirente disposto a comprare le sporte tutte quante, egli doveva rifiutarsi,
perché doveva venderle, a chi ne faceva richiesta, una per volta. Egli compì
quell’incarico con tutta remissività e, postasi sotto i piedi, per il nome e il
desiderio di Cristo, ogni ripugnanza, addossatesi sulle spalle le sporte,
riuscì a venderle al prezzo stabilito e a riportarne il denaro al monastero.
Non si sentì affatto mortificato dalla novità di quell’incarico umiliante e
inconsueto, e non diede peso all’indegnità del fatto, alla nobiltà dei suoi
natali e alla meschinità di quella vendita, pur di raggiungere, con la grazia
dell’obbedienza, l’umiltà di Cristo, che costituisce la vera nobiltà.
30. LA VITA DELL’ABATE PINUFIO
1. Le giuste proporzioni
dell’opera presente ci obbligherebbero ormai a guardarne il termine; tuttavia
il bene dell’obbedienza, che tra tutte le virtù tiene il primato, non ci
permette di passare del tutto sotto silenzio il comportamento di coloro che
divennero illustri per la pratica di questa virtù. Pertanto, moderando
giustamente l’una e l’altra di queste esigenze, vale a dire, procurando di
tener presente l’urgenza della brevità e, nel tempo stesso, venendo incontro
alle aspirazioni e ai vantaggi dei più avanzati, esporremo ancora almeno un
unico esempio di umiltà. Esso è ricavato non dalla vita di un principiante, ma
da un monaco giunto alla perfezione e, per di più, abate di un monastero. Il
richiamo varrà, con la sua lettura, non soltanto a istruire i più giovani, ma
anche a incoraggiare gli anziani a praticare in modo perfetto la virtù
dell’umiltà.
2. Abbiamo
veduto di persona l’abate Pinufio. Quando ancora egli era prete in un grande
monastero dell’Egitto, posto non lontano dalla città di Panefisi, era divenuto
oggetto di grande venerazione per il rispetto dovuto alla sua vita, alla sua
età e alla stessa dignità del suo sacerdozio. Perciò, vedendo che per questi
motivi non gli riusciva di porre in atto l’umiltà, tanto desiderata dall’ardore
del suo spirito, e nemmeno di avanzare nell’esercizio della sottomissione, a
cui aspirava, fuggì nascostamente dal monastero e si ritirò tutto solo nelle
zone più remote della Tebaide. Giunto là, depose l’abito proprio dei monaci e
si rivestì di indumenti secolari. Quindi raggiunse il monastero di Tabennesi
che egli sapeva essere di osservanza più rigorosa degli altri: era persuaso, in
questo modo, di passare ignorato per la lontananza del posto, e di poter
facilmente occultarsi per la vastità del monastero e per il gran numero dei
fratelli.
3. Là egli
dimorò per un periodo abbastanza lungo alle porte del monastero, prostrandosi
umilmente alle ginocchia di tutti i fratelli e chiedendo con preghiere
insistenti di essere accolto. Finalmente venne ricevuto non senza molte
riserve, come se lui, ormai vecchio e tardo, giunto ormai agli ultimi anni
della vita, chiedesse l’ingresso al monastero in quell’età in cui non è più
possibile compiacere alle proprie passioni. I fratelli erano inoltre convinti
che egli non aspirasse alla vita monastica perché indotto da motivi religiosi,
ma costretto soltanto dai bisogni dettati dalla fame e dall’indigenza, e perciò
gli venne assegnata la cura e la custodia del giardino, come a un vecchio ormai
del tutto inadatto ad ogni lavoro.
4. Questo
servizio egli lo compì sotto la guida di un altro fratello di lui più giovane,
al quale egli era stato affidato, ed era a lui del tutto sottomesso, coltivando
così la desiderata virtù dell’umiltà con tanta obbedienza che non solo accudiva
alle cure del giardino tutti i giorni e con tutta dedizione, ma si dedicava
pure a tutti quei servizi che a tutti gli altri riuscivano difficili e
avvilenti, e che perciò venivano considerati pressoché ripugnanti. Per di più,
anche in piena notte, egli si alzava nascostamente e compiva molti servizi
senza che ci fosse alcun testimone e che alcuno se ne avvedesse grazie a
quell’oscurità, e così nessuno aveva modo di sorprendere e di conoscere chi
avesse compiuto quel lavoro. Rimase nascosto in quella dimora per ben tre anni.
Intanto però certi fratelli erano partiti per le varie parti di tutto l’Egitto
allo scopo di ricercarlo, e così, finalmente, fu ravvisato da uno di loro che
proveniva dalle regioni dell’Egitto, ma a stento poté essere riconosciuto a
causa dell’umiltà del suo vestito e per la bassezza del lavoro, al quale era
stato addetto.
5. Egli
infatti, tutto curvo, con in mano un sarchiello, stava liberando dalla terra le
radici degli ortaggi e poi, portandovi sulle sue spalle del letame, lo stendeva
su di quelle. Il fratello, in vista di quel fatto, dopo aver esitato a lungo
senza riuscire a riconoscerlo, decise finalmente di farsi più vicino e così poté
osservare non solo più attentamente il suo volto, ma anche udire distinta-mente
il suono della sua voce. Allora egli cadde all’istante ai suoi piedi. Dapprima
suscitò, per questo suo gesto, uno straordinario stupore in quanti erano lì
presenti, i quali si domandavano perché si comportasse così nei confronti di
uno, considerato in mezzo a loro come un novizio e come l’ultimo per essere da
ben poco tempo uscito dalla vita del secolo. Ma subito dopo essi furono presi
da una meraviglia ben più grande, quando egli rivelò il nome di lui: infatti
anche presso di loro quel nome era assai ben noto, circondato com’era da grande
opinione.
6. Tutti i
fratelli implorarono il suo perdono per la loro passata ignoranza, poiché per
tutto quel tempo essi l’avevano considerato e tenuto come uno dei giovani e dei
novizi. E allora, per quanto egli fosse riluttante e in pianto perché si
considerava defraudato, per l’invidia diabolica, della vita e dell’umiltà da
lui lungamente cercata e finalmente e gioiosamente raggiunta, senza per questo
aver meritato di finire la propria vita in quella sotto-missione che gli era
riuscito di conseguire, i fratelli lo ricondussero al loro monastero e lo
custodirono con straordinaria vigilanza perché egli, di nuovo e in modo simile,
non fuggisse in qualche altro luogo.
31. SECONDA
FUGA DI PINUFIO
Dimorò colà ancora per poco
tempo. Ripreso nuovamente dallo stesso ardore desideroso di umiltà,
approfittando del silenzio della notte, riuscì a fuggire per raggiungere non
già qualche zona vicina, ma regioni sconosciute e straniere, separate da grandi
distanze. E così, salito su di una nave, cercò di raggiungere i territori della
Palestina, credendo di potervi dimorare più nascosto se fosse riuscito a
portarsi in luoghi, nei quali perfino il suo nome mai era stato udito. Quando
vi fu arrivato, subito raggiunse il nostro monastero, situato non lontano dalla
grotta, nella quale s’era degnato di nascere dalla Vergine nostro Signore Gesù
Cristo. Ma non poté rimanervi nascosto se non per un tempo molto breve,
conformemente alla sentenza del Signore, allorché parla di una «città edificata
sopra un monte» (Mt 5, 14). Infatti alcuni fratelli, giunti fino ai Luoghi
Santi dall’Egitto per pregare, lo riconobbero e a forza di preghiere e di
suppliche riuscirono a ricondurlo al loro monastero.
32. LE NORME
DETTATE DALL’ABATE PINUFIO
E ora, per quella confidenza da
noi goduta con quel padre ormai anziano, nel tempo in cui egli era venuto
presso il nostro monastero, noi andammo in cerca di lui, dopo questi fatti, fino
in Egitto e con estrema fiducia. Fu proprio nel tempo in cui egli stava
impartendo una serie di precetti esortativi a un giovane che in presenza nostra
egli intendeva accogliere nel suo monastero. Io ritengo che da tali esortazioni
si possa ricavare qualche utile istruzione e perciò mi propongo di includerla
in questo nostro opuscolo.
«Tu, egli cominciò a dire
(rivolgendosi al giovane) ti sei reso conto di quanti giorni sei rimasto alla
porta del monastero per essere oggi qui ricevuto. Ed ora devi renderti ragione
di questa tua attesa, poiché ti potrà riuscire di gran vantaggio intraprendere
questa via, se tu, una volta intese le sue ragioni, ti accosterai al servizio
di Dio come comportano le sue esigenze».
33. I MERITI RISERVATI AI
FERVENTI, E I DEMERITI DEI TIEPIDI E DEI NEGLIGENTI
«Come infatti una gloria immensa
è promessa in futuro da Dio a coloro che lo servono fedelmente e a quanti
aderiscono a Lui secondo le regole di vita stabilite da questa istituzione,
così pure pene gravissime sono preparate per coloro che le avranno seguite con
tiepidezza e negligenza e non si saranno affatto curati di derivarne chiari
frutti di santità proporzionati a quanto avevano professato e a quanto gli
uomini da essi s’aspettavano di constatare. La Scrittura infatti così si
esprime: “E meglio non far voti, che farli e poi non mantenerli” (Ecl = Qo 5,
4); e ancora: “Maledetto colui che compie le opere del Signore con negligenza”
(Ger 48, 10). Considera dunque tu stesso ora per quale motivo sei stato da noi
per tanto tempo tenuto lontano. Non è certo perché non desideriamo cooperare
con tutto il cuore alla tua salvezza e a quella di tutti gli uomini, e nemmeno
perché non bramiamo di andare incontro, anche da lontano, a quanti intendono
convertirsi a Cristo; il motivo è solo da porre nel timore che, ricevendoti
senza riflessione, rendessimo noi stessi davanti a Dio colpevoli di leggerezza,
e te stesso responsabile di una maggiore condanna, qualora, una volta qui
accolto subito e con troppa facilità senza renderti conto dell’importanza della
nuova vita, tu ti fossi poi deciso in seguito ad abbandonare oppure anche solo
a viverla nella tiepidezza. Pertanto è assolutamente necessario che tu ben
conosca anzitutto le ragioni vere della tua rinuncia al mondo, affinché, una
volta ben comprese quelle, tu abbia motivo d’essere istruito più chiaramente su
quello che dovrai compiere».
34. LA RINUNCIA AL MONDO È
L’IMMAGINE DELLA MORTIFICAZIONE E DELLA CROCIFISSIONE DI CRISTO
«La rinuncia al mondo non è altro
che un segno della croce e un indizio di mortificazione. Perciò oggi stesso tu
devi renderti conto che sei morto al mondo, alle sue opere e ai suoi desideri,
e che, come dice l’Apostolo, tu sei crocifisso al mondo, così come il mondo è
crocifisso per te (cf. Gal 6, 14). Considera dunque le esigenze della croce,
perché tu dovrai vivere d’ora innanzi sotto quel segno e sotto la sua luce:
ormai non sarai più tu che vivi, ma vivrà in te Colui che per te è stato
crocifisso (cf. Gal 2, 20). In questa vita noi dobbiamo conformarci a quel comportamento
e a quell’immagine, da Lui offertaci quando si trovò affisso alla croce per
noi, e questo perché, secondo l’espressione di Davide, dobbiamo trafiggere la
nostra carne nel timore del Signore (cf. Sal 118 [119], 120), e asservire ogni
nostra volontà e tutti i nostri desideri, non alla nostra concupiscenza, ma
alla sua mortificazione. Solo così noi obbediremo al precetto del Signore, che
così si esprime: “Chi non prende la sua croce e mi segue, non è degno di me”
(Mt 10, 38). Ma forse tu potresti dirmi: “Come può un uomo portare
continuamente la croce, e come potrebbe qualcuno continuare a vivere, una volta
crocifisso?”, lo te ne spiegherò la ragione con poche parole».
35. LA NOSTRA CROCE È IL TIMORE
DEL SIGNORE
«La nostra croce è il timore del
Signore. Come infatti uno, se è stato crocifisso, non ha più la possibilità di
muoversi o di rivoltare le proprie membra secondo il volere della propria
volontà, così pure noi non dobbiamo volgere la nostra volontà e i nostri
desideri secondo quello che, al momento, ci torna gradito e dilettevole, ma
dobbiamo regolarci secondo la legge del Signore, dove essa intende condurci.
Chi è affisso al patibolo della croce, non s’avvince alle cose presenti, non si
preoccupa degli attacchi del suo cuore, non si mette in apprensione per il suo
avvenire, non si lascia dominare dal desiderio di possedere e neppure prendere
da sentimenti di superbia, di contesa e d’invidia; non si rammarica delle
ingiurie che ora riceve e non si ricorda di quelle ricevute in passato; egli,
insomma, pur sentendosi ancora vivo nel corpo, è convinto d’essere già morto
per tutti gli elementi del mondo, volgendo ormai lo sguardo del suo cuore verso
la meta, alla quale egli non dubita di giungere al più presto. Allo stesso modo
dobbiamo anche noi, grazie al timore del Signore, considerarci crocifissi a
tutti gli elementi del mondo, ed è quanto dire, considerarci morti non soltanto
ai vizi della carne, ma anche agli stessi elementi del mondo, tenendo gli occhi
della nostra anima fissi alla meta, alla quale noi dobbiamo sperare di giungere
in ogni momento. In questo modo noi potremo così dominare e mortificare ogni
nostra concupiscenza e tutte le tendenze della nostra carne».
36. NON SI PUÒ TORNARE A
RIPRENDERE QUELLO A CUI SI È RINUNCIATO PER SEMPRE
1. «Guardati
bene dal riprendere un giorno anche solo una parte di quello a cui tu hai
rinunciato e, contro il divieto del Signore, dall’essere scoperto nell’atto di
rivestirti, una volta ritornato indietro dal campo dell’operosità evangelica,
di quella tunica di cui tu ti eri spogliato (cf. Mt 24, 18). Guardati dal
ricadere nella rete delle passioni e delle tendenze di questo mondo e, contro
il divieto di Cristo, non azzardarti a discendere dalla sommità della
perfezione per andare a riprenderti qualche cosa di quello, a cui hai
rinunciato (cf. Mt 24, 17). Guardati dal coltivare nella tua mente il ricordo
dei parenti e delle tue passate affezioni, affinché, una volta richiamato alle
cure e alle sollecitudini di questo mondo, tu non possa essere ritenuto adatto
al regno dei cieli. Così infatti dichiara il Salvatore “a colui che pone mano
all’aratro, e poi si volge a riguardare indietro” (Lc 9, 62).
2. Guardati
bene, allorché comincerai ad assaporare qualche esperienza dei Salmi e della
tua osservanza religiosa, di non permettere, montato un po’ in superbia, che
rinasca in te l’orgoglio che tu ora hai cominciato a calpestare grazie
all’ardore della tua fede e con la professione di una perfetta umiltà. Se
vogliamo stare alle parole dell’Apostolo, ricostruendo nuovamente quello che
una volta tu hai già distrutto, rendi te stesso prevaricatore (cf. Gal 2, 18).
Cerca piuttosto, in questa tua spoliazione di tutto, di cui hai fatto
professione davanti a Dio e davanti ai suoi angeli di mantenerti saldo fino
alla fine, come pure procura di perseverare in questa stessa umiltà e pazienza,
con la quale, rimanendo per ben dieci giorni alle porte del monastero, hai
implorato con tante lacrime di esservi accolto; e non cercare unicamente di
mantenerti in queste virtù, ma di progredire e di crescere in esse. Sarebbe
veramente deprecabile che tu, mentre dovresti fin dai primi passi avanzare e
tendere alla perfezione, cominciassi a recedere fino a cadere sempre più in
basso. Infatti non colui che ha cominciato, ma “colui che avrà perseverato fino
alla fine sarà salvato” (Mt 24, 13)».
37. OCCORRE
VIGILARE CONTINUAMENTE CONTRO LE INSIDIE DEL DEMONIO E APRIRE AL SUPERIORE I
SEGRETI DELLA PROPRIA COSCIENZA
«L’astuto serpente continuamente
osserva il nostro calcagno, ed è quanto dire che pone continuamente insidie al
cammino verso la nostra sorte e cercherà perciò di farci cadere fino al termine
della nostra vita (cf. Sal 55 [56], 7). Pertanto a nulla gioverà aver
cominciato bene e aver confermato con pienezza di fervore gli inizi della
rinuncia al mondo, se poi anche una fine in tutto corrispondente non avrà
assicurato e concluso quei princìpi. A nulla gioverà, se l’umiltà e la povertà
di Cristo, che tu ora hai promesso davanti a Lui di praticare, da te non
saranno osservate fino al termine della tua vita così come hai cominciato. E
perché tu possa essere fedele a questa pratica, procura di tener d’occhio il
capo di quel serpente, ed è quanto dire, non perdere di vista il primo apparire
dei pensieri da lui suggeriti, e manifestarli subito al proprio padre anziano.
Imparerai a combattere fin dall’inizio le sue perverse insinuazioni, se tu non
avrai rossore a rivelare tutto al tuo direttore spirituale».
38. STRETTA È
LA VIA CHE CONDUCE ALLA VITA E POCHI SONO COLORO CHE LA TROVANO
«Pertanto, secondo la sentenza
della Scrittura, tu, che ormai ti sei deciso a servire il Signore, resta ben
saldo nel timore di Dio e disponi la tua anima, non al riposo, non alla
sicurezza, non alla gioia, ma alla tentazione e alle difficoltà (cf. Eccle = Sir
2, 1). E in realtà “occorre che noi entriamo nel regno di Dio attraverso molte
tribolazioni” (At 14, 21), poiché “stretta è la porta, e difficile da
percorrere è la via che conduce alla vita, e pochi sono coloro che la trovano”
(Mt 7, 14). Considera dunque te stesso ormai come uno introdotto nel numero di
questi pochi, e non lasciarti in preda alla tiepidezza sull’esempio della
rilassatezza dei molti, affinché tu possa meritare di trovarti con i pochi nel
regno di Dio: “Molti infatti sono i chiamati, ma pochi sono gli eletti” (Mt 20,
16), e ancora: “Ristretto è il gregge, a cui il Padre si compiacque di
concedere l’eredità” (Lc 12, 32). Perciò non credere che sia una colpa leggera
quella di chi, dopo aver scelto la via della perfezione, finisce per seguire una
condotta del tutto imperfetta. Sono questi i gradi ed è questo il processo
adatto per giungere a uno stato di perfezione».
39. DAL TIMORE DI DIO SI PASSA
ALLA CARITÀ, LA QUALE AMA SENZA IL TIMORE
1. «Il
principio della nostra salvezza e la sua difesa è il timore di Dio (cf. Pr 9,
10). Grazie al timore di Dio coloro che s’avviano per il cammino della
perfezione conquistano il principio della conversione, la purificazione dai
vizi e il possesso sicuro delle virtù. E quando quel timore si è ben compenetrato
nello spirito dell’uomo, produce il disprezzo di tutti i beni della terra, la
dimenticanza dei parenti e la ripugnanza nei confronti del mondo stesso. Poi,
da questo disprezzo e dalla rinuncia ad ogni propria facoltà nasce l’umiltà.
2. L’umiltà viene
comprovata da questi indizi: se essa mantiene mortificata ogni sua volontà; se
essa non terrà celato, non solo alcuno dei suoi atti, ma nessuno dei suoi
pensieri al proprio superiore; se nulla sarà riservato al proprio
discernimento, ma tutto verrà rimesso al suo giudizio e verranno ascoltati
avidamente e volentieri i suoi consigli; se in tutto egli sarà pronto ad
obbedire e conserverà la costanza della pazienza; se non soltanto non sarà lui
a recare ingiuria ad altri, ma non si lamenterà e non si rattristerà per quelle
recate a lui da altri; se nulla egli farà che non sia suggerito dalla regola o
dall’esempio dei padri anziani; se egli si accontenterà anche delle posizioni
più umili e se considererà se stesso come un pessimo operaio, immeritevole di
tutto quello che gli viene offerto; se considererà se stesso inferiore a tutti
gli altri in modo da non ammetterlo soltanto a parole, a fior di labbro, ma
nell’intimo del proprio cuore; se saprà dominare la propria lingua, senza mai
alzare troppo la voce; se non sarà troppo facile e pronto ad abbandonarsi al
riso.
3. A tali indizi e con segni
simili a questi si può riconoscere la vera umiltà. E quando essa sarà da te
realmente posseduta, ben presto essa ti farà risalire a un grado superiore, a
quella carità cioè che esclude il timore (cf. 1 Gv 4, 18), e sarà per suo
merito che tu comincerai a compiere spontaneamente e senza alcuna fatica quello
che prima tu non adempivi senza pena e timore. Il tuo comportamento non sarà
dettato dalla visione e dalla paura di una condanna, ma dall’amore del bene per
se stesso e dalla gioia prodotta dalla virtù».
40. OCCORRE IMITARE GLI ESEMPI,
NON DI MOLTI, MA SOLO DI QUALCUNO, OPPURE DI POCHI
«E perché tu possa raggiungere
questa meta nel tuo dover vivere in comunità, ti occorrerà prendere esempi da
imitare, in vista di una vita perfetta, da parte di un numero molto ristretto,
fosse pure di uno o di due, e non certo di molti. E il motivo sta nel fatto che
una vita veramente controllata e condotta fino alla perfezione si ritrova in
ben pochi. In più s’aggiunge questo vantaggio, che per raggiungere la
perfezione delle proprie aspirazioni, vale a dire, della vita cenobitica,
ognuno vi arriva sicuramente formandosi e conformandosi sull’esempio di uno
solo».
41. NON LASCIARTI TRASCINARE
DAGLI ESEMPI NON EDIFICANTI
1. «E allora,
perché tu possa giungere a questo fine preciso e perseverare fino in fondo
nell’osservanza di queste norme spirituali dovrai necessariamente attenerti,
entro il monastero, a queste tre condizioni: ecco anzitutto le parole del
salmista: “Io, come un sordo, non prestavo ascolto e stavo come un muto senza
aprire la mia bocca. Ed ero divenuto come un uomo incapace di udire, senza
possibilità di rispondere” (Sal 37 [38], 14-15). Anche tu comportati come un
sordo, un muto e un cieco. All’infuori di colui che ti sei proposto come un
modello da imitare in vista della sua vita esemplare, procura, come fossi un
cieco, di non vedere quanto ti si offre di meno edificante, in modo da evitare
di essere indotto, per l’autorità e la condotta stessa di coloro che così si
comportano, a compiere e fare quello che tu stesso prima avevi condannato.
2. Se t’avverrà
di sentir dire che qualcuno non è obbediente, è ribelle e maldicente, o
comunque è tale da tenere una condotta diversa da quella che ti era stata
insegnata, non lasciarti turbare, e tanto meno non indurti, per tali esempi, ad
imitarlo. Come se tu fossi sordo, trascura tutti questi discorsi inutili, come
se tu mai avessi dovuto ascoltarli. E se a te o a qualunque altro saranno
rivolte ingiurie o fatte offese, conservati insensibile e ascolta gli insulti
come si comporta il muto che non risponde per averne vendetta. Tieni presente
nel tuo cuore, fino a ricantarne le parole, questo versetto del salmista: “Ho
detto: Veglierò sulla mia condotta per non peccare con la mia lingua. Porrò un
freno alla mia bocca, mentre l’empio sta dinanzi a me. Sono rimasto in
silenzio, mi sono umiliato e mi sono perfino astenuto dal dire cose buone” (Sal
38 [39], 2-3).
3. Ma, ancora
più degli altri suggerimenti, procura di mettere in atto questo consiglio,
destinato a coronare e a completare i tre precetti dettati in precedenza: cerca
di comportarti da stolto in questo mondo, secondo il suggerimento dell’Apostolo
(cf. 1 Cor 3, 18), proprio per essere sapiente. Perciò non metterti a
disapprovare e a giudicare quello che ti verrà comandato, ma procura di
praticare sempre l’obbedienza con semplicità e con fede, ritenendo santo, utile
e saggio unicamente tutto quello che la legge di Dio o il criterio del
superiore ti avrà comandato. Una volta posti i tuoi fondamenti su questo
sistema di vita, tu riuscirai a perseverare per sempre in tale disciplina, e
così nessuna tentazione del nemico e nessuna deviazione t’indurrà ad
abbandonare il monastero».
42. LA PAZIENZA È UNA VIRTÙ CHE
DIPENDE SOLTANTO DA NOI
«Non devi sperare che la tua
pazienza derivi dalla virtù degli altri, nel senso che tu riesca a possederla
soltanto quando non venga provato da altri. Infatti, impedire che questo
avvenga non è affatto in tuo potere. Invece essa si formerà grazie alla tua
umiltà e alla tua generosità, e perciò essa dipende dal tuo libero arbitrio».
43. CONCLUSIONE DEL DISCORSO
DELL’ABATE PINUFIO
«E perché tutti questi
suggerimenti, disseminati fin qui in un discorso abbastanza ampio, restino
fissati più facilmente nel tuo animo e aderiscano tenacemente nei tuoi sensi,
io ne trarrò un breve riassunto affinché tu possa, proprio nella brevità e nel
compendio di tutti questi precetti, mantenerne il ricordo nella loro complessità.
Ascoltane dunque tutta la serie ordinatamente in modo che tu possa, senza
troppe difficoltà, salire fino alla sommità della perfezione.
Il principio della nostra
salvezza e della nostra saggezza è dunque il timore del Signore (cf. Pr 9, 10).
Dal timore del Signore deriva una compunzione salutare. Dalla compunzione del
cuore scaturisce la rinuncia, vale a dire, la privazione volontaria e il
disprezzo di tutti i beni. Da questa privazione di tutto nasce l’umiltà.
Dall’umiltà si genera la mortificazione di ogni volontà propria. Per effetto
della mortificazione della volontà vengono estirpati tutti i vizi. Con
l’eliminazione dei vizi sorgono, fruttificano e crescono le virtù. Con lo
sbocciare delle virtù si acquista la purezza del cuore. Con la purezza del
cuore si raggiunge il possesso della perfezione, tutta propria della carità
apostolica».
LIBRO QUARTO
Estratto da “Giovanni Cassiano - Le istituzioni cenobitiche" - EDIZIONI SCRITTI MONASTICI - ABBAZIA DI PRAGLIA
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