FONDAMENTI STORICI DEL
CELIBATO SACERDOTALE
Sono trascorsi trent'anni dalla pubblicazione dell'Enciclica «Sacerdotalis Caelibatus», emanata da Papa Paolo VI. Trent'anni di ricerca, come auspicava il suo Autore, ma anche trent'anni di crisi. Non in misura maggiore di quanto avesse fatto il Concilio Vaticano II, né più di quanto avrebbero fatto le altre dichiarazioni del Magistero su tale questione, il documento papale in realtà non pose termine alla contestazione. Nel clima sociale saturo di erotismo degli anni '60, il dubbio che si era impadronito di molti riguardo al valore del celibato sacerdotale trovò con estrema facilità un terreno particolarmente fertile in cui moltiplicarsi. Alle motivazioni ampiamente sviluppate da Paolo VI per giustificare la disciplina della Chiesa Latina, risposero numerose voci che addussero altrettanti motivi per criticarle. Fu come se l'Enciclica, contrariamente al suo intendimento, avesse aperto un dibattito nel quale ciascuno si riteneva autorizzato ad intervenire, a proposito e a sproposito. Applaudito dai media, il matrimonio di molti sacerdoti si ammantò di un odore profetico e vi furono diversi teologi che misero in questione i fondamenti del celibato.
Trent'anni nel corso dei quali si verificarono non pochi drammi, ma che consentirono comunque alla Chiesa di esercitare un'azione di discernimento più profondo. Nel 1992, la diagnosi contenuta nell'Esortazione apostolica Pastores dabo vobis di Papa Giovanni Paolo II, grazie alla sua precisione e alla sua chiarezza, annunciò la conclusione della crisi. Frutto della riflessione collegiale dell'Episcopato del mondo intero al Sinodo del 1990, si può dire che il nuovo documento riscoprì «tutta la profondità dell'identità sacerdotale» e mostrò che solo «una conoscenza esatta e profonda della natura e della missione del sacerdozio ministeriale» poteva risolvere il problema. Il sacerdote non è e non sarà mai un «funzionario»; egli è unito a Cristo, Sacerdote Supremo e Buon Pastore, con un legame ontologico specifico che fa di lui, nel senso forte del termine, un alter Christus. L'imitazione della verginità di Cristo è anche, per quest'altro Cristo che è il sacerdote, una via sicura per assomigliare a Lui e, con Lui, «offrirsi per essa», la Chiesa, sua Sposa. Su questo fondamento teologico incontestabile il celibato sacerdotale ritrova la sua alta nobiltà. Nel manifestarne le radici evangeliche, l'Esortazione apostolica Pastores dabo vobis collega questa vocazione a Colui che, in modo unico ed irrepetibile, le può dare significato ed offrire a coloro che sono chiamati a viverla il centuplo in termini di amore e di paternità.
La storia a questo punto ci pone un problema. Se è vero che esiste un legame di questo tipo tra il celibato, - o la perfetta continenza - ed il sacerdozio ministeriale, che ne è stato dei primi sacerdoti, vale a dire degli apostoli? Paolo VI scriveva: «Gesù, che scelse i primi ministri della salvezza e li volle introdotti all'intelligenza dei misteri del regno dei cieli, cooperatori di Dio ad un titolo specialissimo, ambasciatori suoi, e li chiamò amici e fratelli, per i quali consacrò se stesso, affinché fossero consacrati nella verità, promise di ricompensare abbondantemente chiunque avesse abbandonato casa, famiglia, moglie e figli per il regno di Dio (N. 22). E possibile conciliare questi sorprendenti privilegi, questa intimità eccezionale con il Signore della quale godevano gli apostoli, con l'idea che essi abbiamo potuto non sentirsi interpellati dalla verginità del loro Maestro, dal suo invito a lasciare «ogni cosa» per seguirlo? Sono stati così «tardi di cuore nel credere», ed hanno essi, con il loro atteggiamento, incoraggiato i loro successori per molti secoli, a praticare liberamente il matrimonio dopo l'ordinazione? La questione è secondaria in rapporto alla teologia del sacerdozio, ma è assai rilevante per i nostri spiriti moderni, che comprendono con fatica come uno stile di vita sacerdotale, le cui motivazioni sono presentate come omogenee al Vangelo ed ispirate all'esempio di Cristo, abbia potuto essere considerato come facoltativo dagli apostoli; proprio loro, la cui missione era precisamente quella di far conoscere il Vangelo e di mostrare attraverso tutta la loro vita ciò che era e ciò che doveva essere un alter Christus. I numerosi libri o articoli apparsi dopo il Concilio, consacrati al celibato dei sacerdoti, si richiamano quasi sempre alla storia, sottolineando giustamente l'importanza del problema.
Per quanto riguarda la parte di mia competenza, ho iniziato le mie ricerche nel 1964, in preparazione al Dottorato in Teologia. Il punto di partenza fu il canone di un Concilio africano del 390 che, stranamente, faceva risalire l'obbligo della continenza clericale ad una tradizione apostolica. Eccone il testo:
Epigone, Vescovo di Bulla Regia, dice: «in un Concilio precedente si discusse sulla norma della continenza e della castità. Che si istruisca dunque (ora) con maggior impegno sui tre gradi, che, in virtù della loro consacrazione, sono vincolati dallo stesso obbligo di castità, voglio dire il vescovo, il presbitero e il diacono e che si insegni ad essi a conservarsi puri». Il vescovo Geneclio dice: «Come si è detto precedentemente, conviene che i santi vescovi ed l presbiteri di Dio, al pari del leviti, vale a dire coloro che sono ministri dei sacramenti divini, osservino una continenza perfetta per potere ottenere in tutta semplicità ciò che essi domandano a Dio; ciò che insegnarono gli apostoli e ciò che la tradizione stessa ha osservato, facciamo in modo di osservarlo anche noi». All'unanimità, I vescovi dichiararono: «Piace a tutti noi che il vescovo, il presbitero ed il diacono, custodi della purezza, si astengano (dal commercio coniugale) con la propria sposa, affinché coloro che sono al servizio dell'altare osservino una castità perfetta».
Questo canone ebbe un ruolo importante nella storia della disciplina della continenza sacerdotale non solo in Africa, ma in tutta la Chiesa. Esso fu spesso invocato, nel corso dei secoli, per verificare o consolidare il legame tradizionale tra la disciplina del celibato e "l'insegnamento degli apostoli". I primi a farvi ricorso furono i Padri Bizantini del Concilio "in Trullo" del 692, di cui parleremo più avanti. Pio XI, nel nostro tempo, vi si riferisce esplicitamente nell'Enciclica «Ad catholici sacerdotii fastigium» (1935).
Questa constatazione, che fu per me una scoperta, mi spinse a scegliere il canone di Cartagine come filo conduttore. I Padri Africani avevano detto la verità? L'obbligo della continenza perfetta per i vescovi, i presbiteri ed i diaconi risaliva veramente agli apostoli, come essi affermavano in modo così deciso? Si rivelò necessario un triplice studio: fare un inventario completo dei documenti sul celibato dei chierici, sia per la Chiesa di Occidente che per la Chiesa di Oriente; verificare la loro autenticità; tentare, infine, una sintesi storica, alla luce di un principio ermeneutico appropriato. Presenterò ora, per grandi linee, questo lavoro.
1. Le principali testimonianze patristiche
Accanto al canone di Cartagine, troviamo nel IV sec. numerosi documenti pubblici, che fanno ugualmente risalire ai tempi apostolici la disciplina sulla continenza perfetta del clero. Essi sono, in ordine cronologico:
1 - La decretale Directa, del 10 Febbraio 385, inviata da Papa Siriaco al Vescovo Imero, metropolita di Tarragona. Il Pontefice Romano ricorda al clero spagnolo il dovere della continenza perfetta, il cui principio è contentuo nel Vangelo di Cristo, ed aggiunge: «È per la legge indissolubile di queste decisioni che noi tutti, sacerdoti e diaconi, ci troviamo vincolati, a partire dal giorno della nostra ordinazione, (ed obbligati) a mettere i nostri cuori ed i nostri corpi al servizio della sobrietà e della purezza...»
2 - La decretale Cum in unum, inviata da Papa Siriaco agli episcopati di diverse provincie per comunicare loro le decisioni prese nel gennaio del 386 a Roma da un concilio di 80 vescovi.
Il documento insiste sulla fedeltà alle tradizioni trasmesse dagli apostoli, poiché «non si tratta di promulgare dei nuovi precetti, ma di fare osservare quelli che, a motivo dell'apatia e della pigrizia di certuni, sono stati trascurati». Tra le varie cose «stabilite con una costituzione apostolica e con una costituzione dei Padri» si trova anche l'obbligo alla continenza per i chierici che hanno ricevuto gli ordini maggiori. Un'osservazione importante: se l'Apostolo chiede di scegliere come vescovo , presbitero o diacono un "uomo sposato una sola volta", è propter continentiam futuram, in vista della continenza che i candidati sposati avrebbero dovuto osservare dopo la loro ordinazione.
3 - La Decretale Dominus inter, di Siriaco (o forse di Damaso). Per rispondere a certi quesiti dei vescovi delle Gallie, il Papa si propone di richiamarli all'ordine «facendo conoscere le tradizioni»; in questo contesto egli parla dei vescovi, dei presbiteri e dei diaconi, riguardo ai quali, egli dice espressamente, «le divine Scritture, e non soltanto noi stessi, fanno obbligo di essere molto casti».
Queste tre Decretali rivestono un "importanza fondamentale per la storia delle origini del celibato dei chierici. Esse presuppongono, come cosa normale e legittima, l'ordinazione di numerosi uomini sposati. Costoro, a partire dal diaconato, sono comunque tenuti alla continenza perfetta con la loro sposa, se essa è ancora in vita, e l'infrazione di questa disciplina, frequente allora in certe provincie lontane da Roma come la Spagna e le Gallie, è condannata in quanto ritenuta contraria alla tradizione apostolica.
Per valutare l'esatta portata di questi documenti, è necessario ricordarsi che la Chiesa di Roma ha raggiunto molto presto una posizione assolutamente unica, in quanto testimone della Tradizione derivata dagli apostoli. Sant'Ireneo ha espresso quest'idea in una formula divenuta celebre: «con questa Chiesa, a motivo della sua origine più eccellente, deve necessariamente accordarsi ogni Chiesa, vale a dire i fedeli di ogni luogo, Chiesa nella quale sempre, a beneficio di tutte le genti, è stata conservata la Tradizione che deriva dagli apostoli».
Questa posizione privilegiata della Sede «apostolica» consente di assicurare che i pontefici romani di questo scorcio del IV secolo si siano fatti garanti a nome di tutta la Chiesa di una tradizione del "celibato-continenza" per i chierici che hanno ricevuto gli ordini maggiori e provengono dalla linea degli apostoli, e che abbiano impegnato in questa affermazione rutta la propria credibilità.
Numerosi autori patristici, sempre del IV secolo, parlano di una disciplina che richiede la continenza perfetta per i chierici che hanno ricevuto gli ordini maggiori. Possiamo limitarci ai più rappresentativi:
Sant'Epifanio di Salamina (315-403 circa). Nel suo Panarion, il vescovo di Cipro confuta i montanisti, che gettavano discredito sul matrimonio; niente di più contrario all'intenzione del Signore, che ha scelto i suoi apostoli non solo tra i vergini, ma anche tra i monogami. Tuttavia, aggiunge Epifanio, questi apostoli sposati praticarono in seguito la continenza perfetta e, seguendo l'esempio che Gesù, la regola della verità, aveva così tracciato per loro, fissarono a loro volta la norma ecclesiastica del sacerdozio. Se in alcune regioni ci sono dei chierici che continuano ad avere dei figli, ciò non avviene in conformità agli autentici canoni ecclesiastici. Nella postfazione del Panarìon, la disciplina generale vigente all'epoca è descritta chiaramente:
...in mancanza di vergini (il sacerdote viene reclutato) tra i monaci; se non ci sono monaci sufficienti per il ministero (si reclutino) tra gli sposi, che conservino la continenza con la loro spsa, o tra gli ex-monogami vedovi; tuttavia in essa (cioè nella Chiesa) non è consentito ammettere al sacerdozio l'uomo risposato, anche se egli mantiene la continenza o se è vedovo, (è scartato) dall 'ordine dei vescovi, dei presbiteri, dei diaconi e dei suddiaconi .
L'Ambrosiaster (366-384 circa) tratta in due occasioni della continenza dei chierici. Nel commento alla prima lettera a Timoteo sviluppa un'argomentazione simile a quella di Siriaco, di Ambrosio e di Girolamo; pur esigendo che il futuro diacono o vescovo sia unius uxoris vir, l'Apostolo non ha loro riconosciuto la libertà del commercio coniugale; al contrario «che essi sappiano bene di poter ottenere ciò che domandano, se si astengono per di più dall'uso del matrimonio». La stessa idea si riscontra nelle Quaestiones veteris et novi Testamenti, che testimoniano allo stesso tempo una visione sana della sessualità nobilitata dal Creatore, contrastante con il pessimismo manicheo o la diffidenza encratista nei confronti dell'«opera della carne». I requisiti richiesti dal sacerdozio sono eccezionali, perché fondati sul carattere eccezionale delle sue funzioni. Ministro di Cristo, di cui "ogni giorno fa le veci", egli è consacrato "alla causa di Dio" e deve potersi "dedicare alla preghiera" ed al suo ministero in modo costante. L'antropologia che sta alla base di questi testi è di ispirazione paolina.
Sant'Ambrogio di Milano (circa 333-397) commenta anch'egli allo stesso modo l’Unius uxoris vir di San Paolo:
«Non è a generare figli durante (la sua carriera) sacerdotale che L'Autorità apostolica invita il sacerdote; (l'Apostolo) in effetti ha parlato di un uomo che ha (già) dei figli, non di qualcuno che ne generi (altri) o che contragga un nuovo matrimonio.
Altrove egli risponde all'obiezione, sollevata dai leviti dell'Antico Testamento, giustificando con un a fortiori, come i suoi contemporanei, la continenza perfetta richiesta ai sacerdoti della Nuova Alleanza.
San Girolamo (circa 347-419) ritorna più volte sul problema della continenza dei chierici, soprattutto nel corso della sua polemica con Gioviniano e Vigilante. Nell’Adversus Jovinianum, egli commenta Yunius uxoris vir della prima Lettera a Timoteo nello stesso senso di Siriaco: si tratta di un uomo che ha potuto avere figli prima della sua ordinazione, non di uno che continui ad averne dopo. La lettera a Pammachio, da parte sua, sottolinea il legame di dipendenza tra la continenza dei chierici e quella di Cristo e di sua Madre, ambedue vergini.
Il Cristo Vergine e la Vergine Maria hanno consacrato per ambedue i sessi gli inizi della verginità: gli apostoli furono o vergini, o continenti dopo il matrimonio. Vescovi, presbiteri e diaconi sono scelti tra i vergini o tra i vedovi; in ogni caso, una volta ricevuto il sacerdozio, essi, osservano la castità perfetta.
L’Adversus Vigilantium, infine, attesta che la disciplina della continenza dei chierici è in vigore in vaste regioni dell'impero:
«Che farebbero le Chiese d'Oriente? Che farebbero quelle d'Egitto e quelle della Sede apostolica, esse che accettano solo i chierici vergini o continenti, o (se hanno avuto) una sposa, o solo se hanno rinunciato alla vita matrimoniale?»
La disciplina che vieta il matrimonio dopo l'ordinazione e la disciplina della continenza perfetta, che impone ai chierici sposati prima della loro ordinazione l'astinenza dai rapporti coniugali, sono dunque ampiamente attestati a partire dal IV secolo dai migliori rappresentanti dell'epoca patristica
Numerosi documenti affermano l'origine apostolica di entrambe. Alcuni in termini espliciti, come le Decretali di Siriaco, o i concili africani; altri, come Epifanio, l'Ambrosiaster, Ambrogio o Girolamo, in modo indiretto, ma non meno certo. Non abbiamo alcun testo relativo a tale obbligo del celibato per i primi tre secoli, ma non ne abbiamo neppure che ne neghino motivatamente l'esistenza. È questo il motivo per cui si può considerare come sufficientemente giustificata la rivendicazione dell'origine di una legge risalente agli apostoli, così come si esprime nel IV secolo.
II. Alcuni problemi particolari
A guisa di contro-prova, conviene esaminare alcuni documenti che sollevano un problema particolare.
Il Concilio di Elvira
Il primo è il 33° canone del Concilio di Elvira (inizio del IV sec.)
«È parsa cosa buona vietare in senso assoluto ai vescovi, ai presbiteri ed ai diaconi, come pure a tutti i chierici impegnati nel ministero dì avere relazioni (coniugali) con la propria moglie e di generare figli: se qualcuno lo fa, che sia escluso dallo stato clericale».
Al seguito di Funk, alcuni vi vogliono vedere il primo tentativo ufficiale per inaugurare una disciplina di continenza perfetta per il clero. Orbene, un esame attento del documento manifesta in tutta evidenza un contesto storico antecedente. In effetti, nulla è detto sulla libertà di usare del matrimonio che avrebbero avuto fino ad allora i chierici sposati. Considerata la natura dei requisiti richiesti, il silenzio dei legislatori su questo punto si comprende più facilmente nel caso in cui essi reiterino e confermino una pratica già in vigore, anziché nel senso contrario. Non si impone bruscamente a degli sposi la continenza perfetta, senza dire perché ciò che fino ad allora era permesso viene tutto d'un tratto vietato. Soprattutto, come in questo caso, se sono previste pene canoniche nei confronti di coloro che non ottemperano alle disposizioni impartite. Per contro, se si trattava di rimediare a delle infrazioni nei confronti di una regola già antica, si comprende come i vescovi spagnoli non abbiano provato il bisogno di giustificare un provvedimento tanto severo.
Il Concilio di Nicea
Il terzo canone disciplinare del concilio riguarda la castità dei chierici.
Il Concilio allargato ha vietato assolutamente ai vescovi, ai presbiteri, ai diaconi ed a tutti i membri del clero di tenere con sé una donna «co-introdotta», a meno che non si tratti della madre, di una sorella, di una zia o comunque di una persona superiore ad ogni sospetto.
Si noti innanzi tutto che il testo non menziona le spose tra le donne che i chierici possono ospitare nelle proprie case, che è già il segno che ciò che sta dietro la decisione di Nicea è senza dubbio la disciplina della continenza perfetta. Questo risulta ancora più plausibile se pensiamo che i primi nominati, i vescovi, vi sono sempre stati sottomessi, sia in Occidente sia in Oriente, senza eccezione alcuna. D'altronde, questo terzo canone del primo concilio ecumenico, le cui decisioni costituirono
"la regola fondamentale che servì da modello ai concili locali ed ecumenici successivi nelle disposizioni da essi adottate", è stato in seguito costantemente interpretato dai Papi e dai concili particolari nello stesso senso: mettere i vescovi, i presbiteri ed i diaconi, tenuti alla continenza perfetta, al riparo dalle tentazioni femminili e garantire la loro buona reputazione. Quando essi evocano il caso della sposa, è generalmente per autorizzarla a vivere con il marito ordinato, ma con l'esplicita condizione che anch'essa abbia fatto professione di continenza. Essa entrò così a far parte della categoria delle donne «superiori ad ogni sospetto».
Secondo lo storico greco Socrate, un curioso episodio si sarebbe verificato al concilio di Nicea. Il sinodo avrebbe voluto vietare ai vescovi, ai presbiteri ed ai diaconi di avere delle relazioni con le loro spose; su tale argomento un certo Pafnuzio, vescovo dell'Alta Tebaide, sarebbe intervenuto ed avrebbe dissuaso l'assemblea dal votare una legge simile, nuova - assicurò - e che avrebbe fatto torto alla Chiesa.
Questa storia oggi è generalmente considerata un falso per i seguenti motivi:
1.Socrate, che scrive la sua Stona Ecclesiastica nel 440, più di un secolo dopo il concilio di Nicea, non cita la sua fonte;
2.Tale racconto tardivo ha, d'altra parte, contro di sé la testimonianza di numerosi rappresentanti dell'epoca post-nicena. Per il periodo che va dal 325 al 440 non si trova in tutta la letteratura patristica alcuna allusione ad un intervento di Pafnuzio.
3.Il nome di Pafnuzio non figura tra i vescovi firmatari del Concilio di Nicea, come sostiene il ProfessorWinckelmann.
4.Infine, e soprattutto, l'aneddoto di Socrate non è per nulla in armonia con la prassi della Chiesa Greca a proposito del matrimonio dei chierici, contrariamente a ciò che a volte si è sostenuto. Nessun Concilio prima di Nicea ha mai autorizzato i vescovi ed i presbiteri a contrarre matrimonio, né ad usare del matrimonio che essi potevano avere contratto prima della loro ordinazione. Il Concilio Quininsesto, che al riguardo fisserà in modo definitivo la legislazione bizantina, conserverà saldamente la legge della continenza perfetta per il vescovo, mentre gli altri membri del clero, insigniti degli ordini maggiori, autorizzati a vivere con la loro moglie, saranno tenuti alla continenza temporanea. Gli Orientali non citano mai l'episodio di Pafnuzio. Il primo a menzionarlo sarà Matteo Blastares nel sec. XIV.
I chierici sposati nei primi secoli della Chiesa
La questione del matrimonio degli Apostoli
Un altro problema che merita di essere esaminato è quello sollevato dall'esistenza di numerosi chierici sposati nei primi secoli della Chiesa. Innanzi tutto la situazione di Pietro e forse di altri Apostoli sposati. Al momento in cui Cristo li chiamò alla sua sequela, essi lasciarono «tutto», compresa la propria moglie o hanno continuato come prima la propria vita coniugale? È una questione che ciascuno tende naturalmente a porsi oggi, lo abbiamo visto, e che è di un interesse evidente per verificare se la legge della continenza perfetta dei chierici risalga ad un'origine apostolica, come affermano i documenti del IV secolo. Quando i Padri africani del 390 assicurano di voler osservare «ciò che gli Apostoli hanno insegnato», essi si riferiscono non solo ad un insegnamento orale, ma prima di tutto all'esempio che, secondo loro, i Dodici consegnarono alla posterità. Questo esempio infatti ha svolto, indubbiamente, un ruolo determinante nella vita della Chiesa e nell'organizzazione della sua disciplina. Il Nuovo Testamento ci fornisce un solo esempio: il matrimonio di Pietro, quindi è alla Tradizione delle origini che occorre rivolgersi per avere ulteriori indicazioni.
L'indagine, condotta attraverso la letteratura cristiana dell'epoca, giunge alle conclusioni seguenti:
1) - All'infuori del caso di Pietro, non esiste alcuna tradizione generale e costante sulla quale ci si possa basare per affermare con certezza che qualche Apostolo abbia avuto moglie o figli né che fosse viceversa celibe. Esistono due eccezioni: l'apostolo Giovanni, che una tradizione quasi unanime riconosce essere stato vergine e l'apostolo Paolo, che la maggioranza dei Padri ritiene non sia mai stato sposato, o, al limite, che fosse vedovo.
2) - Riguardo al modo di vivere degli apostoli all'indomani della loro chiamata, i Padri affermano tutti, con la stessa sicurezza, che quelli che tra loro erano stati sposati, hanno poi interrotto la vita coniugale e praticato la continenza perfetta. Questo sorprendente consenso dei Padri su di un punto così importante costituisce un'ermeneutica autorevole applicabile ai passaggi del Vangelo ove si fa allusione al distacco dei discepoli: «Allora Pietro, prendendo la parola, disse: Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito...» (Mt 19, 27). «Ed egli rispose: in verità, vi dico: non c'è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il Regno di Dio, che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà» (Lc. 18, 29-30). Il sentimento comune dei Padri, senza eccezione, era dunque che gli apostoli fossero stati i primi a lasciare tutto, compresa eventualmente la loro moglie, per il Regno di Dio. Ritroviamo qui un'eco della predicazione ufficiale dei primi secoli nei grandi centri cristiani nonché un solido argomento ispirato alla tradizione.
Esempi di chierici sposati nei primi quattro secoli
Nei primi secoli della Chiesa, vi sono numerosissimi vescovi, presbiteri e diaconi sposati e con figli. Le comunità cristiane dell'epoca, che vivevano intensamente del ricordo degli apostoli, consideravano effettivamente un fatto normale l'ammissione al ministero sacerdotale di uomini sposati. Questo era considerato un omaggio alla santità del matrimonio ed allo stesso tempo alla scelta del Signore che aveva chiamato Pietro e, forse, altri uomini sposati a lasciare tutto per seguirlo. I documenti pubblici ed altri testi patristici che abbiamo letto attestano indirettamente l'esistenza di questi chierici monogami. Per di più, i racconti dell'epoca e l'epigrafia hanno conservato il ricordo di un buon numero di essi. Dal momento che la verità e le scienze storiche hanno tutto da guadagnare da una conoscenza esatta dei fatti, mi sono adoperato a redigere, attraverso le fonti disponibili, una lista dei chierici sposati che potesse offrire una base di riflessione sufficientemente ampia. Per quanto riguarda i primi sette secoli, duecentotrenta nomi di vescovi, presbiteri e diaconi sposati fanno ora parte del «dossier». Tra di loro ci sono molti personaggi illustri: il vescovo Antonio, di una Diocesi suburbicaria di Roma, che fu padre del Papa Damaso (366-384); il presbitero Giocondo, padre di Bonifacio I (416-419); il sacerdote Felice, padre di Felice III (483-492); il sacerdote Pietro, padre di Anastasio II (496-498); il sacerdote Giordano, padre di Agapito I (535-536); il Suddiacono Stefano, padre di Adeodato I (615-618) e il Vescovo Teodoro, originario di Gerusalemme, padre di Teodoro I(642-649). Papa Ormisda, nel VI secolo, ebbe per successore il proprio figlio Silverio (536-538) e SanGregorio Magno ci informa che il suo trisavolo era Felice III, a sua volta figlio di un sacerdote.
Citiamo ancora: Demetrio, Patriarca di Alessandria (il Vescovo di Origene); Gregorio l'illuminatore, primo "catholicos" armeno, e i suoi successori della dinastia gregoridea: i "catholicos" Verthanès, Nersès il Grande e Sahaq il Grande; Gregorio di Nissa; Gregorio di Nazianzo, detto l'Anziano; Sinesio di Cirene; Ilario di Poitiers; Paciano di Barcellona; Severo di Ravenna; Vittore di Numidia; Eucherio di Lione; Giuliano da Eclano; Sidoino Apollinare, vescovo di Clermont e molti altri.
L'esame dei singoli casi evidenzia l'importanza del concetto di celibato-continenza - o di continenza perfetta - in vista di una valutazione adeguata della realtà clerogamica alle origini della Chiesa. La questione alla quale deve cercare di rispondere uno storico attento in effetti è la seguente: questo chierico sposato ha continuato a convivere materialmente con la propria sposa anche dopo la propria ordinazione o è vissuto nella continenza perfetta? Ignorare o eludere la questione, come a volte si fa, equivale a sottovalutare un tratto essenziale della fisionomia del sacerdozio in questo periodo. La lista ci mostra che non esiste alcun esempio di chierico sposato, di cui si possa affermare che egli ha vissuto maritalmente con la propria sposa dopo l'ordinazione, in conformità con una consuetudine riconosciuta o con una disciplina ufficiale. Inoltre, i resoconti attestano che alcuni vissero nella continenza perfetta, accettando una disciplina ben stabilita, come nelle Gallie ed in Italia. In altri casi, come per la parte dell'Armenia in comunione con Roma, la storia dei "Catholicos" consente di supporlo fondatamente.
Sant'Evagrio
La disciplina delle Chiese d'Oriente
L'analisi dei documenti dei primi quattro secoli della Chiesa, relativi al celibato sacerdotale, offre alla sintesi delle basi sufficienti per fare del canone di Cartagine del 390 una chiave di interpretazione perfettamente sicura. Con l'affermazione: «Ciò che gli Apostoli hanno insegnato e che l'antichità ha sempre osservato, facciamo in modo di osservarlo anche noi», i Padri africani, noi possiamo già presumerlo, hanno espresso la verità della storia.
Ciononostante, ci rimane da esaminare un'ultima obiezione, poiché la tradizione delle Chiese orientali, che ammettono all'ordinazione degli uomini sposati ed in seguito chiedono loro solo una continenza periodica, crea evidentemente un problema. Il documento essenziale al riguardo è quello del Concilio Quinisesto, detto del Trullo, che resta - già è stato giustamente sottolineato - «l'ultima parola della disciplina ecclesiatica per la Chiesa greca». Ma anche la prima. Poiché prima di tale Concilio, celebrato alla fine del sec. VII a Costantinopoli, nessun sinodo orientale, occorre dirlo, votò una legge contraria alle norme sulla continenza perfetta dei membri del clero che hanno ricevuto gli ordini maggiori, così come li conosciamo dai testi che abbiamo incontrato nei secoli anteriori. L'Assemblea bizantina del 691 adottò sette canoni relativi al matrimonio ed alla continenza dei chierici, conservando più di un'usanza conforme a quelle della Chiesa Universale. Essi esigevano, in particolare, la separazione del vescovo sposato dalla sua sposa (ce. 12 e 48) e vietava ai presbiteri ed ai diaconi di contrarre matrimonio dopo la loro ordinazione (ce. 3 e 6). Tuttavia, sul punto della continenza richiesta ai presbiteri ed ai diaconi sposati, i Padri riuniti «sotto la Cupola» operano un'innovazione, autorizzando questi chierici a conservare la propria sposa e ad osservare unicamente una continenza periodica (c. 13).
Pur assicurando di volersi pienamente conformare «all'antica regola della stretta osservanza e della disciplina apostolica», essi mostrano, attraverso i riferimenti che essi stessi citano per giustificare la propria decisione, di allontanarsi dalla linea originaria. Due autorità tradizionali, in effetti, vengono invocate dal canone trullano: il Concilio di Cartagine del 390 ed il VI dei canoni cosiddetti "apostolici". A proposito di questi ultimi, il loro carattere apocrifo non consente di riconoscerli come una testimonianza sicura sulla disciplina. E a maggior ragione, tenendo conto di quanto si legge nel VI canone: «Che nessun vescovo, presbitero o diacono allontani la propria sposa con il pretesto della pietà...». Il Concilio Quinisesto parla solo dei presbiteri e dei diaconi, e tale intenzionale omissione lascia perplessi, D'altra parte, la citazione del canone di Cartagine, ispirata al Codex canonum Ecclesiae Africanae del 419, è stata anch'essa fatta oggetto di un emendamento. Laddove i Padri africani dicono: «Conviene che i santi vescovi e i presbiteri di Dio, come pure i leviti..osservino una continenza perfetta», i Bizantini correggono, e decidono che «anche i suddiaconi...i diaconi ed i presbiteri si astengano dalle loro mogli nei periodi che sono loro particolarmente (assegnati) " (kata tous idious orous). Così, la menzione dei vescovi è scomparsa e la continenza richiesta ai chierici «che toccano i santi misteri», è solo temporanea. Si tratta di un errore o di un travisamento? In ogni caso, la testimonianza principale sulla quale si fonda il Concilio Trullano per giustificare l'usanza del matrimonio di presbiteri, diaconi e suddiaconi, è in effetti un documento conciliare che, in un modo incontestabile, esige da costoro la continenza perfetta e fa risalire quest' obbligo alle origini della Chiesa.
L'oggettività storica non sembra, dunque, potersi fondare sulla certezza che sarebbe necessaria l'ipotesi secondo la quale le Chiese d'Oriente dipenderebbero da una tradizione apostolica, mentre la disciplina della continenza perfetta nella Chiesa Latina sarebbe il frutto di un'evoluzione tardiva. Tutto indica piuttosto il contrario: è la Chiesa Latina che ha conservato, per quanto concerne la continenza perfetta per i vescovi, i presbiteri e i diaconi, la tradizione della Chiesa indivisa, inaugurata dagli apostoli, mentre i vescovi orientali della fine del sec. VII, a motivo di circostanze particolari, se ne sono allontanati ed hanno orientato il futuro del loro clero in una direzione nuova.
Nonostante le loro forzate interpretazioni del canone africano, i Padri bizantini del 691 vi si riferiscono come ad fondamento essenziale per poter risalire ai tempi apostolici, dimostrando in tal modo tutta l'importanza del Concilio di Cartagine del 390 per la storia della legge sulla continenza sacerdotale.
III. Tentativo di sintesi storica
I documenti presentati in precedenza formano la parte analitica del dossier sulle origini del celibato sacerdotale. Essi consentono di intravedere la sintesi, poiché la ricostruzione di una storia della continenza perfetta del clero, che ha il suo punto di partenza il tempo degli apostoli, sembra già come il risultato logico di una serie di testimonianze convergenti.
Per avviarsi con sicurezza sulla via della sintesi storica, occorre anzitutto richiamarsi ad un punto fondamentale nello sviluppo del cristianesimo, vale a dire l'esistenza della Tradizione orale. Essa è attestata in due lettere di San Paolo: «Fratelli, state saldi e mantenete le tradizioni che avete appreso così dalla nostra parola come dalla nostra lettera», scrive ai Tessa-lonicesi (2 Thes. 2,15); ed ai cristiani di Corinto: «Vi lodo poi perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse» (1 Cor. 11,2). I Padri si riferiscono spesso a queste parole di San Paolo e ritengono che restare fedeli alle tradizioni ricevute «dalla viva voce» equivalga a rimanere negli ordinamenti apostolici.
Tenerne conto non significa certo non essere fedeli al metodo storico, come temono certuni, per i quali solo i documenti scritti fanno fede; significa, al contrario, dotare questo metodo dello strumento di ricerca più appropriato possibile al suo oggetto per i primi secoli del cristianesimo. Sottovalutarli, invece, significherebbe privarsi di uno strumento di conoscenza utile - e forse unico - grazie al quale si può conoscere ciò che è stato vissuto nella Chiesa prima di essere detto, e soprattutto scritto.
Notiamo pure che la tradizione orale sul celibato, alla quale ci rinviano le testimonianze del IV secolo e della Chiesa primitiva nel suo insieme è una delle tradizioni che si sono maggiormente fondate sulle ragioni teologiche. Effettivamente, le ragioni invocate per giustificare la disciplina della continenza perfetta per i chierici che hanno ricevuto gli ordini maggiori, sono, oltre alla fedeltà alla tradizione, delle considerazioni che riguardano la dottrina: funzione di intercessione del ministero sacerdotale, rapporto tra la continenza e l'efficacia della preghiera, superiorità della verginità e della continenza sul matrimonio. Su questi diversi punti, la disciplina bizantina che viene definita al Concilio Trullano del 691 è essa stessa in perfetta consonanza con tutto il pensiero patristico.
Tale tradizione orale sul celibato sacerdotale è realmente di origine apostolica, come mostrano i nostri documenti?
Il principio ermeneutico più appropriato per rispondere alla questione è quello enunciato da Sant'Agostino nella controversia con i Donatisti:
«Ciò che viene osservato da tutta la Chiesa ed è sempre stato mantenuto, senza essere stato stabilito dai concili, è considerato a giustissimo titolo come qualcosa che può essere stato trasmesso solo dall'autorità apostolica».
Il valore fondamentale di questo principio si collega essenzialmente al fatto che la fedeltà verso la tradizione delle origini costituisce la regola della vita della Chiesa dei primi secoli. La tendenza generale dell'epoca patristica è di mantenere e di conservare il deposito trasmesso, e non di innovare; al punto tale che gli stessi eretici cercavano di coprire le loro novità con il manto degli apostoli. Formulando il suo principio, il Vescovo di Ippona riconosce che questo orientamento garantisce la possibilità di risalire alle sorgenti apostoliche, precisando allo stesso tempo le condizioni necessarie per eliminare i rischi di errori, che sono queste due: è necessario che un punto di dottrina o di disciplina «sia stato osservato da tutta la Chiesa e che sia stato sempre mantenuto».
La parte sintetica del nostro studio consiste, perciò, nel verificare in quale misura si può affermare che la disciplina della contenenza perfetta dei chierici, attestata dai documenti a partire dal IV secolo, sia stata "osservata da tutta la Chiesa" e se essa sia stata "sempre mantenuta" o meno.
1 - La tradizione del celibato-continenza dei chierici è stata osservata da tutta la Chiesa? Da un punto di vista storico possiamo con la massima sicurezza rispondere di sì, poiché vediamo degli uomini, che godono di una grande autorità morale ed intellettuale farsi garanti per tutta la Chiesa del loro tempo: non solo un Siriaco ed un Girolamo, ma anche molti altri con loro: Eusebio di Cesarea, Cirillo di Gerusalemme, Efrem, Epifanio, Ambrosio, l'Ambrosiaster ed i vescovi di Cartagine. In senso contrario, nessuna voce autorevole oppone a loro una sicura smentita. Più chiaramente ancora, abbiamo le testimonianze delle Chiese apostoliche ed, innanzi tutto, quella della Chiesa di Roma, la quale, attraverso le tre Decretali che ci sono note, è di un peso determinante. È a loro riguardo che Bellarmino non esita a dire: «Si deve credere senza ombra di dubbio che una cosa deriva dalla tradizione apostolica, se essa è ritenuta come tale nelle Chiese dove si conserva una successione senza fratture e continua a partire dagli apostoli». Ma ci sono anche le Chiese d'Oriente e d'Egitto, di cui parla Girolamo, quelle d'Africa, di Spagna e delle Gallie, che testimoniano tutte nello stesso senso. Anche su questo punto, nessun concilio in comunione con Roma attesta una tradizione diversa.
2 - Osservata da tutta la Chiesa dei primi secoli, la tradizione del celibato-continenza del clero è sempre stata mantenuta? Notiamo, anzitutto, che nel tempo che decorre dalle origini della Chiesa al periodo in cui vediamo la disciplina «osservata da tutta la Chiesa», nessuna decisione emanata da un'istanza gerarchica legittima prova l'esistenza di una pratica contraria. Effettivamente, i documenti autentici del concilio ecumenico di Nicea, contrariamente a ciò che la leggenda di Pafnuzio ha spesso fatto credere, non contengono alcuna decisione che consenta di supporre che la legge del celibato-continenza non esistesse prima del 325. D'altronde, nessuna Chiesa apostolica, né in Oriente né in Occidente, durante i primi secoli della Chiesa, mette in campo una tradizione diversa per contestare le Decretali di Siriaco (mentre la questione della data della Pasqua, ad esempio, diede luogo ad una celebre disputa). Infine è opportuno verificare se la disciplina del celibato-continenza non venga contraddetta dai testi della Scrittura, nel qual caso sarebbe vano pretendere di affermare che essa sia sempre stata mantenuta. Ora, non solo i testi scritturistici, che esortano alla continenza «per il Regno dei Cieli» manifestano una reale connessione tra il celibato ed il sacerdozio ministeriale, ma la consegna dell'Apostolo Paolo dell'«Unius uxoris virum», interpretata in modo chiaro dal Magistero della Chiesa nella persona di Siriaco e dei suoi successori come una norma apostolica destinata ad assicurare la continenza futura dei vescovi e dei diaconi (propter continentiam futuram) segnala, fin dalle origini della Chiesa, la comparsa di tale disciplina.
Sembra che coesista l'insieme delle condizioni, pertanto, per poter ragionevolmente affermare che la disciplina del celibato-continenza per i membri del Clero che avevano ricevuto gli ordini maggiori veniva, nei primi secoli, «osservata da tutta la chiesa» ed era «sempre stata mantenuta». Il principio agostiniano che permette di riconoscere se una tradizione è veramente di origine apostolica, trova qui - ne sono convinto - una adeguata e giustificata applicazione.
Come conclusione, vorrei sottolineare che la motivazione teologica fondamentale invocata nella letteratura patristica dei primi secoli per giustificare la disciplina della continenza perfetta del clero è la preghiera di intercessione.
Il concilio di Cartagine del 390 la esprime in una formula precisa. Se i vescovi, i presbiteri e i diaconi si devono astenere dai rapporti coniugali, è «per potere ottenere in tutta semplicità quanto essi chiedono a Dio» {quo possint quod a Deo postulant impetrare). Quello che vale loro questo posto privilegiato nel dialogo con Dio, è che essi sono, sempre secondo il medesimo Concilio, «qui sacramentis inserviunt» (coloro che sono a servizio dei sacramenti divini), «qui sacramenta contrectant» (coloro che sono a contatto con i sacri misteri), «qui altari deserviunt» (coloro che sono incaricati del servizio dell'Altare). Tali espressioni qualificano indistintamente i tre gradi superiori dello stato clericale; esse indicano che un carattere comune comporta per tutti gli stessi obblighi e che il servizio dei sacramenta e dell'altare, vale a dire il servizio dell'Eucarestia, è il fondamento specifico della continenza che è loro richiesta. La liturgia eucaristica fa di colui che è al servizio dei misteri divini un mediatore, il quale, tramite la sua unione intima con l'unico Mediatore, - per lpsum, cum Ipso et in Ipso -, presenta a Dio le richieste degli uomini, suoi fratelli. A tale titolo, egli deve assicurarsi le condizioni richieste per un'efficace preghiera di intercessione, e la castità perfetta, ad imitazione di Cristo, è per lui garanzia di essere esaudito. Il commento del canone del concilio di Cartagine del 390 da parte del grande canonista bizantino Jean Zonaras, del sec. XII, sottolineerà perfettamente questa fondamentale idea della patristica.
«Costoro sono infatti intercessori tra Dio e gli uomini e, stabilendo un legame tra la divinità ed il resto dei fedeli, chiedono per il mondo intero la salute e la pace. Perciò, se essi si esercitano, come dice il canone, nella pratica di tutte le virtù e dialogano cosi nella massima fiducia con Dio, otterranno tutto ciò che avranno chiesto. Ma se questi stessi uomini si privano per colpa di loro stessi della libertà di parola, in che modo potranno dedicarsi al loro compito di intercessori a vantaggio degli altri?».
La motivazione teologica centrale del celibato sacerdotale è quindi direttamente ispirata alla lettera agli Ebrei. Mostrando nel ministero dell'Eucarestia un mediatore al servizio degli uomini, chiamato a tale titolo ad una santità di vita caratterizzata dalla castità perfetta, essa colloca in una giusta prospettiva le altre ragioni invocate all'epoca per giustificare il celibato-continenza, in particolare il dovere della paternità spirituale (che sostituisce quello della generazione carnale), la necessità di rinunciare alla «carne» per avvicinare la "santità" di Dio, l'esempio da dare ai vergini ed ai continenti e, in una certa misura, la disponibilità per gli incarichi apostolici.
Si può misurare in tal modo come sia inesatto parlare di «continenza cultuale» o di «purezza cultuale», come è stato fatto troppo spesso per tentare di svalutare il motivo fondante della legge del celibato, fornendogli delle origini di qualità sospetta 33. Tali espressioni sono cariche di risonanze pagane o filosofiche (soprattutto stoiche), che non sono in consonanza con lo spirito del cristianesimo. In realtà è la liturgia, e la liturgia eucaristica soprattutto, che, attualizzando il mistero pasquale, conduce il popolo cristiano, e ad un titolo speciale e permanente, il «servitore dell'altare», ad una identificazione al Cristo che prega e si offre al Padre per la salvezza del mondo. Nella celebrazione eucaristica è presente Cristo stesso; Dio-uomo che associa i suoi ministri alla sua persona ed al suo sacrificio, e non divinità impersonale o astratta generatrice di tabù irrazionali. È necessario dirlo chiaramente: c'è tanta differenza tra la «continenza cultuale» e la castità perfetta dei presbiteri di Gesù Cristo quanta può essercene tra i culti pagani, per quanto possano essere rispettabili, ed il sacrificio della Croce.
Nel fare riferimento agli apostoli come ai promotori della tradizione del celibato ecclesiastico, i Padri del IV secolo ci assicurano, inoltre, che questa tradizione è in armonia con il Vangelo, ben lungi dall'essergli estranea come vorrebbero, invece, i suoi detrattori. La storia e la teologia del sacerdozio sono uno nell'affermare che la continenza dei sacerdoti di Gesù Cristo si modella su quella dell'unico Sacerdote della Nuova Alleanza. È attraverso l'imitazione di Gesù Cristo e perché tale imitazione si perpetui nei loro successori, che gli apostoli hanno vissuto ed insegnato con il loro esempio la chiamata a lasciare tutto per seguirLo e diventare così strettamente associati alla sua mediazione redentrice. Infatti, ciò che è stato detto a proposito di Cristo nel Nuovo Testamento è stato sempre compreso come detto anche dei suoi Sacerdoti: «Ogni sommo sacerdote, scelto fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati» (Eb 5,1).
Nel corso dei secoli, la Chiesa non ha mai perso di vista questa linea essenziale, anche se l'accento si è spostato, a volte, su delle motivazioni rela-
33 Cf. ad esempio B. Verkamp, Cultic Purity and the Law of Celibacy, in Review for
Religious (30) n. 2, March 1971, p. 215.
Christian Cochini,
tivamente secondarie, sebbene di un'importanza del tutto incontestabile, e nonostante che si sia potuta manifestare da parte di qualcuno la tendenza a ritornare all'Antico Testamento, «funzionalizzando» il servizio sacerdotale e dimenticando che, investendo la sua stessa persona, Cristo ha «portato ogni novità» 34. Infatti, falseremmo pesantemente il senso dell"«a fortiori» utilizzato da Siriaco e dagli altri autori patristici, quando spiegano il passaggio dalla continenza temporanea dei leviti alla continenza perpetua dei sacerdoti della Nuova Alleanza, se vi vedessimo soltanto un salto quantitativo, mentre l'Eucarestia realizza un cambiamento radicale, che fa della castità dei suoi ministri una novità anch'essa senza precedenti.
L'identità del sacerdote, questo mistero che supera l'uomo e supera lo stesso sacerdote, non può essere espresso in modo migliore che con le parole della lettera agli Ebrei, che è servita da motivazione teologica alla legge del celibato fin dalle origini della Chiesa e che è stata ancora recentemente ricordata da Papa Giovanni Paolo II:
Fin dall'inizio, il Presbitero, come scrive l'autore della lettera agli Ebrei, «scelto fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio» (cf Eb. 5, 1). Ecco la migliore definizione dell'identità del Presbitero. Ogni Presbitero, secondo i doni che gli sono stati accordati dal Creatore, può servire Dio in differenti modi ed occuparsi, attraverso il suo ministero, di diversi settori della vita umana, avvicinandoli a Dio. Egli resta tuttavia, e deve restare tale, un uomo scelto tra gli altri e «costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio»35.
Christian Cochini, s. j.
*
34 Non si può fare a meno di richiamare qui le splendide pagine di P. de Lubac sul rapporto tra i due Testamenti.- «Perché l'Antico Testamento potesse essere compreso nel suo senso "vero", nel suo senso "assoluto", era a tutti gli effetti necessario che i tempi cambiassero che il Cristo venisse. Solamente lui poteva "infrangere il misterioso silenzio degli enigmi profetici"; solo lui poteva aprire il libro chiuso dai sette sigilli...» (Catholicisme, pp. 144s).
33 Discorso per il XXX anniversario della «Presbyterirum Ordinis», 27 ottobre 1995, Osservatore Romano.
*