domenica 20 luglio 2014

Il prete postconconciliare va in Paradiso.

Il prete postconconciliare va in Paradiso.




Se facciamo il verso al famoso film con G.M. Volonté (La classe operaia va in paradiso, 1971), è perché ce lo suggerisce la lettura di un articolo apparso sull'Osservatore romano proprio nel giorno di apertura dell'Anno sacerdotale, scritto tra l'altro da un consultore di congregazione vaticana, dove si presenta un modello alternativo, e inevitabilmente conflittuale, rispetto a quello che il Papa propone ai sacerdoti, il Santo Curato d'Ars. Riportiamo l'articolo in calce e invitiamo anche a leggere il gustosissimo commento in proposito di Fides et forma.

Come anche risalta dalla lettera papale di indizione dell'Anno Sacerdotale, e in particolare dagli stralci che ne abbiamo pubblicato ieri, del Curato d'Ars si mettono soprattutto in risalto (e si offre come esempio ai preti) la pietà eucaristica, lo zelo nella confessione, l'esaltazione della funzione liturgica e sacramentale del prete ("Dio gli obbedisce: egli pronuncia due parole e Nostro Signore scende dal cielo alla sua voce e si rinchiude in una piccola ostia"; e ancora: "Tolto il sacramento dell'Ordine, noi non avremmo il Signore. Chi lo ha riposto là in quel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha accolto la vostra anima al primo entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la preparerà a comparire innanzi a Dio, lavandola per l'ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il sacerdote, sempre il sacerdote. E se quest'anima viene a morire [per il peccato], chi la risusciterà, chi le renderà la calma e la pace? Ancora il sacerdote... Dopo Dio, il sacerdote è tutto!"; citazioni del Curato d'Ars riportate nella lettera del Papa). 

Tutte cose, diciamolo subito, che nel post-concilio sono rimaste in ombra rispetto ad una funzione del prete più "sociale": animatore della parrocchia, guida di gruppi, catalizzatore di iniziative benefiche e di volontariato, predicatore dell'amore di Dio per i fratelli. Non, beninteso, che una cosa escluda l'altra (anche il curato d'Ars seguiva La Providence, un'opera di beneficienza). Ma è sotto gli occhi di tutti che, se dei due elementi uno è rimasto in ombra, è giusto puntare i fari su quest'ultimo per riequilibrar le cose.

Ma evidentemente questo non a tutti va bene. Addirittura nell'Osservatore romano, appare un'apologia del prete post-conciliare. Anche lui è santo, dice don Cabra che ha scritto l'articolo, "santità che si potrebbe chiamare della difficile e costosa fedeltà creativa, dell'inserimento del profeta sul sacerdote". Creativa? Profetica? Certo: anziché passare 16 ore in confessionale, o offrire se stesso e le sue penitenze in luogo di quelle dei peccatori riconciliati, come faceva il santo preconciliare, il santo moderno "propone anche canti nuovi, applica le riforme, spiega il meglio possibile la Parola, ridimensiona devozioni popolari cercando di sintonizzarle sullo spirito della liturgia". E' vero che, continua con onestà l'articolista, "col passare del tempo vede che alcuni non capiscono e i giovani non s'interessano". Ma non importa: il santo prete postconciliare "fa un atto di fede nello Spirito Santo che "ha parlato per mezzo del Concilio", sapendo che il buon seme darà frutto a suo tempo, dove e come il Padrone della messe vorrà". Se le chiese si svuotano, benché ora dotate di riscaldamento e altoparlanti, bisogna andare avanti. Boia chi molla! Chi si ferma è perduto! Indietro non si torna! Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi, se muoio vendicatemi! "Capisce che la Parola ha il potere di edificare lui personalmente e la sua comunità", una Parola "che ritorna dall'esilio" dei secoli bui preconciliari. Solo che ci vorrebbero superiori "più creativi", meno attaccati alle vecchie regolette. Impara, il nostro santo moderno, con l'andare degli anni, ad agire "senza farsi forte della verità che ha in mano, brandendola come un'arma, consapevole che la prima verità è la carità che non colpevolizza, ma invita a ritornare al Dio della pace". E fa sua la "scelta per i poveri", così "decide in cuor suo di non chiudere mai la porta ai poveri, di denunciare le situazioni di sfruttamento che lui vede, anche a costo di vedere ridotte le offerte".

E' santo questo prete? Molto probabilmente sì, perché la santità non ha come requisito necessario l'intelligenza (anche se...). Basta la buona intenzione, e quella non va messa in discussione nel nostro prete-modello. Ma se tutto lo sbattersi per i "canti nuovi"; se 'sto "annuncio della Parola" (che non s'è mai ben capito che cosa è, se non prediche interminabili che ti lasciano come ti trovano); se la brillante idea di "ridimensionare le devozioni popolari" per "sintonizzarle con lo spirito della liturgia"; se tutto questo, anziché condurre a "una fiorente primavera, segno della rinnovata giovinezza della Chiesa, scossa da una nuova Pentecoste" porta invece al "tardo autunno, foriero di venti freddi e inospitali"; se si deve amaramente constatare che "con grande sorpresa le chiese, invece di riempirsi, cominciarono a svuotarsi"; ebbene, non era tempo che il nostro santo prete facesse uso di quei doni dello Spirito Santo che si chiamano consiglio ed intelletto? Ed iniziasse a dubitare che la strada imboccata era forse sbagliata, era un vicolo cieco; anzi peggio: una china pericolosa (perché il baratro in agguato era celato) che stava conducendo alla perdita del gregge, sbocconcellato a vista d'occhio dai lupi?

E la "scelta per i poveri", che cosa era? Porsi davvero a servizio dei bisognosi, o piuttosto lasciare le "sacrestie" (e insieme a quelle i confessionali, le adorazioni eucaristiche, le trionfalistiche processioni, le superate devozioni popolari) per diventare un tribuno in politica, cosa che solo il beato ottimismo dei tempi di Paolo VI poteva definire "la forma più alta della carità"? Ma poi, era veramente post-conciliare questa opzione per i poveri? Per secoli ai poveri non era dato altro sollievo che la beneficienza e l'assistenza della Chiesa, dei suoi ordini religiosi, delle sue confraternite. Non era, quella, scelta per i poveri? O forse occorreva attendere l'era delle mutue, delle ONG e ONLUS laiche, del welfare State, per accorgersi che la missione principale della Chiesa è quella socio-assistenziale, proprio ora che, essendoci chi lo fa meglio e con maggiori mezzi, il compito, pur importantissimo, appare meno essenziale di prima, quando nessun altro lo svolgeva e quando c'eran più preti in giro?

Il prete post-conciliare - ci riferiamo al tipo tratteggiato dall'articolista, non a quei sacerdoti più intelligenti e duttili, che si barcamenano cercando di salvare il salvabile senza lasciarsi sopraffare dalle ideologie dello "Spiritodelvaticanosecondo" - andrà dunque in Paradiso.
Ma spesso ci andrà a dispetto, e non per merito, di quello che ha fatto.



di Piergiordano Cabra
Consultore della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica

Quando si parla di santità sacerdotale il pensiero va spontaneamente alle grandi figure del passato, preferibilmente dell'Ottocento, illustrato da eminenti personalità di preti che si sono imposti al loro tempo, suscitando ammirazione e stupore per il loro modo di porsi e d'incidere nella società. Difficilmente il pensiero va al prete degli anni del postconcilio, tanto scossi da terremoti culturali e sociali, oltre che caratterizzati da un processo di ridefinizione della figura del prete, non privo d'incertezze teologiche e operative. Eppure la seconda metà del secolo scorso può essere caratterizzata da una "nuvola di testimoni" che sono vissuti nella tensione tra vecchio e nuovo, tra lealtà alla Chiesa e amore delle necessità del proprio gregge, tra attese e realizzazioni, tra risultati promessi e delusioni pratiche. Vorremmo qui rendere onore a questi "santi anonimi" senza riconoscimenti e senza aureola, d'una santità che si potrebbe chiamare della difficile e costosa fedeltà creativa, dell'inserimento del profeta sul sacerdote. Quella che segue può essere la storia di uno dei tanti preti che in questi decenni hanno portato il peso del loro ministero, con una incrollabile fedeltà a Cristo e la speranza di non restarne delusi.

Il Vaticano II aveva aperto il cuore a grandi speranze. Si prevedeva una fiorente primavera, segno della rinnovata giovinezza della Chiesa, scossa da una nuova Pentecoste. Il clima di entusiasmo creato dal concilio era tale che si attendeva un balzo in avanti della Chiesa nel cuore degli uomini e nella società. Con grande sorpresa le chiese, invece di riempirsi, cominciarono a svuotarsi e alla fugace primavera sopraggiunse il tardo autunno, foriero di venti freddi e inospitali. E qui comincia il calvario del prete solo con la sua gente. Gente che guarda sempre meno a lui, attratta da altri interessi, sommersa in un mare d'informazioni che intaccano la sua parola. Cominciano i dibattiti sul Vaticano II, con la domanda spesso presente, anche se non sempre detta: di chi è la colpa? Di chi ne frena l'applicazione o di chi ha osato troppo? C'è chi si schiera da una parte e chi dall'altra. Il prete santo prima esita, valutando e soffrendo e poi fa le sue scelte, tenendo fermo il dettato evangelico del "non giudicare per non essere giudicati" e del primato della carità che gl'impedisce di demonizzare chi non la pensa come lui. E, soprattutto, fa un atto di fede nello Spirito Santo che "ha parlato per mezzo del Concilio", sapendo che il buon seme darà frutto a suo tempo, dove e come il Padrone della messe vorrà. È la santità del lavorare non tanto per ottenere risultati, ma per essere fedeli al proprio compito. Il gruppo di fedelissimi, che prima si riunivano con lui per ascoltare la sua parola e le direttive, ha preso coscienza della propria dignità di battezzati ed è incoraggiato a essere parte viva del popolo di Dio. Si formano i vari consigli pastorali ove i laici prendono la parola e partecipano, a volte con poca, altre con troppa convinzione. Dal parlare all'ascoltare il passo non è facile, anche perché talvolta c'è la contestazione, ci sono giudizi sommari sulla Chiesa, ci sono rivendicazioni d'autonomia insolite e da valutare. Il santo prete non abolisce o snobba il tutto, aspettando solo che la bufera passi per rialzare la testa, ma medita sulla Chiesa come comunione e decide di continuare ad ascoltare, ma anche a parlare, con pazienza e con coraggio, sapendo che la sua comunità si costruisce con il contributo di tutti, rendendosi conto che deve molto imparare, come pure che ha qualche cosa da insegnare. Comincia qui una particolare devozione allo Spirito Santo, Spirito del discernimento, devozione che caratterizza la spiritualità del santo prete. Con la fiducia nello Spirito, si dedica a costruire la sua comunità come fraternità. 

Nella costruzione della comunità la prima attenzione è data alla Parola di Dio, che "ritorna dall'esilio", e alla liturgia che diventaculmen et fons della sua azione pastorale. Grande è stato l'entusiasmo per l'introduzione delle lingue correnti nella liturgia e nella proclamazione della Parola. Ma dopo le prime incuriosite e attente assemblee, a poco a poco cala l'interesse. La Parola è intesa nella propria lingua, ma la comprensione non è così ovvia. Il santo prete sa che deve lavorare in profondità e si dedica ad acquisire competenza circa la liturgia e l'esegesi. Si mette ad approfondire e a formare il suo popolo. Propone anche canti nuovi, applica le riforme, spiega il meglio possibile la Parola, ridimensiona devozioni popolari cercando di sintonizzarle sullo spirito della liturgia. Ma col passare del tempo vede che alcuni non capiscono e i giovani non s'interessano. Le assemblee rinnovate con grande cura si assottigliano, anche se le chiese vengono riscaldate, l'impianto d'altoparlanti migliorato, l'edificio restaurato, talvolta anche con eccellente gusto [avverbio scelto bene: talvolta significa raramente. Poiché negli altri casi, ossia spesso, il gusto è pessimo, e i guasti architettonici scriteriati]. Il santo prete condivide il disagio con i suoi confratelli, ma li esorta a non cadere nel pessimismo. Continua la sua opera di formazione, a partire dalla Parola di Dio, meditata nella preghiera e annunciata. Capisce che la Parola ha il potere di edificare lui personalmente e la sua comunità e a essa dedica la parte più tranquilla del suo tempo, dove può "contemplare" i fatti di ogni giorno alla luce della Parola. È convinto che la celebrazione dell'Eucaristia è il cuore della sua vita e della sua comunità e, anche se deve correre in più luoghi moltiplicando le celebrazioni, vigila per non lasciarsi travolgere dalla routine.

C'è stato anche un periodo in cui la politica ha assunto un vestito messianico: "Tutto è politica", si diceva nelle cattedre e nelle piazze. "La politica è la forma più alta della carità", aveva affermato Paolo VI. Alcuni confratelli abbracciavano con entusiasmo la politica per risolvere tanti problemi, a partire da quello dei poveri. In questo trionfo della politica il nostro santo prete si sentiva piuttosto a disagio: la riforma delle strutture, pur necessaria, non pareva talvolta sostitutiva della riforma del cuore richiesta dal Signore? I partiti eccedevano nelle loro richieste di fare della Chiesa una base elettorale? E chi serviva meglio i poveri? E lui, povero prete, non rischiava d'essere coinvolto nelle tenzoni politiche, perdendo la credibilità e l'affetto di parte del suo gregge, oltre che la difficile mitezza evangelica? E come sottrarsi alla tentazione d'appoggiare un rispettabile candidato per riaverne dei vantaggi? Siccome ogni soluzione - anche quella di non interessarsi di politica - era considerata politica, il santo prete pensa che fosse meglio tenere un profilo basso, intervenendo il minimo richiesto, concentrandosi sul Vangelo e predicando sull'esigenze di conversione nei confronti dei poveri. 

E proprio nel momento in cui si parla molto della "scelta dei poveri" e vede alcuni che si servono dei poveri, decide in cuor suo di non chiudere mai la porta ai poveri, di denunciare le situazioni di sfruttamento che lui vede, anche a costo di vedere ridotte le offerte, e soprattutto, di fare una scelta di vita sobria, essenziale, senza concedersi di più di quello che la condizione medio-bassa della sua gente poteva permettersi. Con qualche eccezione: i libri, costosi ma necessari e qualche viaggio, distensivo e utile, specie nelle missioni, per rendersi conto del mondo che cambia e delle nuove prospettive per il Vangelo.

Tuttavia, mentre s'accorge che s'affermano nuovi modelli di comportamento e nuovi modi di pensare, per lo più in rottura col passato, ecco scoppiare delle bombe dirompenti quali l'introduzione del divorzio e la liberalizzazione dell'aborto. E proprio quando alcuni teologi apparivano propensi a chiudere il purgatorio, il santo prete constata che il purgatorio esiste, specie quando si siede in confessionale, dove deve mediare tra la dura norma e la fragilità del praticante, tra la fedeltà alla dottrina della Chiesa e una diversa sensibilità del penitente, tra la misericordia di Dio pronta a perdonare e chi esige invece la legittimazione dei propri comportamenti. Il santo prete si trova lacerato interiormente constatando il fossato che s'allarga tra la legge e la realtà, ma persevera invocando lo Spirito di discernimento per le situazioni inedite, prendendo coscienza che suo compito non è abbassare le esigenze dell'essere cristiano, ma di aiutare a trovare vie nuove per esserlo nel nostro tempo. E poi ci sono i momenti della solitudine, che pesa come un macigno, che logora interiormente. 
Momenti in cui si sente solo con se stesso, bisognoso di affetto e di stima, solo con il Signore che tace e gli altri che non comprendono, con il suo celibato apparentemente così poco stimato, ferito dalle debolezze di alcuni confratelli, prontamente sbandierate dai media, che gettano un corrosivo sospetto su tutto il clero. È il suo Getsemani, accanto a Gesù abbandonato. 

Si sentirà sollevato quando Papa Benedetto XVI rilancerà il purgatorio, nella consapevolezza d'averlo anticipato in parte nelle ore, a tratti belle, a tratti difficili, del confessionale. Ma anche nelle ore lunghe e oscure della sua solitudine, sulle quali aleggiava scoramento e depressione, ma dalle quali esce provato e purificato. La sua dedizione pastorale ha costruito una comunità di credenti, capaci di resistere all'erosione del secolarismo, che investe la maggioranza, che condiziona la mentalità generale.

Secolarismo per lui non è un neutro concetto sociologico, ma sono famiglie che si disgregano, libertà di costumi, desiderio d'apparire, ricerca del denaro facile, pratica irrilevanza della predicazione della Chiesa in molti settori [bella frase]. La valanga sembra inarrestabile. Gli sembra persino che il cristianesimo non sia in grado di reggere agli assalti sempre più insistenti sferrati da molte parti. A volte pensa d'essere di fronte al mistero del male che si manifesta con tutte le sue capacità di seduzione e di inganno. Quasi ne ha paura perché si sente talvolta disarmato di fronte al dispiegamento di forze al servizio di un piano oscuro. Ma poi, nel contatto orante con la Parola, trova che il suo Signore per primo ha lottato contro il potere delle tenebre, ha aperto gli occhi ai suoi discepoli invitandoli alla vigilanza, promettendo anche lo Spirito, che infonde il coraggio nella lotta e forza nelle tribolazioni. Il santo prete sente che deve perseverare nella preghiera, anche quando è arida e vuota, perché sa che qui riceve la forza dello Spirito assieme alla sua consolazione. Non si legge negli Atti degli Apostoli che i discepoli erano "pieni di gioia e di Spirito Santo" proprio in mezzo alle difficoltà? Così coltiva la sua perseveranza, riscoprendo pagine dell'antica ascetica, pensando ai molti che guardano alla sua fedeltà come punto di riferimento alla sempre più difficile loro fedeltà. Per questo non s'amareggia né amareggia con lamentose filippiche: sa che il mondo è saldamente nelle mani di Dio, che sta preparando qualche cosa di nuovo. A lui, suo umile servo, tocca annunciare la lieta novella che Dio non abbandona il suo popolo. Dette così le cose, appaiono facili, persino edificanti. Ma quante ne ha tentate il nostro santo prete, quante delusioni, quante tristi sorprese. Tuttavia, ha imparato a lamentarsi più col Signore che con i fedeli, ha acuito lo sguardo sul nuovo che sta germinando, guarda ad altri luoghi dove il Vangelo avanza, apre il suo cuore ai poveri del Terzo mondo, guarda con simpatia le iniziative riuscite, anche se non promosse da lui. Gioisce nel vedere il bene fatto dai movimenti, sebbene non si senta di aderirvi. Non dubita delle sue responsabilità di pastore e non deflette dall'annunciare la verità tutta intera, ma lo fa con carità e delicatezza verso le persone, senza farsi forte della verità che ha in mano, brandendola come un'arma, consapevole che la prima verità è la carità che non colpevolizza, ma invita a ritornare al Dio della pace. Si rende conto, con l'andare degli anni, che è più evangelico annunciare la bellezza e la grandezza dell'amore di Dio, che mortificare l'uomo fragile. Lo aiutano in questo i santi pastori che, innamorati dell'Amore, a questo Amore hanno saputo condurre persone sperdute nelle vie del mondo. Egli si sente piccolo e grande, servo e solo servo, ma del Signore del tutto a cui tutto fa ritorno. Piccolo e grande, annunciatore di un mondo che non muore. Piccolo e grande, come Maria, che è diventata per lui, col passare degli anni, "vita, dolcezza e speranza".

Rivedendo la sua vita, egli constata che il Signore gli ha cambiato l'ideale di santità, attraverso imprevisti mutamenti nelle scienze, nella cultura, nella società, mutamenti che hanno prodotto il cambio delle domande della gente e, di conseguenza, il suo posizionamento [mah: perché i mutamenti sociali e culturali dovrebbero incidere sull'ideale di santità?]. Non sa se vi ha risposto, ma sa di averle prese sul serio. Ha constatato che anche la gente gli ha insegnato molte cose, specie quelli che chiacchieravano di meno e volevano essere più discepoli che maestri. È contento di aver guardato ai superiori con rispetto e sovente anche con amore, tenendo sotto controllo la tentazione della contestazione o della piaggeria. Comprende le loro difficoltà, anche se in cuor suo li vorrebbe più creativi. Non gli dispiace di non avere fatto carriera. Sorride di fronte al carrierismo, una forma di compensazione tipica anche tra gli apostoli. È lieto d'aver coltivato l'amicizia con i suoi confratelli e l'allegria con gli amici. E li raccomanda allo Spirito che rinnova la faccia della terra, perché rinnovino il futuro. Guardando alla società, che procede per la sua strada, è ammirato per la sua straordinaria capacità di gestire la complessità, grazie alla crescita delle competenze e dell'organizzazione. Ma si rende conto che l'uomo diventa sempre più fragile: senza un fondamento e una meta riuscirà a evitare d'essere schiacciato dall'opera delle sue mani? Trepida per il futuro dei giovani. Ma ripete loro: "Non abbiate paura di Cristo". Vede con chiarezza e infinita gratitudine che "tutto è grazia", anche l'essere stato conservato nel santo servizio e prega per chi ha iniziato con lui e non ha continuato. S'accorge che ormai ogni sua riflessione e preghiera è triangolare: Dio, lui, la sua gente. Dio e la gente sono stati la sua vita. Un trio ormai indissolubile, anche oltre il tempo. Si attende solo che Dio lo accolga con la sua gente, per vivere sempre assieme.

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