Celibato sacerdotale
Fondato da Cristo:
replica di uno storico a Gennari sul gran tema del
celibato sacerdotale
Vista la situazione, ripubblichiamo un chiarissimo articolo del prof. de Mattei Roberto
(Roberto de Mattei su “Il Foglio” del
07/04/2011) Gianni Gennari, collaboratore regolare del quotidiano dei vescovi
“Avvenire”, ha affrontato, su “Il Foglio” del 2 aprile, il tema forte del
celibato ecclesiastico, riproponendone (non è la prima volta) la modifica o
l’abolizione. La tesi di Gennari è che la legge sul celibato dei preti
non risale a Gesù Cristo e non è materia di fede, e perciò non può considerarsi
intoccabile. Insorgendo contro un recente articolo del cardinale Mauro
Piacenza, apparso in prima pagina sul ’”Osservatore Romano” (Questione di
radicalità evangelica, , 23 marzo 2011), il corsivista di “Avvenire” arriva a
definire la difesa del celibato fatta dal card. Piacenza come “dottrinalmente
infondata”, “sottilmente violenta” e, addirittura, offensiva di “duemila anni di
storia della Chiesa cattolica”.
Ma ciò che ancor più lo irrita è il cambiamento in materia
del cardinale Ratzinger che, nel 1970 condivise un manifesto teologico che
chiedeva di ripensare il legame tra sacerdozio e celibato, mentre oggi, come
Benedetto XVI, ribadisce che il celibato ecclesiastico deve essere considerato
un “valore sacro” per i sacerdoti di rito latino.
Gennari conclude il suo articolo auspicando che di fronte a
nuove situazioni e nuove urgenze, “il Papa possa tornare a certe convinzioni
manifestate apertamente dal teologo”, anche perché ormai “esistono le
condizioni per una prudente prassi diversa” e “nelle opinioni e nelle decisioni
dei Papi possono verificarsi veri cambiamenti”. Gennari tiene infine a
sottolineare che la sua richiesta del matrimonio dei preti è ben distinta da
quella dell’ordinazione sacerdotale delle donne, sulla quale c’è stata anche di
recente “la riaffermazione della prassi contraria, legata al fatto che la
coscienza della Chiesa, interpretata al livello della massima autorità, non è
tale da permettere di superare la disciplina attuale fondata sull’esempio di
Cristo stesso e di duemila anni di storia continua”.
E’ da qui che occorre partire: dall’idea di Gennari secondo
cui nella Chiesa verità e leggi possano evolvere secondo l’esperienza religiosa
(prassi) del popolo cristiano. A questa concezione evoluzionistica si oppone la
dottrina della Chiesa, secondo cui esiste un depositum fidei, contenuto nella
Tradizione cattolica, che la Chiesa può esplicitare, ma mai innovare. Gesù
infatti non mise per scritto il suo insegnamento, ma lo affidò alla sua Parola,
che poi trasmise agli Apostoli perché la diffondessero ad ogni angolo della
terra. Il deposito della Fede fu conservato soprattutto nella Tradizione orale
della Chiesa, che precedette le Sacre Scritture e contiene elementi che nelle
Scritture non risultano. Il fatto che il Papa sia vescovo di Roma o che sette
siano i Sacramenti non discende, ad esempio dalla Scrittura, ma dalla
Tradizione, che è infallibilmente assistita dallo Spirito Santo. La questione
che allora si pone è se la legge del celibato ecclesiastico, oltre ad essere
una plurisecolare prassi ecclesiastica, discenda o no dalla Tradizione
divino-apostolica della Chiesa.
Soccorrono su questo punto alcuni importanti studi
sull’origine del celibato ecclesiastico. Il primo, più volte ristampato dalla
Libreria Editrice Vaticana, è il saggio del cardinale Alfons Maria Stickler, Il
celibato ecclesiastico. La sua storia e i suoi fondamenti teologici; il
secondo, meno noto, ma non meno importante, è quello del padre Christian
Cochini, appena tradotto in lingua italiana dalla casa editrice Nova Millennium
Romae, con il titolo Origini apostoliche del celibato sacerdotale. Tali opere ribaltano
la vecchia tesi del padre Franz Xaver Funck, un gesuita aperto alle suggestioni
del modernismo, che agli inizi del Novecento, riteneva di confutare il grande
orientalista Gustav Bickell. Mentre Bickell sosteneva il fondamento
divino-apostolico della legge del celibato, Funck la considerava una prassi
ecclesiastica emersa non prima del IV secolo, ovvero una legge di carattere
storico (e perciò riformabile). Cochini dimostra che Funck non fece buon uso
del metodo storico-critico, prendendo per buono un documento spurio in cui il
vescovo-monaco Pafnuzio, nel corso del Concilio di Nicea (325) avrebbe
contestato aspramente la continenza per i preti sposati. Oggi è provato che
tale testo fu elaborato probabilmente all’interno della setta dei Novaziani. Stickler,
da parte sua, sottolinea l’errore ermeneutico di chi, sulla scia di Funck, ha
confuso i concetti di ius (diritto) e di lex (legge).
Il fatto che prima del IV secolo mancasse una legge scritta,
non significa che non esistesse una norma giuridica obbligatoria che imponesse
la continenza del clero. Quando Papa Siricio, negli anni 385-386, con le
decretali “Directa” e “Cum in unum”, formalizzò per la prima volta una
disciplina per chierici, stabilendo che vescovi, sacerdoti e diaconi erano
tenuti, senza eccezioni, a vivere permanentemente nella continenza, egli non
introdusse una nuova dottrina, ma codificò una Tradizione, vissuta nella Chiesa
fin dalle origini. Il progresso teologico consiste proprio in questo: nello
sviluppo della conoscenza di un precetto tradizionale, in questo caso il
celibato ecclesiastico, che può meglio essere spiegato in estensione, chiarezza
e certezza. A ciò conducono le edizioni critiche e i nuovi documenti di lavoro
sui primi secoli di cui oggi dispongono gli studiosi.
L’unico argomento che viene addotto da Gennari contro questa
tesi ruota attorno ad un sofisma sempre confutato e sempre ripetuto: il fatto
cioè, in apparente contraddizione con la tradizione apostolica, che a partire
dagli Apostoli stessi, i primi cristiani fossero sposati. Ciò che è in
questione però non è l’ordinazione di uomini sposati nei primi secoli del
cristianesimo. Sappiamo che ciò era cosa normale, se san Paolo prescrive ai
suoi discepoli Tito e Timoteo che i candidati al sacerdozio dovevano essere stati
sposati solo una volta (1 Tm 3,2; 3, 12). La questione centrale è quella della
continenza da ogni uso del matrimonio, dopo l’ordinazione sacerdotale. Non
bisogna confondere infatti lo stato di matrimonio con l’uso dello stesso. Il
matrimonio è un’istituzione di carattere giuridico morale, elevata dalla Chiesa
a sacramento, il cui fine è la propagazione del genere umano. L’uso del
matrimonio è invece l’unione fisica di due sposi, diretta alla generazione. A
questo diritto, si può liberamente rinunciare, pur rimanendo sposati. E’ quanto
facevano i primi cristiani i quali, pur rimanendo giuridicamente sposati,
decidevano di non usare del matrimonio, cioè di vivere da celibi all’interno
dello stato matrimoniale. La parola celibe, in questo senso, non indica uno
status, ma la scelta di astenersi per sempre dai piaceri sessuali. Nei primi
secoli fu riconosciuto al clero la possibilità di vivere nello stato
matrimoniale, ma non il diritto di usare del matrimonio. Ciò che fu dall’inizio
obbligatorio, non fu lo stato di celibe, ma la continenza, ovvero l’astensione
dall’atto generativo.
Nei primi secoli della Chiesa, l’accesso agli ordini sacri
era aperto agli sposati, a condizione che essi, col consenso della moglie,
rinunciassero all’uso del matrimonio e praticassero una vita di continenza. La
prescrizione apostolica della continenza ebbe il suo logico sviluppo nelle
leggi che imposero progressivamente ai sacerdoti lo stato celibatario. La lunga
serie degli interventi papali ebbe il suo coronamento nel Concilio Lateranense
I, convocato da Callisto II (1123), nel quale fu promulgata la legge non solo
della proibizione, ma della invalidità del matrimonio per chi aveva ricevuto
gli ordini sacri. Nel primo millennio, le chiese orientali non conobbero questo
sviluppo dogmatico-disciplinare e rimasero come eccezione alla regola latina.
In seguito, nelle chiese orientali scismatiche, l’antica disciplina celibataria
si allargò sempre di più, mentre la maggior parte delle Chiese orientali
rimaste unite o ritornate all’unione con Roma, ha finito per accettare la
disciplina dell’Occidente, anche se per alcuni cattolici, come i Maroniti e gli
Armeni, Roma tollera che seguano l’antico costume greco: il fatto stesso però
che, in Oriente, i sacerdoti non possono sposarsi dopo l’ordinazione e soltanto
i sacerdoti celibi sono ordinati vescovi, significa che l’uso del matrimonio
per chi lo avesse contratto precedentemente alla ordinazione, è una pratica
tollerata, ma non certo posta a modello.
Del resto, gli attacchi al celibato accompagnano da sempre
la storia della Chiesa Nel 1941, ad esempio, fu messo all’Indice un libro
curato dal teologo protestante Hermann Mulert, Der Katholizismus der Zukunft
(Lipsia 1940), in cui si reclamava, come chiede Gennari, la possibilità di
inserire il celibato ecclesiastico come facoltativo. Ma non c’è da illudersi su
questo punto: se cade la legge del celibato, cade con essa il sacerdozio
celibatario e si apre la strada all’istituzionalizzazione del matrimonio
ecclesiastico. Né serve ripetere che la castità è impossibile, visto che il
Concilio di Trento ha condannato chi lo afferma (sess. XXIX, can- 9).
E’ vero però che ad una vita di perfetta continenza l’uomo
non può giungere con le sole sue forze, ragione per cui Dio non l’ha comandato,
ma solo consigliato. Chi liberamente sceglie di seguire questo consiglio
evangelico, trova non in sé stesso, ma in Dio, la forza per essere coerente con
la propria scelta. Il celibato resta, certo, un sacrificio e questo, ha
osservato il padre Cornelio Fabro, “sta o cade con il carattere della Chiesa
cattolica come l’unica vera Chiesa di Gesù Cristo”. Il prete cattolico,
infatti, può e vuole sacrificarsi soltanto per una causa assoluta. Ma oggi
l’unicità della Chiesa romana come vera Chiesa è messa in discussione e il concetto
di sacrificio è abbandonato, in nome della ricerca del piacere ad ogni costo.
La vocazione sacerdotale esige inoltre la donazione totale e l’esclusivo
orientamento di ogni preoccupazione a Dio e alle anime, il che è incompatibile
con la divisione del cuore che è propria a chi è preso dalle cure familiari.
Giovanni Paolo II, nell’Esortazione apostolica Pastores dabo
vobis, ha affermato che la volontà della Chiesa trova la sua ultima motivazione
“nel legame che il celibato ha con l’ordinazione sacra, che configura il
sacerdote a Gesù Cristo Capo e Sposo della Chiesa” (n. 29). Sviluppando il
Magistero pontificio, nei suoi articoli sull’“Osservatore Romano” e nel suo
recente volume Il sigillo. Cristo fonte dell’identita del prete (Cantagalli
Siena 2010), il cardinale Piacenza ribadisce che la radice teologica del
celibato è da rintracciare nella nuova identità che viene donata a colui che è
insignito del Sacramento dell’Ordine. Il problema di fondo è dunque quel ruolo
del sacerdote nella società postmoderna che il nuovo Prefetto della
Congregazione per il Clero rilancia con forza. La richiesta dell’abolizione del
celibato si inserisce in un contesto di secolarizzazione considerato
irreversibile, malgrado le lezioni in senso contrario della storia.
Secolarizzazione significa perdita del concetto di sacro e
di sacrificio e assunzione della “mondanità” come valore, Ma la modernizzazione
della Chiesa ha portato oggi alla sua “sessualizzazione”. La purezza però è una
virtù che spinge chi la pratica verso il cielo, mentre la sessualità inchioda
le tendenze umane alla terra. Molti sacerdoti reclamano il piacere come un
diritto e, se non lo ottengono ufficialmente, lo esercitano nella
semi-clandestinità, talvolta sotto gli occhi benevolmente complici dei loro
vescovi. Il cammino è esattamente contrario a quello percorso dai primi
cristiani. Allora accadeva che gli uomini sposati scegliessero di abbracciare,
con il sacerdozio, una vita di assoluta castità. Oggi succede che sacerdoti che
hanno consacrato la loro vita al Signore reclamino di poter godere dei piaceri
del mondo. Ciò non è nuovo nella Chiesa, che ha vissuto come una piaga il
concubinato dei preti, cioè il fatto che essi vivessero abitualmente more
uxorio, come accadeva quando san Pier Damiani scrisse l’infuocato Liber
Ghomorranus.
La via da seguire, ancora oggi, è quella, indicata da
Benedetto XVI, di una profonda riforma morale, analoga alla rinascita
gregoriana dell’XI secolo. E se si volessero riassumere le ragioni in
difesa del celibato dei preti, diremmo in primo luogo che non si tratta di una
legge ecclesiastica, ma della volontà stessa di Cristo, trasmessa attraverso
gli apostoli alla Chiesa; in secondo luogo che il mondo ha bisogno di sacerdoti
i quali non assecondino la loro pur sofferta umanità, ma la vincano,
rispecchiando Cristo e ponendosi come modello e guida alle anime, oggi più che
mai assetate di assoluto. (Roberto de Mattei)
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