UNA FAMIGLIA DI MARTIRI
OSSIA VITA DE' SANTI
MARIO, MARTA,
AUDIFACE ED ABACO E LORO MARTIRIO CON APPENDICE SUL SANTUARIO AD ESSI DEDICATO
PRESSO CASELETTE per cura del Sacerdote BOSCO GIOVANNI
TORINO
TIP. G. B. PARAVIA
E COMP.
1861 {1 [57]} {2
[58]}
INDEX
Capo I. Fonti da cui ricavansi le memorie riguardanti a questi santi.
Se è
cosa pregevole esporro la vita di quegli uomini che vissero virtuosamente sopra
la terra, deve esserlo assai più per ogni fedel cristiano il conoscere le azioni
gloriose di que' valorosi eroi del Cristianesimo, i quali dopo avere in mille
guise beneficata la misera umanità, ora ci proteggono dal Cielo e invocano sopra
di noi grazie e benedizioni. Con questo pensiero ho deliberato di scrivere la
vita di una santa famiglia di martiri, il cui nome è Mario, Marta, Audiface ed
Abaco. I molti miracoli che da questi Santi si operarono e l'estensione del loro
culto, un Santuario ad essi dedicato nelle vicinanze di Caselette, paese
distante otto miglia a ponente di Torino, mi furono di eccitamento ad
intraprendere {3 [59]}questo lavoro. Affinchè leggami con maggior fiducia le
cose che sarò per iscrivere, stimo bene di accennare i fonti o meglio i
documenti da cui ne furono ricavate le notizie. Questo sono tanto più tenuto di
fare in quanto che alcuni autori, per altri titoli assai stimati, gettarono
qualche dubbio sugli atti che contengono le azioni che si riferiscono a questa
gloriosa famiglia. Credo che codesti scrittori non abbiano fatto le dovute
indagini per accertarsi della verità de' fatti che essi intraprendevano ad
esporre. Accenneremo adunque i principali autori che possono consultarsi da
coloro i quali volessero viepiù erudirsi su questo argomento. Sono adunque: Il
Martirologio ed il Breviario Romano nel giorno 19 di gennaio.
Molano,
Belino, Maurolio, e Beda scrittore del secolo ottavo, ed altri parlano di questi
santi fissandone la festa al 20 di gennaio.
Usuardo, Rabano, Vot-Kero, il Martirologio di Adone, scrittore del 10 secolo; il
Martirologio di S. Girolamo, che si giudica del 5 secolo e molti manoscritti la
celebrano al giorno 15 dello stesso mese.
Lorenzo
Surio rapporta gli atti del martirio di questa santa famiglia al giorno 14 di
febbraio mentre parla di S. Valentino. {4 [60]}
Il
Cardinale Baronio riferisce pure vari tratti delle azioni de' nostri Santi nel
tomo 2o all'anno 270.
I
Bollandisti nel giorno 19 di gennaio trattano copiosamente del culto prestato a
S. Abaco e a' suoi compagni martiri. Dopo di avere attentamente esaminato gli
atti del martirio e i documenti che ne somministrano le memorie conchiudono:
Quae hic damus, fide dignissima ducimus. Le cose che siamo per riferire
le giudichiamo degnissime di fede.
Prima
però di cominciare il racconto è bene che io noti eziandio alcune altre
cose.
Gli
autori che parlano di questi martiri ne rapportano il giorno della festa in
tempi diversi, e ciò deriva da che alcuni fanno solenne il giorno di loro morte,
altri il giorno della loro sepoltura, altri infine il giorno in cui le loro
reliquie furono altrove trasportate dal luogo della primitiva
tumulazione.
É pur
bene di notare che S. Abaco è da tali autori chiamato con nome alquanto variato.
Egli è detto Abacon, Ambaco, Abacum ed Abacuc; e questo deriva da che essendo
questo nome persiano fu variamente pronunziato dagli autori che lo scrissero {5
[61]} in altre lingue. Ma il nome adottato dalla Chiesa Cattolica è quello di
Abaco; siccome apparisce dall'ufficiatura del 19 gennaio fissata per la
commemorazione di questa gloriosa famiglia.
Finalmente S. Abaco essendo stato martirizzato in assai giovanile età, le azioni
di lui si confondono di sua natura con quelle de' suoi genitori e di suo
fratello contemporaneamente coronati del martirio.
La
religione cristiana che in tempi i più calamitosi ebbe tanti eroi, i quali
consacra¬rono ingegno, sostanze e vita per la fede, abbia tra noi fedeli
seguaci; che, se non hanno occasione di dare la vita per la fede, almeno siano
fedeli osservatori di quello stesso Vangelo che ne' primitivi tempi fu sostenuto
col sangue di que' gloriosi eroi, che ora invochiamo e che ci proteggono dal
cielo.
Capo II. Genitori de' Ss. Audiface ed Abaco. - Educazione data alla loro figliuolanza. - Loro venuta a Roma.
I capi
di questa famiglia di martiri appartenevano alla casa dall'imperatore di Persia
{6 [62]} che è un regno vastissimo nelle parti orientali dell'Asia. Il padre
chiamavasi Mario ed era figlio dell'Imperatore Maromeno. La madre nominavasi
Marta ed era figlia del vicerè Cusinite. I buoni genitori oltre la loro dignità
avevano grandi ricchezze, di cui facevano l'uso che Dio comanda nel Vangelo,
cioè impiegavano a favore dei poveri quel tanto che sopravanzava al proprio loro
bisogno. Dio benedisse quel matrimonio e concedette loro due figliuoli. II primo
chiamarono Audiface, il secondo Abaco.
Mario e
Marta erano intimamente persuasi che la prima ricchezza della figliuolanza è il
santo timor di Dio, e che senza di questo sono un nulla tutte le grandezze della
terra. Per la qual cosa mentre impiegavano santamente quei beni che la divina
provvidenza aveva loro concessi, davansi la più grande sollecitudine per
insegnare le verità della religione ai loro figli per farli crescere nella virtù
intanto che andavano crescendo negli anni. I due giovanetti corrispondevano alle
cure de' genitori: la scienza delle lettere, l'adempimento dei propri doveri
verso de' genitori, l'ubbidienza, la pietà erano le virtù che rendevano i due
giovanetti cari a Dio ed agli uomini. {7 [63]} Per eccitare nei loro cuori
pensieri di soda pietà, i genitori li conducevano di quando in quando ne' luoghi
che in quei tempi si conoscevano più celebri per divozione e
miracoli.
Dai
tempi più remoti della Chiesa fu sempre gran concorso di fedeli a venerare i
luoghi celebri per magnificenza di culto o per segni della potenza divina ivi
manifestata. Nella legge antica era tenuto in grande venerazione il tempio di
Salomone edificato in Gerusalemme. Dopo la venuta del Salvatore fu la tomba de'
Ss. Apostoli. Da paesi lontanissimi si intraprendevano penosi viaggi pei venire
a Roma, comunemente detta città eterna, perchè da Dio scelta per centro del
Cattolicismo, e sede del Vicario di Gesù Cristo, la cui religione deve dorare in
eterno. Fra le tombe venerate in Roma la più celebre era quella di S. Pietro
posta ai piedi del monte Vaticano. Tutti credevano che con una visita a quel
maraviglioso sepolcro si ottenesse indulgenza plenaria, cioè la remissione di
tutta la penitenza che si dovrebbe fare pei peccati commessi nella vita
passata.
Tali
santuari e tali pellegrinaggi sono raccomandati da S. Paolo allorchè disse {8
[64]} che l'uomo dalle cose sensibili della terra viene sollevato a conoscere e
gustare le cose spirituali ed invisibili del Cielo. Mario e Marta coi loro
figliuoli Audiface ed Abaco risolvettero di fare uno di questi pellegrinaggi
dalla Persia a Roma. Preparata ogni cosa, forniti del danaro necessario sia per
le spese della famiglia ed anche per largheggiare in opere di beneficenza
secondo la loro condizione, intrapresero quel lungo cammino. Giunsero a Roma
mentre governava la S. Sede s. Dionigi ed era Imperatore Claudio II, persecutore
dei Cristiani.
Capo III. Mario colla sua famiglia va a venerare i corpi dei Santi, soccorre i prigionieri, seppellisce i corpi de' martiri.
Principale oggetto del viaggio de' nostri Santi era di andare a far preghiere
sulla tomba di San Pietro. Questo principe degli Apostoli era stato crocifisso
sul monte Gianicolo, ma dopo il martirio il suo corpo fu portato ad essere
sepolto a' piedi del monte Vaticano vicino alle mura dai giardini di Nerone, S.
Anacleto fece costruire {9 [65]} una piccola chiesa su questa tomba che
coll'andare del tempo divenne la famosa Basilica di S. Pietro in Vaticano che è
il più maestoso tempio del mondo.
Soddisfatta la loro divozione Mario e la sua famiglia si fecero a cercare coloro
che pativano nelle carceri o seppelliendo i corpi di quelli che erano morti per
la fede. Mentre con sollecitudine facevano quelle ricerche, vennero al di là del
Tevere presso di una carcere detta Castel - Vecchio. Colà seppero che tra i
detenuti trovavasi un venerando vecchio di nome Cirino, il quale per la sua
fermezza nella fede era stato spogliato di ogni avere, cacciato in prigione, e
sottoposto a molte battiture. Appena poterono giungere fino a lui si prostrarono
a' piedi suoi e co' più grandi segni di venerazione lo supplicarono a voler
pregare Dio per loro. Quella santa famiglia provava tanta consolazione a vivere
con quel confessore della fede, che con licenza del carceriere rimase nel
carcere medesimo otto giorni. In questo tempo somministrarono quanto faceva
bisogno a Cirino e a quelli che erano con lui carcerati, prestando loro ogni più
umile servizio. Intanto la persecuzione infieriva viepiù contro ai Cristiani:
{10 [66]} chiunque fosse come tale riconosciuto era tosto punito colla morte.
Per incutere maggior terrore ai seguaci di Gesù Cristo, si eseguivano le
sentenze ora sulle piazze, ora nelle carceri od altrove senza neppure ascoltare
le ragioni degli accusati. Divulgato quell'editto furono subito presi 260
cristiani e condotti fuori di Roma per la via Salaria. Là erano condannati a
scavar terra, a portare sabbia per formare vasi. Quando si videro a sopportar
con gioia ogni fatica, ma sempre costanti nella fede, furono dapprima sottoposti
a molte pene, indi trasportati nell'Anfiteatro romano vennero tutti uccisi a
colpi di saetta.
Allora
che Mario, Marta e i loro figli seppero l'orrendo strazio fatto di quei servi di
Dio ne furono grandemente rattristati.
Il
dolore però si cangiò tosto in consolazione al pensiero che queglino avevano
lasciato i loro corpi fatti a brani sulla terra, ma le loro anime erano volate
gloriose al Cielo. Quindi con un santo Sacerdote di nome Giovanni essi vennero
al luogo dove erano stati martirizzati. Colà giunti trovarono i corpi de'
martiri collocati sopra un mucchio di legna, cui già erasi appiccato fuoco.
Tolsero Insto dal fuoco gli avanzi de' corpi {11 [67]} di quei servi di Dio, li
avvolsero in lenzuola, e con grande rispetto li portarono a seppellire nella
cripta ovvero chiesa sotterranea, nella via Salaria, nella discesa di un colle
detto Cucumero. Con qne' santi martiri fu eziandio sepolto un tribuno di nome
Blasto che pure era morto per la Fede. Data la sepoltura ai cadaveri fecero
molte preghiere, digiuni, limosine con altri esercizi di pietà, certamente per
suffragare, se ancora ne fosse bisogno, le anime di coloro che ivi erano
sepolti.
Ma i
nemici di Dio trovansi ovunque pronti ad impedire le opere buone; essi
riferirono tosto all'Imperadore che Mario e Marta ogni giorno facevano opere di
carità a favore dei poveri cristiani. Il tiranno comandò che quella famiglia
fosse immediatamente condotta alla sua presenza. Ma niuno la potè scoprire,
perchè sapendo queglino di essere cercati a morte studiavansi di esercitare
segretamente la loro carità. {12 [68]}
Capo IV. Mario colla sua famiglia dà sepoltura a S. Cirino, indi è accolto in una adunanza di Cristiani.
Un
giorno Mario e Marta coi loro figliuoli andarono di nuovo al di là del Tevere
per fare una visita a s. Cirino che giudicavano essere tuttavia rinchiuso in
carcere. Ma nol trovarono più. Eravi soltanto un sacerdote, di nome Pastore, che
loro raccontò quanto era avvenuto di lui. Notte tempo, loro disse, vennero qua i
carnefici, lo presero, gli tagliarono la testa, lo gettarono nel Tevere e per
buona ventura il suo corpo rimase nell'isola Licaonia, detta oggidì isola
Tiberina o di s. Bartolomeo. Udite queste parole andarono di notte con s.
Pastore in quel luogo, raccolsero il corpo di s. Cirino e lo portarono a
seppellire nel Cimitero di s. Calisto nella cripta o camera di s. Ponziano, così
detta dal nome di questo Pontefice che fu ivi sepolto.
Dopo
quelle cose Mario colla famiglia, continuando le loro passeggiate di divozione
al di là del Tevere, giunsero ad un luogo dove udirono una moltitudine di
Cristiani che cantavano lodi al Signore. Si avvicinarono {13 [69]} con gioia a
quella casa e trovandola chiusa si misero a bussarne la porta. Quelli che erano
dentro pensandosi che fossero persecutori furono spaventati e niuno osava
aprire. Ma un vescovo di nome Calisto, che per evitare la persecuzione erasi
anch'egli rifugiato a Roma, confortò quei fedeli dicendo: Animo, non temere; è
Gesù Cristo che bussa alla porta. Apriamo la nostra bocca e confortandoci a
vicenda lodiamo il Signore, perchè è desso che ci chiama. Ciò detto, corse ad
aprire la porta. Mario, Marta, Audiface ed Abaco vedendo il venerando prelato
gli si gettarono ai piedi. Da questo atto di divozione i fedeli radunati
conobbero cho i novelli ospiti erano cristiani, perciò diedero l'uno all'altro
il bacio di pace.
In quel
momento s. Calisto trasportato dalla gioia innalzò gli occhi e le mani al Cielo
e fece questa orazione: «O Dio padre del nostro Signor Gesù Cristo, il quale
raduni le cose disperse e le cose radunate conservi, accresci la fede e la
confidenza nel cuore de' tuoi servi per mezzo di Gesù Cristo Signor Nostro che
vive con Dio padre Onnipotente e collo Spirito Santo pei secoli dei secoli».
Tutti i fedeli colà radunati risposerò: {14 [70]} Amen, così sia. Quel
luogo essendo alquanto appartato dal centro della città sembrava sconosciuto ai
persecutori, perciò Mario colla famiglia vi dimorò nascosto due mesi.
Capo V.
S. Valentino confessa la fede di G. Cristo e dà la vista ad una fanciulla cieca.
L'Imperatore Claudio non potendo trovare Mario colla sua famiglia faceva cercare
altri cristiani e riuscì ad avere tra le mani un santo sacerdote di nome
Valentino. Egli lo fece legare con catene e condurre dinanzi a lui nel palazzo
vicino all' anfiteatro. Appena gli fu innanzi l'Imperatore lo interrogo dicendo:
«Perchè non ti curi della nostra amicizia e rifiuti di vivere come vivono gli
altri sudditi del nostro impero? Mi fu detto, che i cristiani possiedono grande
sapienza, e se tu sei sapiente perchè ti lasci al par degli altri strascinare da
una vana superstizione?»
Valentino rispose: «O principe, se mai sapessi quanto siano preziosi i doni del
Signore, tu e tutti i tuoi sudditi provereste la medesima consolazione,
rigettereste il culto dei demonii, e gli idoli fatti {15 [71]} dalle mani degli
uomini, confessereste un solo Dio padre Onnipotente, e Gesù Cristo suo
figliuolo, il quale creò il Cielo e la terra, il mare e tutte le cose che in
quelli si trovano». A quelle parole l'Imperatore parve maravigliato, e mentre
faceva riflessione su quanto aveva udito, un giureconsulto ovvero avvocato prese
la parola in luogo dell'Imperatore e disse ad alta voce a san Valentino: «Che
cosa dici del Dio Giove e del Dio Mercurio?»
Valentino rispose: «Io non dico altro di costoro se non che li ravviso per
uomini miseri, che nella loro vita mortale vissero nelle immondezze; che se tu
conoscessi la serie delle loro azioni, vedresti quanto sia stata abbominevole la
loro maniera di vivere».
L'avvocato gridò ad alta voce: «Costui ha bestemmiato contro a' nostri Dei e
contro ai patroni dell'Impero».
L'Imperatore per altro ascoltava con calma le parole di s. Valentino, e
rivoltosi a lui disse: «Se il tuo Gesù Cristo è Dio, perchè tosto non mi
manifesti la verità?» Valentino ripigliò: «Volentieri ti espongo la verità
purchè tu mi voglia ascoltare. Se tu, o principe, seguirai la verità che ti
propongo, {16 [72]} accrescerai il tuo impero, saranno spenti i tuoi nemici,
sarai in ogni cosa vincitore e godrai un regno glorioso nella vita presente e
nella tutura. Ma per riuscire in ciò bisogna che ti penta del sangue fatto
spargere ai servi del Signore, creda in Gesù Cristo, quindi ricevendo il
Battesimo salverai l'anima tua in eterno».
Claudio
rivolse il discorso agli astanti e disse: «Ascoltate, o cittadini Romani e
magistrati della repubblica, ascoltate e ammirate quanto sia sana la dottrina di
costui!»
Il
prefetto, di nome Calpurnio uomo scostumato, per impedire il frutto delle parole
di Valentino alzò egli pure la voce e disse: «Attento, o Principe, tu ti lasci
ingannare da costui; ti par giusto l'abbandonare quegli Dei che abbiamo fin
dalla nostra fanciullezza onerato ed adorato?»
L'Imperatore allora per rispetto umano ebbe vergogna di darsi vinto
dall'evidenza, e si limitò di consegnare Valentino al prefetto Calpurnio
dicendogli: «Ascolta costui con pazienza e se propone una dottrina non sana tu
gli applicherai le leggi stabilite contro i sacrileghi: che se la sua dottrina è
buona, tu lo lascierai in libertà». {17 [73]}
Calpurnio pertanto prese Valentino e lo diede ad un principe di nome Asterio con
queste parole: «Ti raccomando questo uomo. Se con buone parole tu riuscirai a
fargli cangiar modo di pensare, riferirò le cose all'Imperatore nel senso più
favorevole; così tu diverrai amico di lui e moltiplicherai le tue ricchezze».
Asterio condusse Valentino in sua casa disposto ad eseguire gli ordini dati. Ma
la grazia offerta all'Imperatore ed a' suoi assessori era rifiutata, e con
tremendo e sempre adorabile giudizio Dio la toglieva agli empi per darla ad
altri meglio disposti a riceverla. Appena Valentino entrò in quella casa si pose
in ginocchio e cosi pregò: «Dio padrone di tutte le cose visibili ed invisibili.
Creatore del genere umano, che mandasti il tuo figliuolo Gesù Cristo Signor
Nostro per liberarci dalle tenebre del mondo e condurci alla luce della verità,
quel Gesù Cristo che disse: - O voi tutti che siete oppressi dalla fatica e
dalla stanchezza, venite a me ed io vi rinforzerò; - Tu, o Signore, converti
questa casa e donale il lume della verità, affinchè conosca per vero Dio Gesù
Cristo Signor nostro che vive e regna nell’unità dello Spirito Santo. Così sia».
{18 [74]}
Il
principe Asterio udendo quella preghiera disse a Valentino: «Io ammiro la tua
sapienza e mi piace di udire che il vostro Gesù Cristo è vera
luce».
Valentino a chiara voce rispose: «E veramente così: il nostro Signor Gesù Cristo
il quale è nato da Maria Vergine per opera dello Spirito Santo è la vera luce
che illumina ogni uomo che viene in questo mondo».
Asterio
interruppe il discorso dicendo: «Se Gesù Cristo è Dio che illumina ogni uomo, ne
farò la prova; e se sarò appagato crederò a quanto mi dici; altrimenti rigetterò
i tuoi sofismi. Sappi adunque che ho una figliuola cui porto tutto il mio
affetto. Questa infelice è cieca da due anni. Io la condurrò qui da te; se tu la
guarirai, io crederò e farò qualunque cosa sarai per dirmi».
Soggiunse tosto Valentino: «Va pure, e in nome del Signor nostro Gesù Cristo
mena qua la tua figlia». Asterio si mise a correre e con grande ansietà condusse
la fanciulla a s. Valentino.
Il
fedele martire di Gesù Cristo alzando le mani al Cielo cogli occhi lagrimanti
fece questa preghiera: «Sonore Iddio {19 [75]} Onnipotente Padre del Signor
Nostro Gesù Cristo, padre delle misericordie, che mandasti in terra il figliuolo
tuo Signor Nostro Gesù Cristo, affinchè dalle tenebre del peccato ci conducesse
alla vera luce della grazia, io sebbene peccatore indegno invoco la tua potenza.
Tu vuoi che ogni anima si salvi e nessuna perisca, perciò supplico e scongiuro
la tua misericordia a fare si che tutti conoscano, che tu sei Dio Padre e
Creatore di tutti. E poichè tu apristi gli occhi al cieco nato, e richiamasti a
nuova vita Lazzaro che già era fetente nel sepolcro, io invoco te che sei il
vero lume e il Signore di tutti i principi e di tutta le potestà. Non si faccia
la mia volontà, ma si faccia quanto tu vuoi intorno a questa tua serva. Così se
è di tua maggior gloria degnati illuminarla col lume della tua intelligenza».
Finita la preghiera s. Valentino pose la sua mano sopra gli occhi della
fanciulla dicendo: «Signor G. Cristo, illumina la tua serva, perchè tu sei la
vera luce». Non erano ancora dette queste parole che si aprirono gli occhi di
lei e riacquistò perfettamente la vista. {20 [76]}
Capo VI. Conversione, martirio di s. Asterio e della sua famiglia.
Appena
Asterio rimirò la sua figlia guarita dalla cecità si prostrò con sua moglie ai
pie di s. Valentino dicendo: «Per amore di Gesù Cristo, per cui conosciamo la
luce, ti preghiamo di far quanto sai per salvare le anime nostre».
S.
Valentino soggiunse: «Se volete salvare le anime vostre, credete con tutto il
cuore nel nostro divin Salvatore, spezzate tutti gli idoli, digiunate, pentitevi
delle vostre colpe, e facendone umile confessione ricevete il Battesimo e così
sarete salvi».
Di poi
Valentino ordinò un digiuno di tre giorni. Intanto Asterio, che aveva molti
Cristiani in sua custodia, donò a tutti la libertà. Compiuti quei tre giorni
essendo domenica, giorno dedicato al Signore, battezzò Asterro con tutta la sua
famiglia. Per compiere l'opera del Signore, s. Valentino chiamò s. Calisto
perchè venisse a prendere parte ai tratti di misericordia che il Signore usava a
quella casa. Venne egli infatti ed amministrò il Sacramento della Cresima ad
Asterio e a tutta la sua famiglia in numero di 46. {21 [77]}
Mario e
la sua famiglia eransi tenuti nascosti per qualche tempo. Ma quando udirono che
s. Valentino aveva dato la vista ad una cieca, e che per quel miracolo tutta la
casa di Asterio aveva creduto in Gesù Cristo, vennero con grande allegrezza alla
casa di Asterio per ringraziare il Signore della misericordia usata. Essi
dimorarono in quella casa per lo spazio di 32 giorni.
Poco
dopo avendo Claudio ricercato Asterio, gli fu annunzito come la figliuola di lui
aveva acquistato prodigiosamente la vista e che per quel miracolo egli con tutta
la sua famiglia avevano ricevuto il battesimo nel nome di Gesù Cristo.
Fieramente sdegnato rnandò tosto a prendere quei novelli cristiani con ordine di
condurli tutti alla sua presenza. Egli portò un severa sguardo sopra Mario,
Marta, Audiface ed Abaco, e dal loro atteggiamento giudicandoli personaggi
illustri li separò dagli altri, e comandò che Asterio colla sua famiglia fosse
condotto in Ostia, città distante 15 miglia da Roma, per assoggettarlo colà a
rigoroso esame. Claudio aveva allontanato quei fedeli da Roma pesandosi che la
lontananza dai parenti e dagli amici, la privazione delle dignità e delle
ricchezze avessero forza a {22 [78]} farli prevaricare. Furono pertanto
consegnati ad un giudice di nome Gelasio, che li fece tutti chiudere in
prigione. Dopo venti giorni di carcere e di patimenti quel giudice li sottopose
al seguente interrogatorio:
«Sapete
voi quali siano i comandi dei padroni dell'Impero?»
Risposero ad una voce: «Noi non sappiamo».
Gelasio
continuò: «Ecco quali sono gli ordini imperiali: - chiunque farà sacrifizio agli
Dei viva felice, e gli si conceda piena libertà, e sia colmo di ricchezze. Chi
poi ricuserà di umiliarsi davanti alla maestà de' nostri Dei sia con diversi
generi di pene messo a morte».
Asterio
rispose: «Facciano pur sacrifizio agli Dei e con essi periscano pure coloro che
sono s mili ad essi. Io dico solamente che noi ci offriamo tutti in sacrifizio a
Dio onnipotente ed al Signor Nostro Gesù Cristo figliuolo di lui».
Gelasio
incollerito a quella risposta comandò che Asterio fosse collocato sopra l'eculeo
e sottoposto ai tormenti; tutti gli altri poi fossero battuti con verghe. Quei
coraggiosi Cristiani ben lungi dal lasciarsi intimidire pregavano così: «O
Signore {23 [79]} Nostro Gesù Cristo, che spegnesti le fiamme ardenti ed
avvampanti intorno ai tre fanciulli nella fornace, fa eziandio andare a vuoto le
minacce di questo tiranno, aftinchè non abbia a vantarsi di aver vinto i tuoi
servi, e fa che niuno di noi abbia a separarsi dal nostro padrone
Asterio.»
Allora
Gelasio comandò che fossero deposti dall'eculeo e chiusi di nuovo in prigione
dicendo: «A costoro devono prepararsi più gravi tormenti.» Intanto invitò tutto
il popolo a trovarsi di buon mattino per assistere allo spettacolo; ordinò che
gli fosse preparato un padiglione nell'anfiteatro, e che Asterio con tutti i
suoi compagni fossero condotti innanzi al suo tribunale.
Quando
furono tutti radunati al luogo stabilito, il Giudice rivolse questo discorso ad
Asterio: «O Asterio, abbandona una volta la pazza tua dottrina e promettimi di
fare un sacrifizio agli Dei, per impedire che tu non vada a finire la vita tra'
tormenti, e insieme con te tutti costoro non abbiano a perire
miseramente».
Santo
Asterio rispose: «Questo appunto di cuore noi tutti desideriamo. Siccome il
Salvator Nostro Gesù Cristo patì per nostri peccati, così è ben giusto che noi
pure {24 [80]} per promuovere il suo onore e la sua gloria sosteniamo questi
tormenti; e così purgati dalle sozzure di questo secolo meritiamo di giungere
sicuri al desiderato regno dei Cieli».
Per
questa risposta Gelasio vie più adirato comandò che in quello stesso momento
fossero gettati alle fiere. I carnefici tosto li presero, li condussero ad un
luogo detto Orsario vicino ad un tempietto d'oro presso al quale eravi un
serraglio di bestie feroci. Mentre i Santi confessori entravano nel serraglio,
fu subito data libertà alle fiere perchè loro si avventassero e li sbranassero.
Ma santo Asterio trovò un mezzo per vincere la ferocia di quegli animali. Fatto
il segno della s. Croce, a chiara ed alta voce affinchè fosse udito da' suoi
compagni cominciò a pregare così: «Signore Iddio Onnipotente che mosso a
compassione verso di Daniele profeta chiuso in un serraglio di leoni lo
confortasti per mezzo del tuo servo Abacuc, parimente visita i tuoi servi per
mezzo di qualche tuo s. Angelo. Quelle fiere che si mostravano affamate, così
volendo Iddio, deposero la loro ferocia e cominciarono a venerare s. Asterio e
gli altri confessori. Gelasio vedendo quel miracolo {25 [81]} disse furioso al
popolo: «Vedeste come costoro sanno usare l'arte magica e con essa rendere
mansuete le medesime fiere?»
Molti
però andavano dicendo che il Dio di quei Cristiani li aveva liberati. Gelasio di
poi comandò che fossero tratti fuori del serraglio e bruciati vivi. Allora s.
Asterio incoraggio i suoi compagni dicendo: «Animo, compagni, e non temete,
perchè quell'Angelo stesso che si trovò presente a liberare dal fuoco i tre
giovanetti ebrei di Babilonia, quell'Angelo stesso trovasi con noi». In
quell'istante si estensero le fiamme per molo che ogni parte del loro corpo
rimase illesa. Gelasio scorgendo inutile ogni prova comandò che fossero condotti
fuori delle mura della città di Ostia, e colà subissero la sentenza capitale,
altri poi fossero lapidali. In questa maniera Asterio con tutta la famiglia
riportarono un glorioso martirio.
Capo VII. Martirio di s. Valentino. Mario colla sua famiglia davanti all'Imperatore.
Il
santo sacerdote Valentino che tanto aveva faticato per incoraggiare i cristiani
{26 [82]} a rimanere fermi nella fede, e per cui egli medesimo aveva già patito
gravi tormenti, in fine fu egli pure condannato a morte. Usciva di Roma verso la
via Flaminia passando per quella porta che ora dicesi Porta del popolo.
Egli ebbe tronca la testa il giorno 14 febbraio. Il suo corpo fu con venerazione
sepolto nel luogo stesso del suo martino. Intorno alle reliquie di s. Valentino,
dicono gli atti del suo martirio, si operarono molti miracoli a maggior gloria
di Dio e a lode del suo santo nome.
Mario,
Marta, Audiface ed Abaco seppero la morte dei loro compagni, e mentre
procuravano di recar loro soccorsi spirituali, si preparavano colla preghiera e
con opere di carità al martirio. L'Imperatore aveva voluto che questa famiglia
fosse da ogni fedele separata sia perchè fosse atterrita dai supplizi e dai
tormenti degli altri, ed anche per giudicarli egli medesimo con grande
solennità. Cominciò ad interrogarli così: «Onde siete voi?» Audiface loro
primogenito rispose con semplicità: «Noi siamo Persiani».
Claudio
ripigliò: «Di che stirpe siete, e quale relazione avvi tra voi?» Audiface
continuò il discorso e indicando i genitori rispose {27 [83]} all'Imperatore:
«Io ed Abaco in quanto al corpo siamo figliuoli di costoro».
Claudio: «Per qual motivo avete intrapreso un sì lungo viaggio e siete venuti a
Roma?»
Audiface: «Noi siamo venuti alla capitale del Romano Impero spinti dal desiderio
di andare a far orazione sulla tomba dei santi Apostoli».
Claudio: «Dove prendeste il danaro necessario per sostenere tante gravi spese
quante si ricercano in così lungo viaggio? E quali sono i vostri natali?»
Audiface non era forse in grado di dare esatta risposta all'Imperatore, perciò
Mario prese egli la parola e disse: «Dio Onnipotente lo sa, che noi apparteniamo
a nobile famiglia. E affinchè tu conosca i nostri natali, ti diremo, che io,
Mario, sono figlio dell'Imperatore Maromeno, e costei, mia moglie, è figlia del
Vicerè Cusinite».
A
queste parole Claudio assai maravigliato ma con aria di rispetto loro disse: «Se
voi appartenete a così alta nobiltà perchè non professate la religione del
vostro paese? Perchè abbandonate gli Dei che i vostri parenti hanno sempre
adorato, e ciò fate per andare in cerca di morti da sepellire, {28 [84]} e quel
che è più venerate un uomo morto che voi dite risuscitato a nuova
vita?»
Mario
rispose: «Non occorre qui che io ti risponda per quale ragiene noi non adoriamo
gli Dei: ti dirò solamente che noi siamo servi di Gesù Cristo e siamo venuti a
Roma per far preghiera ai piedi degli Apostoli servi di lui, affinchè essi
intercedano per noi presso al Signore Iddio».
A
Claudio non gradiva molto il disputare di religione; a lui stava a cuore di
sapere se quella santa famiglia aveva seco ricchezze o no. Sì volse adunque a
Mario e lo interrogò dicendo: «Avete con voi i vostri tesori?»
Mario
rispose :«I nostri tesori furono già dati a Nostro Signor Gesù Cristo che ce li
aveva per poco tempo affidati a solo fine di promuovere il suo onore e la sua
gloria.» Claudio da quel discorso conobbe che era deluso nella sua aspettazione,
e perciò con aria di sprezzo li consegnò a Musciano suo Vicario dicendo: «Prendi
costoro, menali via di qua; se non faranno sacrifizio agli Dei ed abbandoneranno
la loro superstizione farai loro soffrire ogni genere di tormenti». {29
[85]}
Capo VIII. Mario, Marta, Audiface ed Abaco disprezzano le minacce e le promesse di Musciano, perciò sono battuti con verghe e posti sopra l’eculeo.
Musciano, come ebbe tra le mani quella cristiana famiglia, provò piacere nel suo
cuore reputando quella un'occasione favorevole per acquistarsi la benevolenza
dell'Imperatore con aumentare di stipendio e di carica. Perciò in quel medesimo
giorno diè opera ad eseguire fedelmente gli ordini del suo Sovrano. Comandò che
gli fosse apparecchiato un alto tribunale in un tempio dedicato alla Dea
Fellure. Affinchè poi potesse colle sue parole far maggiore impressione sopra
que' confessori, volle che appresso al suo tribunale si tenessero pronti tutti
gli strumenti, tutte le macchine che solevano usarsi per atterrire o per
tormentare i cristiani. Di poi fatto condurre a sè Mario colla sua famiglia, con
tetra voce prese a parlar così: «Sapete già che cosa vi abbiano ordinato i
nostri principi, i padroni dell'Impero?»
Audiface con voce calma rispose: «No, non lo sappiamo». {30 [86]}
Musciano: «Volete
adunque conoscere quale sia il decreto imperiale?»
Mario e
Marta risposero: «Noi desideriamo di sapere da te che cosa ti sia stato
comandato a nostro riguardo».
In quel
momento Musciano fece venire colà i carnefici con in mano gli strumenti con cui
solevansì tormentare i cristiani; poscia voltosi a que' pazienti disse: «Ora vi
dirò quali siano gli ordini dell'Imperatore a vostro riguardo: date uno sguardo
sopra tutti questi generi di tormenti, tutti saranno messi in opera contro di
voi, se non eseguirete gli ordini imperiali». Di poi Musciano si calmò alquanto,
e fingendo avere interessamento per loro soggiunse: «Che se voi eseguirete gli
ordini dei nostri principi, sarete fortunati, la nobiltà dei vostri natali vi
sarà conservata, alte cariche ed onorevoli vi renderanno più illustri nel nostro
impero, ma per essere loro amici bisogna che facciate un sacrifizio agli
Dei».
Audiface rispose: «Ci hai fatto una stolta proposizione, e noi per nessun conto
possiamo ammetterla».
Musciano finse di non aver udito e riputando quella risposta fuori di proposito
si {31 [87]} volse a Mario, a Marta e ad Abaco per interrogarli se fossero del
medesimo parere dicendo: «Che dite voi di quanto vi ho proposto?» Tutti
risposero: «Ciò che disse Audiface è pure nostro pensiero ed è lo stesso come se
tutti avessimo con una sola bocca parlato».
Musciano accorgendosì che le parole a nulla riuscivano, pensò di venire ai fatti
e comandò che fossero spogliati delle loro vesti, battuti con bastoni e per
eccesso di crudeltà volle che Marta fosse presente alla flagellazione del marito
e de' suoi figliuoli. Il tiranno credevasi che Marta commossa alla vista de'
tormenti cui erano esposti il marito ed i figli, li avrebbe forse persuasi a
rinnegare la fede; o almeno ella stessa avrebbe dato segno di prevaricare.
Mentre queglino erano aspramente battuti, alcuni assessori andavano di quando in
quando dicendo: «Non vogliate disprezzare i comandi de' nostri
principi».
Marta
mirava intrepida il marito ed i suoi figli sottoposti alla flagellazione, e ben
lungi dal lasciarsi sbigottire sentivasi il cuore pieno di gioia e andava
dicendo:«Miei figli, coraggio, siate costanti nella fede».
Mario
dal canto suo ringraziava Iddio e {32 [88]} lo glorificava con queste parole:
«Sia gloria a te, o Signor mio Gesù Cristo.» Musciano confuso per la
indifferenza con cui tolleravano que' ripetuti tormenti venne ad altra prova
facendoli togliere da quei flagelli e collocarli sopra l'eculeo. É l'eculeo un
modo di tormentare i pazienti con dolori assai sensibili. Era una specie di
cavalletto formato con due travicelli alle cui estremità stavano fisse due
girelle ovvero carrucole. A queste erano attaccate delle funi che legavansi ai
piedi ed alle mani del martire. Facendosi muovere le girelle si tendevi no le
braccia e il rimanente del corpo dei martiri a segno che quasi le giunture si
scomponevano e il sangue usciva talvolta dalle parli più deboli del corpo, come
dagli occhi, dalle orecchie e dalla bocca. Ad un certo punto si lasciavano poi
andar liberi quei due travicelli ed allora i pazienti rimanevano sospesi pei
piedi e per le mani. Mentre inquesta maniera venivano tormentati Audiface ad
alta voce andava esclamando: «Sia gloria a te, Signor Nostro Gesù Cristo, il
quale ti sei degnato di annoverarci tra i tuoi servi.» {33 [89]}
Capo IX. Mario, Marta, Audiface ed Abaco sottoposti al fuoco, agli uncini, sono loro troncate le mani. Parole di s. Marta e di s. Abaco.
Pare
che la vista di tanti atroci tormenti sostenuti da quei santi martiri avrebbe
dovuto produrre sentimenti di compassione, o meglio ancora far penetrare la
verità nel cuore di Musciaco. Ma non fu così. Invece di riconoscere la forza
della grazia di Dio nel coraggio de' martiri, egli attribuiva tutto a magia.
Laonde vie più sdegnato accrebbe tormenti a tormenti; quando poi vide i loro
corpi fatti lividi dalle battiture e dalle torture dell'eculeo feceli spogliare
con ordine che intorno ai loro fianchi fosse acceso un ardente fuoco. Quindi
rallentò le corde dell'eculeo sicchè rimasero sospesi pei piedi e per le mani.
Allora nuovi tormenti. I carnefici presero alcune verghe e li battevano
aggiugnendo piaghe a piaghe. Di poi con uncini di ferro si strappavano le carni
a brani, per modo che i loro corpi erano coperti di lividure, lacerati,
grondanti di sangue.
A quei
replicati tormenti non fecero un lamento, non mandarono un sospiro; ma {34 [90]}
confortati dalla grazia del Signore, e contenti di patire per amor di Dio
andavano con gioia dicendo: «Gratias tibi agimus, Domine. Vi rendiamo
grazie, o Signore, che ci avete fatti degni di soffrire qualche cosa per la
gloria del vostro Santo Nome.»
Musciano non comprendendo la ragione di tanta costanza volle dare ancora un
assalto alla loro fermezza; unendo la crudeltà alla barbarie. Ordinò che fossero
tutti slegati e deposti dall'eculeo; di poi ad esempio del crudele Antioco nella
strage dei sette Maccabei, fece schierare Mario, Audiface ed Abaco dinanzi a
Marta con ordine che alla medesima di lei presenza loro fossero tagliate le
mani.
Mentre
eseguivasi l’orrido spettacolo Marta raddoppiò il coraggio e sollevando i suoi
pensieri a Dio e richiamando a memoria la fermezza della madre de' giovani
Maccabei, avrà di certo fatto animo a santo Abaco con queste
parole:
«Coraggio, figlio mio, coraggio. È un momento quello che devi patire, ma eterno
è quello che dovrai godere. Rimira il cielo, la terra e tutte le cose che in
essi vi sono. Tutto fu creato dal Signore. Gli uomini pure furono tutti da lui
creati, perciò non {35 [91]} temere nè tormenti, nè carnefici, nè tiranno. Imita
la fermezza di tuo padre e di tuo fratello. Temi Dio solo. Patisci di buon animo
per lui. Tu darai per lui la presente viti mortale, ma egli ti ricompenserà con
una felicità che non avrà più fine. Coraggio, Abaco, Dio è con noi, e noi
morendo per lui di qui a pochi momenti saremo da lui accolti nella beata
Eternità.»
Abaco
la interruppe dicendo: «Non temere, o madre, io seguirò costante l'esempio di
mio padre e di mio fratello; le battiture, gli uncini, il ferro, il fuoco, e la
stessa morte non mi cagioneranno timore di sorta; nè mai mi allontanerò dalla
legge del Signore. No: non sarò mai per obbedire all'iniqua legge del tiranno,
ma sarò sempre fermo nella legge del Signore.» Non
obedio proecepto regis, sed proecepto legis quoe data est nobis. Macch.
lib. 2, c. 7.
Intanto
gli ordini del tiranno erano stati eseguiti: a Mario, ad Audiface ed al piccolo
Abaco essendo state barbaramente troncate le mani, sgorgava in copia il sangue
dalle mutilate braccia. A questa vista Marta inorridì e già quasi cadeva di
svenimento; ma tosto pensando che quel sangue spargevasi per amore di Gesù
Cristo, fu dalla divisa grazia {36 [92]} confortata, e superando i vincoli della
natura colligens sanguinem mariti et filiorum suorum, caput suum liniebat cum
gaudio. Vale a dire: corse a raccogliere il sangue che grondava dalle mani
del marito e dei figliuoli suoi, e con gioia ungevasi il proprio capo. Volendo
con ciò indicare che ella non solo era risoluta a lasciarsi mutilare le mani per
la fede, ma a lasciarsi tagliar anche la testa. Act. Martir,
etc.
Capo X. Mario, Marta, Audiface ed Abaco condotti per Roma incatenati; in fine sono tutti coronati del martirio.
Musciano vedendo che i barbari suoi ritrovati non valevano a far prevaricare gli
intrepidi servi di G. C., volle almeno che quel supplizio incutesse terrore agli
altri cristiani, e a quelli che avessero desiderato abbracciare la fede. Fatte
prendere le tronche mani che erano cadute a terra, ordinò che quelle venissero
con funi legate al collo di ciascuno. Di poi feceli condurre per le vie della
città. Mentre camminavano un banditore andava loro innanzi gridando: «Non
vogliate bestemmiare gli Dei.» {37 [93]}
Mario
confondeva il banditore ed incoraggiava i suoi figli con queste parole: «No, non
sono Dei, ma sono demoni, che condurranno alla perdizione voi ed i medesimi
vostri principi».
Musciano accorgendosi che ogni prova ed ogni dilazione era inutile sia perchè i
martiri si mostravano costantemente intrepidi in mezzo ai tormenti, sia perchè
il popolo comprendeva ognor più la vanità degli Dei, anzi molti venivano alla
fede, perciò diede ordine che sul momento si conducessero al luogo del supplizio
e fosse loro troncata la testa.
I
motivi addotti nella sentenza di morte sono due: Il primo perchè esercitavano la
magia, imperocchè i gentili chiamavano opere dell'arte magica i miracoli che
ogni giorno si andavano operando dai Cristiani. Il second motivo perchè erano
nemici degli Dei dell'Impero. La qual cosa è totalmente vera; poichè la
religione cristiana, che è la sola vera, non ammettendo che un Dio solo creatore
del cielo e della terra, e di tutte le cose che in essi trovansi, non può a meno
che rifiutarsi di fare sacrifizio agli Dei che sono miserabili creature per lo
più rappresentati con istatue fatte dalle mani degli uomini. {38
[94]}
Come un
cervo sitibondo desidera colla massima ansietà di giungere alla fonte di acqua
viva, così i gloriosi eroi della fede contenti di patire per la fede, e per dare
onore e gloria al divin maestro Gesù, erano impazienti di giungere al luogo che
doveva dar termine ai loro patimenti per unirli in eterno con Gesù Cristo.
Furono condotti per la via Cornelia a 13 miglia lungi dalla città ad un tratto
di via detto allora Ninfe di Catabasso, e che credesi quel luogo stesso che
oggidì appellasi s. Ninfa.
Lungo
la strada innalzavano a Dio calde preghiere affinchè col suo potente aiuto li
rendesse fermi nella fede. Nello stesso tempo si esortavano a vicenda a dare
intrepidamente la vita per andare tutti insieme a godere con Gesù Cristo in
Cielo.
Giunti
al luogo stabilito pel supplizio Mario, Audiface ed Abaco furono, decapitati.
Marta dopo aver assistito ed incoraggiato marito e figli al martirio, fu
condotta alquanto in disparte, e compiè il suo martirio coll'essere precipitata
in un pozzo. Musciano volle incrudelire verso dei santi martiri anche dopo la
loro morte, e comandò che i loro corpi fossero bruciati e così andassero privi
di sepoltura. Tuttavia {39 [95]} una ricca matrona romana, di nome Felicita, che
impiegava le sue sostanze e la sua vita in opere di carità, trovò modo di rapire
alle fiamme quelle venerande reliquie già bruciate per metà e le portò a
seppellire in un suo podere. La medesima Felicita andò in cerca del corpo di
Marta, lo trasse dal pozzo in cui era stato gettato e lo portò nel medesimo
luogo ove erano i corpi di Mario, Audiface ed Abaco. Queste cose compievansi il
giorno 19 di gennaio nell'anno 270. - V. Bar., anno citato.
Presso
al luogo dove subirono il martirio i nostri santi scorgonsi ancora oggidì gli
avanzi di un'antica chiesa sotto cui si diramano parecchi sotterranei a guisa di
Catacombe.
Gli
atti dei martiri, dai quali abbiamo tratto le notizie intorno a questa celebre
famiglia., terminano con parole che dimostrano quanto sia antico nella chiesa
Cattolica il culto verso le reliquie dei martiri, e come Iddio abbia in ogni
tempo concesso speciali favori a coloro che andarono sulla tomba de' suoi servi
per interporre la loro mediazione presso al divin suo trono. Le parole sono
queste: «Colà dove furono sepolti i corpi di Mario, Marta, {40 [96]} Andiface ed
Abaco cominciò a farsi grande concorso di fedeli, ed il nostro Signore Iddio ha
concesso, e tuttora concede grandi benefizi, mentre regna il nostro Signore Gesù
Cristo, che vive e regna col Padre e collo Spirito Santo ne' secoli dei secoli.
Amen.»
Capo XI. Trasporto delle reliquie dei Ss. Martiri Mario, Marta, Audiface ed Abaco in varie chiese di Roma.
Le
reliquie dei santi Martiri furono in tutti i tempi oggetto di speciale
venerazione presso i fedeli, massime quando la memoria ancor fresca della loro
costanza nel confessare la fede di Gesù Cristo attirava i Cristiani a
rinvigorire il fervore sulla loro tomba. Le catacombe ed i sepolcri di quelli
che si erano mostrati più coraggiosi erano i luoghi da' fedeli più frequentati.
Quando poi non ebbero più a temere le minacce de' persecutori, continuarono
egusimente ad intervenire a quei sepolcri per impetrarvi celeste aiuto contro
agli spirituali nemici, e grazie nelle temporali calamità. Si fu allora che la
Chiesa, fatta libera di esercitare pubblicamente la religione, {41 [97]} trovò
conveniente di estrarre dai sotterranei molte di quelle sante spoglie che
ricevevano speciale venerazione, quindi a maggior onore di que' santi, ed a
miglior comodo dei fedeli le collocò in sontuosi Templi e ne arricchì le
Basiliche più frequentate.
Questo
pure avvenne delle Reliquie dei Ss. Martiri Mario, Marta, Audiface ed Abaco.
Nell'anno 817 dell'era cristiana sotto il pontificato di Pasquale I esse vennero
estratte da quel sito ove erano state riposte presso al luogo del loro martirio,
e furono trasportate nella città di Roma.
Parte
di esse fu collocata nella Basilica di s. Prassede, come si ricava dalla lapide
marmorea che in essa chiesa fu posta, e che si appella tavola di s.
Pasquale. Questa ricorda il trasporto ivi fatto di 2300 martiri estratti
dalle catacombe ed ivi riposti per mano dello stesso s. Pontefice. Di molti ce
ne ricorda i nomi, fra' quali si leggono i nostri Ss. martiri Mario, Marta,
Audiface ed Abaco. In essa leggesi quanto segue: «In nome dei Signore Iddio
Salvator nostro Gesù Cristo ai tempi del santissimo e beatissimo Apostolico
signore Pasquale Papa furono introdotti in questa santa e venerabile Basilica
della Beata Vergine di Cristo {42 [98]} Prassede i corpi di molti santi martiri,
che il predetto Pontefice avendo tolti dai cimiteri e dalle catacombe, dove
giacevano, colle proprie mani, con somma diligenza ripose sotto questo
sacrosanto altare. Nel mese di luglio nel giorno 20, indizione
decima.»
Vengono
quindi espressi i nomi di vari santi Pontefici, sacerdoti e di altri martiri tra
cui sono Mario, Audiface, Abaco ed ottocento compagni i cui nomi sa solo
Iddio ... ed altri, i nomi de' quali sono scritti nel libro della vita. Di più i
nomi delle vergini, e delle vedove Prassede, ecc... Marta
...
Un'altra porzione fu collocata nella chiesa di s. Adriano, come apparisce da
un'altra iscrizione che si legge nella stessa chiesa, quale iscrizione, come
dice il Baronio, vi fu posta nell'anno 1228. Quest'anno è il primo del
Pontificato di Gregorio IX che ci lasciò questo documento in testimonianza
perenne che in detto anno si fossero trovate in questa chiesa le reliquie dei
Ss. Mario e Marta e di altri, delle quali ivi si lasciò la maggior parte, e il
rimanente fu dallo stesso Gregorio collocato sotto al maggiore altare[1]. Inoltre nel 1590 mentre per {43 [99]}
ordine di Agostino Cusano Cardinale Diacono di questa chiesa si stava rifacendo
l'altare maggiore, queste reliquie si ritrovarono. Il Baronio, il quale ciò
appunto scriveva nel 1590, aggiunge essere persuaso che in s. Adriano vi fossero
solamente le reliquie dei Ss. Mario e Marta, e che quelle dei figliuoli Audiface
ed Abaco si conservassero in s. Giovanni Calibita nell'isola Tiberina. Per altro
nel 1600, mentre si ristorava la chiesa di s. Giovanni Calibita, si trovò
un'urna marmorea, sopra cui erano scolpiti i nomi dei Ss. Mario, Marta, Auuiface
ed Abaco. La qual cosa indicherebbe non dei soli figliuoli, ma almeno in parte
si racchiudessero anche le ossa del padre e della madre.
Il
culto a questi santi martiri per lo addietro era assai esteso in Roma, e la
memoria delle loro glorie più viva. Di ciò si riscontra una prova negli antichi
a freschi che tuttora in questa città si vedono nella chiesa di s. Stefano
Rotondo. Ivi sono dipinti i più segnalati trionfi dei primi eroi {44 [100]}
della Chiesa, e l'artistico pennello seppe con mirabile vivezza porre
sott'occhio le svariate carnificine, colle quali quei generosi furono
tormentati. La scelta dei soggetti è fatta tra quelli che ebbero maggior
rinomanza; nel numero di questi trova una speciale commemorazione il martirio
dei nostri Ss. Martiri Mario, Marta, Audiface ed Abaco con a piedi del quadro
questa iscrizione:
CLAUDIO
IMPERATORE
MARIUS
ET MARTHA CONJUGES
CUM
FILIIS
AUDIFACE ET ABACHUM
POST VARIOS
CRUCIATUS
NECANTUR.
Cioè:
Sotto Claudio II Imperatore Mario e Marta coniugi co' loro due figliuoli
Audiface ed Abaco dopo aver sostenuto varii generi di tormenti, riportano
glorioso martirio.
Capo XII. Trasporto delle reliquie de' medesimi santi in altri paesi.
Iddio
aveva destinato che il culto a questi Ss. Martiri non rimanesse ristretto nella
{45 [101]} sola città di Roma; perciò dispose che la loro gloria, fatta più
chiara con singolari miracoli, destasse in molti luoghi il desiderio di
possederne le reliquie. Così di queste se ne portarono in Germania, nelle
Fiandre ed in altri paesi della Cristianità.
Fino
dall'anno 826, nove anni dopo che Pasquale I le aveva estratte dalle catacombe,
porzione di esse fu trasportata da Roma a Mulinheim, ora Seligenstadt, città
della Diocesi di Magonza, unitamente ai corpi dei Ss. Martiri Marcellino e
Pietro. Eginardo ad onore specialmente di questi ultimi innalzò colà una
sontuosa chiesa e vi fondò una celebre abazia dei PP. Benedettini.
Nel
1130 i PP. Benedettini di Cremona ne arricchirono pure il proprio Monastero, e
fu Lamberto abate di s. Lorenzo che se le procurò da Roma, e nella chiesa di s.
Lorenzo le ripose insieme con quelle di s. Urbano Pontefice, e Quirino martiri;
le quali tutte nel 1462 furono collocate in una elegante urna di
marmo.
Nel
1137 Arnulfo abate del Monastero di Gemblours nel Belgio ne recò da Roma quando
vi fu consacrato da Innocenzo II, ed in quella chiesa le portò. {46 [102]} Nel
1590, allora che furono in Roma ritrovate nella chiesa di s. Adriano, il
Cardinale Agostino Cusano ne mandava a Monsignor Wendewil Vescovo di Tournai, il
quale le pose nella chiesa di Courtrai.
Finalmente (come appare dai Bollandisti nell'appendice del 19 gennaio) se ne
conservano nell'antico Monastero di Prüm, città della Prussia Renana, Diocesi di
Treviri ove esisteva un altare dedicato ai santi Mario, Marta, Audiface ed
Abaco, ed in cui ciascuno vi aveva la propria statua.
Ma
siccome le reliquie de' nostri martiri furono riposte in tre urne, invece di
quattro, il volgo designolli coll'appellativo dei tre medici, a cagione del gran
numero di guarigioni che continuamente vi si operavano.
La
estensione che prese il culto alle reliquie di questi santi è una prova
evidente, che non invano ricorsero i fedeli alla loro intercessione nelle
maggiori necessità; e l'essersi Iddio degnato di accordare speciali favori a chi
fiducioso ebbe a loro ricorso è argomento certo per dimostrare quanto piacesse
al Signore di farne conoscere la Santità ed illustrarne la gloria. {47
[103]}
Capo XIII. Trasporto delle loro reliquie in Germania insieme con quelle di s. Marcellino e Pietro martiri.
Sotto
l'Impero di Lodovico detto il Pio, figlio di Carlo Magno, viveva Eginardo,
scrittore assai celebre di quel tempo tanto per l'importanza delle cose che
narrò, quanto per la sagacia, prudenza e verità con cui scrisse. Siccome fu
testimonio dei fatti, così potè pur dare i caratteri più sicuri di credibilità
alla sua storia. Scrisse egli tra le molte cose la storia della traslazione
delle reliquie dei Ss. Marcellino e Pietro, e di altri Ss. martiri, fra le quali
vi era anche parte di quelle dei Ss. martiri Mario, Marta, Audiface ed Abaco. È
notabile ciò che a questo proposito osserva il Cardinale Baronio. Essere
mirabile disposizione divina che la storia della traslazione di questi santi
martiri e la relazione dei miracoli in questa occasione da Dio operati sia stata
scritta da quello stesso che aveva narrato le gesta di Carlo Magno, di cui
nessun altro scrittore di quell'epoca si trova più veridico ad un tempo e più
stimato: affinchè {48 [104]} il culto a questi santi martiri restasse come
scolpito su pietra presso i popoli presenti e futuri, e rimanesse cogli
argomenti più ampi e sicuri consegnato alla posterità[2]. {49 [105]}
Eginardo adunque
narra di se stesso, come stanco degli onori del secolo negli ultimi anni di sua
vita, si fosse ritirato in una sua terra di Michlinstadt nella selva di
Ottenvald tra il fiume Necker ed il Meno. Qui fu sua prima cura di fabbricare
una sontuosa Chiesa; e quando fu terminata progettò di .arricchirla con le
preziose reliquie di qualche santo, o martire, a cui dedicarla. Occupato da
questo pensiero, s'incontrò con un certo Deusdona, Diacono Remano, che era
venuto alla corte pe' suoi privati affari. Questi si mostrò propenso ad
assecondarlo, ed assicurollo che nella città di Roma avrebbe facilmente potuto
soddisfare al pio suo desiderio; sè esser possessore di molte preziose reliquie,
ed essere dispostissimo a cedergliene parte, consegnandola a quella persona che
gli sarebbe stata indicata, e che a tale oggetto avrebbe potuto accompagnarsi
seco lui fino a Roma. Lieto Eginardo della promessa, diede incarico ad un suo
confidente per nome Ratleico di accompagnare il Diacono fino a Roma, e di
riportargli il desiderato deposito.
Il
viaggio di Ratleico, lo scoprimento dei corpi de' Ss. Marcellino e Pietro
martiri, {50 [106]} il trasporto delle loro reliquie, ed i miracoli che furono
operati lungo il cammino formano l'oggetto della citata storia della traslazione
delle reliquie dei Ss. martiri Marcellino e Pietro. Riguardo ai Ss. martiri
Mario, Marta, Audiface ed Abaco è da ricordare, come al momento in cui Ratleico
stava per partire da Roma con seco i corpi de' Ss. Marcellino e Pietro, il
Diacono Deusdona gli consegnò un involto, contenente altre reliquie di santi
martiri, destinate pure ad Eginardo. Nel rimetterle a Ratleico lo avvertì, come
queste reliquie dovessero tenersi nella stessa venerazione che quelle dei Ss.
Marcellino e Pietro, perchè gli uni e gli altri di questi santi, erano di egual
merito presso a Dio; e che facilmente Eginardo vi avrebbe creduto, quando i nomi
ne avesse conosciuto. Quali fossero nol volle dire a Ratleico, riservandosi di
farli egli stesso conoscere ad Eginardo quando si sarebbe recato da lui, come
fece di lì a non molto.
Partitosi di Roma con quel sacro deposito Ratleico venne per Pavia, ove si fermò
alcuni giorni: quindi passate le Alpi discese a S. Maurizio nel Vallese, di là
pel cantone e città di Soleure calò pel Reno {51 [107]} fino a Strasborgo d’onde
accompagnato da immensa moltitudine di fedeli, che si recavano a venerare le
sante reliquie, arrivò a Michlinstadt. Era questo il luogo fissato per le sante
reliquie che dovevano riporre nella chiesa recentemente da Eginardo costrutta,
ed in cui aveva destinato di conservarle.
Tale
però non era la volontà di Dio, ed i santi martiri apparsi a varie persone in
differenti guise fecero conoscere chiaramente che volevano essere collocati non
in questo luogo, ma in Mulinheim superiore, altra terra situata sul Meno ove
un'altra chiesa vi aveva eretta Eginardo. Per la qual cosa Eginardo ordinato
questo trasporto processionalmente con gran concorso di popolo li accompagnò al
sito indicato e ve li ripose il 17 gennaio dell'anno 827.
Terminata la funzione e disposta ogni cosa pel maggior decoro e riverenza delle
sanie reliquie stabili un certo numero di ecclesiastici, che facessero continua
dimora aecanto al sacro deposito e si occupassero in cantare le Divine Lodi.
Date queste disposizioni, chiamato al R. Palazzo dall'Imperatore Lodovico per
assistere in {52 [108]} Aquisgrana alla Corte Imperiale, se ne partì, ripieno di
celestiali consolazioni. Molti sono i miracoli che furono da Dio operati in
questa chiesa; e grazie d'ogni maniera furono accordate a coloro che si recavano
a visitare quelle sante reliquie.
Cresceva ogni giorno il concorso; e siccome era più sovente discorso dei Ss.
Marcellino e Pietro, dei quali si conoscevano le reliquie, che non degli altri,
volle Iddio con uno speciale miracolo addimostrare, che egli si compiaceva pur
anche della venerazione alle reliquie dei Ss. martiri Mario, Marta, Audiface ed
Abaco, che, come sopra si narrò, erano state portate da Roma insieme coi corpi
di S. Marcellino e Pietro. L'importanza di questo fatto è tale, che è meglio
udirlo dallo stesso Eginardo, scritto nel capitolo quinto della sopracitata
storia.
Capo XIV. Miracoloso riconoscimento delle reliquie dei santi Mario, Marta, Audiface ed Abaco.
«Dipartitomi adunque (dice Eginardo), mi recai alla Corte Imperiale: poichè
l'Imperatore {53 [109]} Lodovico, che in quel tempo dimorava nel palazzo di
Aquisgrana (Aix la chapelle) vi aveva nel cuore dell'inverno radunato il
consiglio dei Grandi, a cui io pure doveva cogli altri intervenire. Per lo che
costretto a lasciare la vicinanza dei Ss. martiri, assai rincrescevole mi
riesciva il soggiorno nel Palazzo. Passato un mese dacchè io era costì venuto,
spedii uno dei nostri per nome Ellebardo con ordine di recarsi quanto più presto
potesse alla tomba dei Ss. martiri. Questi giunto colà vi si fermò tre giorni.
Disponevasi al ritorno pel quarto, quando un cieco di nome Albrico lo ritenne
sul punto di sua partenza facendogli sentire, come egli prima di riprendere il
suo cammino doveva essere testimonio di un segno miracoloso, che riferito a me,
avrebbemi arrecato gaudio e contentezza somma. Soggiunse che quei santi martiri
gli erano apparsi nella notte, e gli avevano comandato di fare ricerca di un
certo povero chiamato Gifalberto. Costui aveva una enorme gobba sul dorso, che
orribilmente l'opprimeva, e costringevate a camminare ricurvo fino a terra, ed
appoggiarsi su due corti bastoni per istrascinarsi. Aggiunsero che l'avrebbe
trovato {54 [110]} nel cenacolo che è posto sopra del portico della Basilica, e
che rinvenutolo dovesse collocarlo presso alle sacre reliquie nel tempo in cui i
Monaci stavano recitando il mattutino. Perciocchè ivi quel meschino doveva pei
meriti e virtù di essi santi essere liberato, e dalla deformità della gobba, e
dalla disgrazia del camminare tutto incurvato e storpio. Ellebardo si arrese, e
differì al dimane l'ora della partenza. Intanto il cieco trovato quel povero che
gli era stato indicato, lo condusse nella parte superiore della chiesa, ed il
lasciò presso alle predette reliquie, nel tempo appunto che recitavasi il
mattutino, giusta quanto gli era stato prescritto.
«Queste
reliquie, che io ancora non conosceva, erano quelle del B. Mario martire, di sua
moglie e figli, cioè di Marta, Audiface ed Abaco, che erano bensì stati portati
coi corpi dei Ss. Marcellino e Pietro, ma non erano nemmeno conosciute da quella
stessa persona che le aveva portate, perchè colui che me le mandò, aveva
promesso di recarsi in persona presso di me e di svelarmi egli stesso i nomi dei
santi a' quali appartenevano quelle reliquie, come fece dappoi. {55 [111]}
«Erano
i monaci alla lettura della seconda lezione dell'ufficio notturno, quando quel
povero, che dal cieco era stato condotto presso alle sante reliquie, diede un
fortissimo grido, che arrecò non poco spavento a quanti l'udirono. Tosto alcuni
degli ecclesiastici insieme con quello cui era stato imposto di tenergli
d'occhio accorsero a lui, e lo trovarono prostrato e giacente a terra presso
all'altare, e la terra sopra cui stava appoggiata la bocca, tutta intrisa di
sangue. Alzato da terra, e fatto rinvenire con un poco di acqua, ebbero la gioia
di vederselo raddrizzato della persona, e sano di tutto il corpo, senza che
neppure gli rimanesse ombra di quella mostruosa gobba; e così affatto guarito lo
ricondussero in fondo alla chiesa. Dopo questo miracolo Ellebardo ritornatosene
prontamente, mi riferì quanto egli aveva veduto, il che mi riempì di sommo
gaudio e consolazione. Poco dopo quello stesso Ratleico che aveva portato da
Roma quelle sacre ceneri, si recò da me con un libro che conteneva molti
capitoli, e dissemi esser egli venuto, perchè quel cieco di cui si parlò gli
aveva imposto, a nome di questi martiri, di scrivere quei capitoli e di
portarmeli {56 [112]} affinchè ne prendessi conoscenza, e li leggessi allo
stesso Imperatore.» (Fin qui Eginardo nel suo libro, De Historia
Translationis Ss. Marcellini et Petri.)
La fama
di questi e moltissimi altri portentosi fatti che avvennero alla tomba di questi
martiri riuniti nella chiesa di Mulinheim cotanto si accrebbe, che questo nuovo
Santuario divenne la meta di pellegrinaggio d'immenso concorso di persone, che
afflitte da disgrazie o malattie venivano a cercarvi conforto ai loro malori. Le
grazie si moltiplicarono a segno che il borgo di Mulinheim (ove anche il piccolo
primitivo Monastero aveva preso maggiori proporzioni, ed era divenuto celebre
abazia) lasciato il primo suo nome non più si chiamò Mulinheim, ma sibbene
Seligen - Stadt, ossia città dei Beati (Vedi Bolland, die secunda iunii).
{57 [113]}
Appendice sul santuario dedicato a Sant'Abaco presso Caselette.
Titolo I. Origine di questo Santuario.
Da
quanto si disse nei precedenti capitoli è facile comprendere come rapidamente si
propagasse la venerazione alle reliquie di questi santi martiri. Si è veduto
come molti Monasteri dei PP. Benedettini procurassero di averne una qualche
porzione; quindi si spiega come se ne venerassero in tanti luoghi di Germania,
delle Fiandre e di altri paesi, massime dove esistevano conventi di quei
Religiosi. Non farà però maraviglia se anche in Piemonte, nella valle per cui
scorre la Dora Riparia, dove i PP. Benedettini possedevano molte terre, e vi
avevano celebri abazie, siavi {58 [114]} stato portato il culto a questi santi,
e che la divozione alla loro memoria vi abbia gettato profonde
radici.
Sarà
pertanto cosa gradevole al lettore il fare particolar menzione del Santuario di
Caselette in queste memorie, sia per la perseveranza con cui dai terrazzani di
quel luogo e dei vicini paesi si conservò in esso la divozione ai nostri Ss.
martiri, sia più specialmente per l'accrescimento che questa divozione ha preso
in questi ultimi tempi, e per le singolari grazie colle quali il Signore si
degnò concedere a favore di coloro che divotamente e con fiducia vi
ricorrono.
La
montagna di Caselette detta nelle antiche carte Mons. Asinarius o Monte
Asinaro, Musinaro o Musinè, è quella prima sommità che a poca distanza da
Torino, alzandosi dalla pianura della Dora Riparia, viene a formare il primo
gradino di quell'alta giogaja, che sulla sponda sinistra della Dora mano a mano
si eleva, e va sopra Susa a terminare alle roccie gigantesche che dominano il
passaggio del Monte Cenisio. Su questa montagna esiste a mezzo colle una
antichissima cappella, che dal più giovane dei nostri Ss. martiri di s. Abaco si
appella. A questa ogni anno dai vicini {59 [115]} paesi muovono in folla i
visitatori, i quali, se non sempre attratti da spirito di divozione, giunti però
alla meta del pellegrinaggio, non possono a meno di non sentirsi spinti ad una
preghiera verso quegli incliti Patroni, che da tempo immemorabile sono con
miracoloso successo invocati nelle maggiori necessità.
La
fondazione di questa Cappella è molto antica. Le memorie che si sono potute
rinvenire ne parlano sempre come di fondazione immemorabile. È probabile, che la
divozione a questi santi siasi portata in queste contrade per opera dei PP.
Benedettini i quali avevano in proprietà moltissime terre nelle valli della Dora
Riparia, ed una grande abazia possedevano alle falde del Musinè, detta abazia
diCamerletto, presso a Caselette.
Avvi
una tradizione popolare, che fa salire questa fondazione al finire del secolo
decimo; quando cioè s. Giovanni di Ravenna lasciava quella sua sede
Arcivescovile (ove ebbe per successore Gerberto nel 998, il quale fu poi eletto
Papa nel 999 col nome di Silvestro II), e veniva a ritirarsi nella valle di Susa
sulle montagne di Chiavrie sotto al monte Caprasio. Quivi datosi a vita romitica
più d'altro non si {60 [116]} occupava cho dell'orazione e della penitenza.
Avendo sommamente a cuore la gloria di Dio e de' suoi santi ne promosse il culto
con erigere Cappelle in loro onore sul dorso di quelle montagne, e cosi
risvegliare nei popoli l'amore alla Religione, e trovare loro dei possenti
protettori nel Cielo. Il sito ove egli aveva fissato la sua dimora è attualmente
notevole per una vasta cappella scavata nel vivo sasso, in cui si venera
l'immagine di Maria Santissima. Quivi aveva pure la sua cella, e per molti anni
vi condusse una vita di mortificazione, e di sublime santità. Presso a questa
sua antica cella si trova ora il piccolo villaggio della Sella o Cella, che pare
abbia preso il nome dalla cella del santo Eremita. Si narra nella sua vita, che
spinto dal desiderio di vedere in particolar modo venerato l'Arcangelo s.
Michele avesse stabilito di costruire a suo onore una Cappella, su quella stessa
montagna ove egli aveva dimora. Datosi a radunare e pietre e legnami e materiali
d'ogni sorta, queste provvisioni notte tempo scomparivano dal sito ove erano
state collocate, nè più lasciavano traccia di sè sopra quel luogo. Ricominciato
il lavoro, e raccolta una nuova provvista, {61 [117]} questa come la prima più
non si trovava in sul dimane. Raccomandatosi il santo al Signore, ebbe a
conoscere essere volontà di Dio che la chiesa a s. Michele dovesse erigersi non
sul dorso del monte Caprasio, ma sibbene sulla cima del monte Pirchiriano che
gli sta di fronte dall'altro lato della Dora, ove per miracolo erano sfati
trasportati i materiali dal santo preparati. Per lo che abbandonato quel caro
suo romitaggio passò dall'altra parte della valle, ove riunì l'opera sua a
quella di Ugone di Montboiscier. Fu ivi innalzata la superba mole detta Sacra
di s. Michele.
Dice
adunque la tradizione che un compagno di s. Giovanni non l'abbia seguito al
monte Pirchiriano, ma che inspirato da Dio si ritirò più verso le pianura del
Piemonte sino al monte Asinaro, ove trovò un sito adattato per fabbricare una
Cappella dedicata ai santi martiri Mario, Marta, Audiface ed Abaco. Egli si
portò ivi ad abitare, mosso dal desiderio di vita solitaria e da speciale
divozione, che sentivasi pei nostri santi, di cui erano allora in Germania
recenti i miracoli e la cui fama senza dubbio era passata di Germania anche a
quelli della valle di Susa. Pare che vi {62 [118]} si possedesse solamente
qualche reliquia di s. Abaco, come vi è ancora attualmente, che perciò fu
chiamata la Cappella di s. Abaco, sebbene vi si venerino egualmente ed i suoi
Genitori, ed il suo Fratello martiri.
Titolo II. Stato della Cappella di s. Abaco sul monte di Caselette in varie epoche.
Quale
fosse la Chiesuola di s. Abaco sul suo principio, se più vasta o più modesta, se
più ricca o più povera, è vano il ricercare. Il certo si è che la divozione al
piccolo Santuario quando più, quando meno infiammata, marcò pure
gl'ingrandimenti ed i ristauri, l'abbandono ed i deperimenti della sacra
Cappella.
Pare
che nel 1735 si fosse d'assai raffreddato lo zelo dei fedeli, poichè si
riscontra nelle memorie della Parrochia di Caselette che un ottimo curato di
quel luogo, il Reverendo D. Gaspare Forto, siasi accinto a ravvivare la
divozione a questi Santi nel cuore dei Caselettesi, ed a questo oggetto abbia
anche ricostituito su solide basi il priorato di quel Santuario, e ne abbia
formato un apposito regolamento. I conti della {63 [119]} Chiesetta si tennero
quindi in poi dal Priore, unitamente al signor Parroco, e per mezzo di questi
conti resi per questa guisa ragolari si può tener dietro alle varie fasi di
questa fabbrica, e vi si scorge come con sole elemosine dei fedeli, senza verun
reddito fisso, si provvedesse al servizio della chiesa, ed alle necessarie
riparazioni. L’intento di quel zelante Pastore non andò fallito, ed egli riescì
a riaccendere nei cuori l'affetto e la confidenza verso dei santi Patroni, e,
come si esprime nelle sue memorie, a far rivivere nel luogo di Caselette quella
pia divozione, che da tempo immemorabile radicata in questo Comune era stata
sorgente d'innumerevoli grazie, e di segnalati favori. La cresciuta divozione
ridonò nuova vita al Santuario, e coll'aumentato concorso dei fedeli si
accrebbero pure le scarse risorse. Questo si appalesa dalle maggiori spese che
si poterono fare attorno a quelle mura. Il Santuario fu munito di un piccolo
campanile, da cui una modesta campana chiamava i fedeli sopra quel sacro colle,
ed un povero Eremita passava nell'annesso abituro la solitaria sua vita a
guardia del Santuario. Egli aveva cura della chiesuola, accoglieva i pellegrini,
riceveva le oblazioni. {64 [120]}
La
Cappella aveva acquistato nuovo decoro e nuovi ornamenti, talchè nel 1760
attirata la cupidigia di alcuni malviventi avidi di bottino, questi di notte
tempo portatisi su quel colle, sforzate le porte, derubarono quanto vi si
trovava di ricco e di buono, anzi esportarono la stessa campana, e per soprapiù
maltrattarono il povero Eremita.
Se la
chiesa restò nuovamente denudata, non per questo si raffreddò lo zelo dei fedeli
che accorrevano da ogni parte massime nel giorno dedicato ai Ss. Patroni. E qui
è da notare quanto viva siasi sempre palesata questa fiamma di zelo, quando si
consideri che avvenendo questa festiva ricorrenza dei Ss. martiri nel cuore
dell'inverno, cioè nel giorno 19 del mese di gennaio, nulla giammai valse a
scemare il numero degli accorrenti, nè l'inclemenza della stagione, nè
l'asprezza delle vie, nè la ristrettezza della chiesa, per cui la maggior parte
dei divoti accorsi erano costretti a stersene al di fuori. Ognuno doveva
contentarsi di entrare soltanto dopo la funzione, quando, uscendo i primi
entrati, davane luogo ai secondi.
Questo
inconveniente faceva sentire grave bisogno di ampliare il sacro recinto, e si fu
{65 [121]} soltanto col raggranellarsi delle pie oblazioni che si pervenne a
qualche buon risultato.
Tra i
notabili lavori vi è quello eseguito nel 1817. Uno dei più zelanti Priori,
Antonio Conti, tanto fece e tanto si adoperò che trovò mezzo a rinnovare quasi
tutto il corpo dell'attuale chiesetta. Anzi fu tale il suo zelo che di notte
rinchiuso nel Santuario occupava il tempo destinato al sonno in lavorare e
preparare sabbia, purgando le vecchie macerie della demolizione che
pazientemente faceva passare al crivello. In questo lavoro la perdurò costante
più mesi. Questa ampliazione eseguita con isforzi di zelo, ma con deboli fondi,
non ottenne la necessaria solidità. Laonde nel 1842 l'Amministrazione comunale
di Caselette, animata dall'invito del Parroco, concorse a ristorare una parte
dell'edifizio che minacciava rovina.
Nel
1851, coll'aggiunta del coro, e di una piccola sacrestia che prima mancavano,
quel sacro recinto fu reso capace di contenere maggior numero di
fedeli.
Questi
ed alcuni altri lavori promossi dagli zelanti Teologo Matteo Tivano Prevosto, e
Teologo Domenico suo fratello e coadiutore ridestarono la divozione, la
divozione {66 [122]} accresciuta meritò nuove grazie, le nuove grazie attirarono
maggior copia di pellegrini. Così quell’ingrandimento che pareva sufficiente si
trovò essere un nulla a petto del bisogno; laonde si dovette nuovamente
provvedere, come più sotto si vedrà.
Titolo III. Visita delle Regine Maria Teresa, e Maria Adelaide di Savoia alla Cappella di san Abaco. - Stabilimento della Via Crucis.
Intanto
sopravveniva l'anno 1854, anno memorabile pel popolo di Caselette, e che lasciò
di sè nell'animo di quei terrazzani incancellabili ricordi. Le due auguste
Regine, Maria Teresa vedova del Re Carlo Alberto, e Maria Adelaide moglie del Re
Vittorio Emanuele II, lasciate le ville Reali erano venute con tutta la Real
famiglia a cercare la semplicità della campagna, e la pace della solitudine
nell'ameno castello di Caselette, del pio sig. conte Carlo Cays, frammezzo a
questa semplice popolazione, la quale non rifiniva dalle maraviglie nel vedere
fra le proprie mura questi augusti personaggi.
La luce
delle loro eminenti virtù non tardò a farsi notare sfavillante, e fra quelle che
{67 [123]} più colpiscono le rozze menti dei popolani, una soda divozione, una
fede viva, ed un ardentissimo interessamento a quanto riflette anche i più
semplici atti di Religione. Il piccolo Santuario di s. Abaco non poteva passare
inosservato a quelle anime elette, le quali ricercavano ogni occasione per
onorare Iddio nei santi suoi.
I primi
passi dell'Augusta Maria Teresa furono diretti all'elevato poggio ove s'innalza
la Cappella del Santuario, e se la Regina Maria Adelaide non potè seguirla nel
religioso pellegrinaggio, stante la sua mal ferma salute, volle peraltro esserne
rappresentata da' suoi figli nella divota visita.
I Reali
Principi in nome della madre offerivano ricco dono ai comuni Patroni. Questo pio
atto di venerazione ai Ss. martiri della montagna, ripetuto più volte con
religioso contegno, arrecò inusitato stimolo alla già viva e sincera divozione
del popolo di Caselette e de' paesi confinanti.
In
quest'anno pure si iniziò la costruzione delle cappellette della Via
Crucis che ora adornano la salita del monte. Una nobile signora afflitta per
una grave malattia, da cui era affetto il suo consorte, aveva nell'anno
antecedente fatto promessa {68 [124]} a s. Abaco d'innalzare la prima una delle
cappellette della Via Crucis, qualora Iddio si fosse compiaciuto di
ridonarle entro quell’anno il marito in buona salute. La desiderata guarigione
aveva tenuto dietro alla promessa, e già nell'estate del 1854 si gettavano le
fondamenta e si portava a termine la prima delle dette cappellette. In questo
tempo appunto l'augusta Maria Teresa ed i Reali Principi visitavano per la prima
volta la chiesuola di s. Abaco. Informatisi dello scopo di questa nuova
costruzione e vogliosi di cooperare al cristiano intento di stabilire le
stazioni del Calvario lungo la via che conduce alla divota cappella, offerivano
quanto era necessario alla erezione di due altre cappellette. A questo nobile
esempio si mossero tutte le classi della popolazione. Alle auguste persone,
tennero dietro nobili matrone e signori, ecclesiastici e secolari, titolati e
plebei, uomini e donne, facoltosi e meno agiati, tutti chi più chi meno
concorsero alla formazione di alcune delle cappellette, come lo attestano i nomi
dei singoli patroni, scritti su ciascuna di esse. Persino i più poveri
proprietari di Caselette non potendo da soli, formatisi in società, posero
insieme {69 [125]} con piccole somme riunite quel tanto che bisognava alla
costruzione di due cappelletto che si elevarono a testimonio dell'ammirabile
buon volere della società degli uomini, e della società delle donne. Così senza
il minimo concorso dei fondi del Santuario nel breve spazio di tre anni si elevò
sulla strada di s. Abaco questo monumento parlante della pietà e della religione
dei Caselettesi. Nè invano si ebbe tanta fiducia nei possenti Patroni di questa
popolazione, poichè mentre pareva che il malefico influsso del cholera
morbus fosse per menare grave strage, quasi per miracolo cessava, e
pochissime furono le vittime che si ebbero a deplorare.
Alle 14
cappellete per la Via Crucis una se ne aggiunse sul principiar della
salita, destinata alla orazione preparatoria per le stazioni. Questa fu dedicata
a Maria SS. Consolatrice. Siccome questa regina di tutti i santi è pure
particolarmente invocata dai divoti visitatori del Santuario, così fu pensiero
di apporre ancora alle singole 15 cappellete altrettanti dipinti rappresentanti
i quindici Misteri del SS. Rosario. In guisa che coloro fra i pellegrini, che
ignari del modo di fare l'esercizio {70 [126]} della Via Crucis (che vi è
canonicamente eretta, sia luogo la strada, sia nell'interno della cappella), non
fossero in grado di acquistare le indulgenze che vi sono annesse, fossero almeno
invitati ad accompagnare la salita colla recita del SS. Rosario, e colla
meditazione dei quindici suoi misteri[3]. {71 [127]}
Titolo IV. Continuazione dei lavori ed ampliazione.
Mentre
lo stabilimento della Via Crucis fiancheggiante la strada che conduce al
Santuario stava compiendosi mercè lo zelo e la cooperazione dei fedeli,
l'amministrazione del Santuario, confortata da altre offerte, ed animata dal
sempre crescente bisogno di rendere più capace il sacro recinto della chiesa
della montagna, si accinse nel 1855 a raddoppiare l'area del coro con un
apposito prolungamento. Innalzata la parte corrispondente del tetto, ingrandì
pure del doppio la camera superiore al coro. Nuova balaustrata è nuovo pulpito
offerti da pie persone aggiunsero nuovo ornamento. I lavori che colassù si
compievano erano opera di tutti. Più si lavorava e più si desiderava di
lavorare.
Il
concorso della popolazione di Caselette era ammirabile. Grandi e piccoli,
giovani e vecchi, uomini e donne, tutti accorsero per quanto le loro forze il
permisero. Era commovente spettacolo, allorchè dovevano farsi pesanti, faticosi
trasporti o di pietre, o di mattoni, o di travi, o di tegole, o di calce, o di
sabbia, o di acqua. Comune {72 [128]} era lo slancio, la gioia, e la prontezza
con cui tutti andavano a gara per faticare sotto al peso delle indossate
materie, ripetere più volte la faticosa salita, sempre lieti, sempre freschi,
sempre contenti, sempre bramosi di cooperare ai ristauri della cappella dei cari
Patroni. Questi lavori furono precipua opera dei giorni festivi, quando
terminate le funzioni di Chiesa, il Santuario di s. Abaco era come un convegno,
ove a ristoro delle fatiche della settimana venivano quei buoni contadini ad
offerire ai loro Patroni in tenue tributo di venerazione la gratuita fatica di
alcune ore. E poi quando tutti erano giunti lassù, l'accalcarsi ai piedi del
sacro altare, il sollevare gli occhi ed il cuore ai Ss. Patroni, l'innalzare a
Dio ed alla SS. Vergine una infuocata preghiera in comune accordo, a vantaggio
dei presenti, a conforto degli assenti, a sollievo degl'infermi, al bene di
tutti, oh allora il cuore ridondava di gioia, e si riempiva di fiducia! Non
pochi sono coloro che ottennero da Dio singolari favori.
I nuovi
lavori del 1855 attorno al Santuario, e le cappellette della Via Crucis
nel 1856 lungo la strada erano appena compiuti, quando l'amministrazione si
accorse {73 [129]} che la fatta ampliazione era ancora insufficiente al sempre
crescente numero dei divoti che specialmente nel giorno della festa da ogni
parte vi convenivano. Il bisogno si toccava con mano, il desiderio era vivo in
ogni cuore. Ma dovendosi limitare la spesa alle scarse entrate non era sperabile
di poter appagare la brama comune, salvo dopo qualche spazio di tempo, che
avesse permesso d'ingrossare a questo fine il piccolo fondo coi proventi delle
annue elemosine. Senonchè Iddio, cui certamente piacque il pio desiderio, mandò
ad un buon negoziante nativo di Caselette, il signor Giovanni Battista Fassetta,
la inspirazione di legare al Santuario di s. Abaco una capitale somma di lire
500. Questo lascito fu una spinta che decise la costruzione del portico che si
vede esternamente alla chiesa, come pure della sovrapposta orchestra, non che
del campanile, e del corridoio laterale. Così a metà dell'anno 1860 si vide
ultimato il vestibolo, ricostruita e fatta più elevata la volta sopra l'altare,
rinnovate le tinte a tutta la chiesa. Per ultimo una nuova campana, dono di un
erede di quel pio negoziante che già aveva fatto il legato sopraenunciato,
innalzavasi {74 [130]} sul nuovo campanile, appunto in quest'anno 1860 in cui
compievasi il centenario, dacchè l'altra campana era stata da mani sacrileghe
involata.
A
ricordanza dei fatti si apponeva ai muri del nuovo portico la seguente
iscrizione:
LA
PIETÀ DEI MAGGIORI
CHE
QUESTO SACRO TEMPIO
IN
REMOTI SECOLI ERESSE
EMULARONO I NEPOTI
RIPARATO ED AMPLIATO NEL 1817
RICEVEVA NEL 1851 E 1855 NUOVO DECORO
REALI
AUGUSTI PERSONAGGI
POPOLO
E MUNICIPIO
CASELETTESI E FORESTIERI
ACCORSERO CON PIA GARA
CON
RACCOLTE ELEMOSINE, PRIVATE OBLAZIONI
E PIO
LASCITO
E
CAPPELLETTE E STRADA NEL 1856
E
PORTICO ED ORCHESTRA NEL 1860
SI
COMPIEVANO
E
L'OFFERTO SACRO BRONZO
LE
GLORIE DI S. ABACO CELEBRAVA FESTOSO
E LA
FEDE DEI POPOLI. {75 [131]}
Titolo V. Grazie speciali ottenute ad intercessione di s. Abaco dai divoti che gli si raccomandarono. Breve di S. S. Pio IX.
Una
iscrizione, che si legge sul fregio del frontone, sta a testimonianza del
possente patrocinio, con cui questi venerati santi sempre favorirono coloro che
alla loro intercessione fiduciosi si rivolsero. La iscrizione dice:
Sanctis martiribus Abaco et sociis febricitantium Patronis
Cioè:
Ai
santi martiri Abaco e compagni
Patroni
di coloro che sono travagliati dalle febbri.
Questo
glorioso titolo accordato a s. Abaco e compagni si ritrova costantemente nelle
antiche memorie della cappella, ed al piede di una vecchia incisione, che è una
copia del quadro che nei tempi addietro ornava l'altare di essi santi si legge
questo motto: {76 [132]}
Marius et Martha coniuges, Audifax et Abachum eorum filii, nobiles persae,
sub Claudio Imperatore Romae, martirium passi sunt. Febricitantium Patroni,
magna cum populorum frequentia ac devotione, Caselettis
venerantur.
Questa
iscrizione si può tradurre in italiano come segue:
«Mario,
Marta coniugi, Audiface ed Abaco loro figliuoli nobili persiani, sotto Claudio
Imperatore furono in Roma coronati del martirio. Questi santi sono venerati
presso Caselelte con grande concorso di popolo e sono con grande divozione
invocati e tenuti patroni di coloro che sono travavagliati dalle febbri.» I
fatti non mancano a comprovare la verità di questo elogio. Basterebbe far cenno
di quanti da molti paesi vengono con frequenza a ringraziare sul luogo questi
santi Patroni, dai quali riconoscono d'aver ricevuto chi la sanità, chi la vita.
Nel tacere dei più, giova almeno ricordarne alcuni, i quali vollero
particolarmente esternare la loro riconoscenza con raccontare le ricevute
grazie, o col farle dipingere sopra votive tabelle. {77 [133]}
È per
primo il fatto di una signora, la quale sorpresa nel corrente anno 1860 da
violentissime febbri, dopo inutili tentativi dei medici, vedendo che nulla
valeva a sradicarle, anzi minacciata da prossimo pericolo della vita ricorse a
s. Abaco fiduciosa, e promise di visitare il suo Santuario sul monte di
Caselette. Tale fu la sua fede, che sebbene già sentisse i brividi ed il tremito
della irruente febbre, invece di perdersi di animo essa raddoppiò di speranza,
ed alla fatta promessa aggiunse anche questa di fare la salita del monte a piedi
scalzi. Non era ancora finita la preghiera, che già sentitasi libera
dall'incominciato accesso mutò la prece di domanda in quella di ringraziamento,
e pochi giorni dopo si portò da ben sei miglia a compiere il voto, secondo la
fatta promessa.
Non è
da passare sotto silenzio un altro fatto a cui testimonianza esiste nel
Santuario apposito quadro.
Nel
1854, fra quei pochi che furono attaccati dall'asiatico morbo vi ebbe una donna
in Caselette che già disperata dai medici, altri quasi più non aveva attorno al
letto, che il sacerdote chiamato ad assisterla {78 [134]} moribonda. Il sacro
ministro la stava preparando all'estremo passaggio. Buon per lei che quel pio
consolatore, inspirato da Dio, pensò a suggerirle di rivolgersi al Patrono della
cappella della montagna. Il pericolo era imminente, ed a sperare una guarigione
bisognava voler proprio un miracolo. Avendo per altro detto il Signore che colui
il quale è armato di viva fede sarebbe capace di smuovere pur anco le montagne,
non è maraviglia se questa donna ottenesse il premio della sua fede, e che fra
pochi giorni ridonata a salute abbia potuto ringraziare Iddio del ricevuto
favore, ed attribuire alla intercessione del glorioso s. Abaco la grazia per cui
lo aveva supplicato.
Moltissime altre tabelle appese a quelle sante mura ricordano consimili
guarigioni. E per lasciare le più antiche, delle quali si ha solamente quella
memoria che ne desta l'appeso dipinto, sono ancora presenti in Caselette le
angoscie ed i timori di quella famiglia a cui appartenevano due giovani infermi,
accanto al cui letto piangevano e pregavano ad uno la madre, all'altro la sposa.
Di questi ridonati a salute parla ancora ai Caselettesi la fresca memoria, {79
[135]} mentre ai posteri ne parleranno i due quadri appesi nel sacro tempio a
ringraziamento ed a riconoscenza.
È
consolante il girare lo sguardo attorno a quelle pareti; e mentre questo rapido
volgere di occhi è sufficiente a forzare chicchessia a confessare quante
giustamente appartenga a s. Abaco e compagni il glorioso titolo di Patroni dei
febbricitanti, chiaramente pure dimostra non esser meno loro dovuto il titolo di
protettori in ogni qualunque necessità. E questo lo sa bene il popolo di
Caselette e di altri circostanti paesi che loro giammai non ricorse invano, sia
quando il cielo di bronzo pareva volesse negare la pioggia alle inaridite
campagne, sia quando rotte le cataratta stava sospirando la benefica serenità e
calore. Oh è bello allora il vederlo salire processionalmente al sacro Monte,
prostrato dinanzi al venerato altare, pregare, supplicare ... ed
ottenere!
E poi
che cosa vogliono indicare tanti altri dipinti, nei quali sono rappresentati ora
uno che precipita dall'alto di un fenile, ora un altro dal tetto di una casa,
ora un terzo dalla cornice di una chiesa? E qui costui che scampa dalla rovina
di {80 [136]} un antico muro che gli precipita addosso, e questi che sepolto
sotto una enorme frana di terra n'esce con salva la vita in tanto rischio? E
quell'altro che rovesciato il carro si strascina carpone da sotto la catasta
delle ammonticchiate legna che gli pesano sopra? E quello che nell'istante di
precipitare dal ponte in un torrente, è salvato per ispeciale favore
dall'imminente pericolo? E poi là sulla montagna quel cacciatore a cui lo
schioppo s'infiamma colla bocca al petto; e quello a cui la pistola scoppia
improvvisa fra le mani e per ultimo quel misero, che già travolto dalla corrente
delle acque, l'unica sua speranza ripone nella elevata cappella, che dalla
montagna gl'inspira fiducia, e gli promette salvezza? Coloro, che appesero
questi votivi ricordi, sono altrettanti divoti, i quali riconobbero la loro
salvezza dalla protezione dei Patroni di questo Santuario.
Uno ve
n'ha fra tutti, che per la gravezza del pericolo che rappresenta dà argomento ad
ammirare la grandezza del visibile ottenuto favore. Sono due minatori che nel
basso di un profondo pozzo lavorano a scavare il duro masso colle apprestate
polveri. Rinchiusi fra quelle mura di {81 [137]} macigno, vicini l'uno
all'altro, non possono muovere addietro un passo, non possono allontanarsi di un
dito dal tremendo inevitabile scoppio che li minaccia entrambi. Nel bel mezzo di
essi si è improvvisamente infiammata la mina. Lo scoppio è immenso, micidiale,
tremendo. Il fuoco si sprigiona repentino dal sasso, ed insieme col fuoco una
grandine di pietre e di frantumi è scagliata all'intorno. Non v'è scampo pei
miseri sepolti, e se ad annichilarli non basta la terribile mitraglia che si
solleva da sotto ai loro piedi, un secondo pericolo non meno gravo, tuttora li
minaccia. Le pietre scagliate all'insù dalle accese polveri ripiombano gravi e
micidiali sulle loro persone. Non vi è riparo, ne' mezzo a salute ... E pure
sono salvi ed illesi: nulla hanno sofferto; si trovano non solo vivi, ma quasi
senza graffiatura in mezzo a tante cagioni di morte! Estratti da quel profondo è
un interrogarli, un domandare, che fu? che non fu? Come mai salvi fra tanta
rovina? ... Dessi non lo sanno. In tanto frangente non hanno nemmeno avuto il
tempo di ricorrere a Dio, nè il pensiero di stringersi al seno la medaglia di
Maria SS. che hanno appesa al {82 [138]} collo. La maraviglia è al colmo, ed è
tanto più grande, in quanto che a miracolo così evidente non si trova
spiegazione di sorta, ed ognuno sente in cuore, che se Iddio si è degnato di
accordare ai due meschini un tanto favore si è perchè vi deve esser di mezzo
l'intercessione di qualche possente Patrono. Lo stupore si cangia in
ringraziamento alla SS. Vergine Maria, ed a s. Abaco, quando il proprietario del
pozzo udito il caso portentoso è in grado di annunziare che egli riconosce la
salvezza dei due lavorieri dalla valida protezione di Maria SS. e di s. Abaco,
ai quali nel cominciarsi del pericoloso lavoro aveva raccomandato e l'opera ed i
lavoranti.
Così
Iddio si piace di onorare la memoria dei suoi santi, e questi fatti per chi ha
fede sono abbastanza eloquenti. Non è dato all'uomo di leggere negli
imperscrutabili disegni di Dio, ma quando Egli si degna di manifestarsi così
chiaramente è segno indubitabile che Egli vuole vedere in particolar modo
venerati quei santi che lo hanno servito mentre erano mortali sopra la
terra.
Felice
quel popolo che sa aprire gli occhi alla luce, e secondando i disegni di {83
[139]} Dio, si fa strumento a viemeglio onorare, e propagare la gloria de' suoi
santi; e della loro potente intercessione si fa scudo non tanto contro le
terrene disgrazie, quanto più specialmente contro le eterne. Iddio per altro non
ha solo parlato colle tante grazie di cui si è fatto cenno. Egli ha di più
parlato colla bocca del suo rappresentante in terra il sommo Romano Pontefice.
La divozione a questi santi, l'onorarli particolarmente nel piccolo Santuario di
Caseletto, non solo è approvato dal vicario di Gesù Cristo, ma è altresì
arricchito di speciali spirituali favori. Giova finire queste memorie col testo
del Breve, con cui S. S. Papa Pio IX si degnò di accordare una indulgenza
plenaria perpetua, a chi confessato e comunicato visita il Santuario di
Caselette nel giorno dedicato a questi santi Patroni.
PIO
PAPA IX.
Ad
perpetuam rei memoriam.
Ad
augendam fidelium religionem, animarumque salutem, caelestibus Ecclesiae
thesauris, pia charitate intenti omnibus e singulis {84 [140]} atriusque sexus
Christi fidelibus vero poenitentibus et confessis ac s. Communione refectis, qui
Ecclesiam in honorem Ss. Marii, Marthae, Audifacis et Habacum mm. sitam intra
fines Paraeciae loci - Caselette - nuncupati, Taurinensis Diaec, die decimo nono
mensis ianuarii, a primis vesperis usque ad occasum diei hinusmodi singulis
annis devote visitaverint, et ibi pro Christianorum Principum concordia,
haeresum extirpatione, ac s. Matris Ecclesiae exaltatione pias ad Deum preces
effuderint, pienariam omnium peccatorum suorum indulgentiam, et remissionem quam
etiam animabus Christifidelium, quae Deo in charitate coniunctae, ab hac luce
migraverint, per modum suffragii applicari posse, misericorditer in Domino
concedimus. In contrarium facientibus non obstantibus quibuscumque.
Praesentibus perpetuis futuris temporibus valituris.
Datum
Romae apud s. Petrum sub annulo Piscatoris die XX decembris
MDCCCLIX.
Pontificatus nostri anno decimo quarto.
Pro
domino
Cardinale MACCHI,
Jo. B.
BRANCALEONI CASTELLANI. {85 [141]}
Traduzione
PIO
PAPA IX.
A
perpetua memoria del fatto.
Ad
accrescere lo spirito di religione tra i fedeli e a ravvivare ognora più in essi
il desiderio della salute delle anime, coi celesti tesori della Chiesa, mossi da
caritatevole affetto a tutti e singoli i Cristiani d'ambo i sessi, i quali
veramente pentiti, confessati, e comunicati visiteranno devotamente la chiesa
eretta in onore dei santi Mario, Marta, Audiface ed Abaco situata nei fini della
parrochia del luogo detto di Caselelte della Diocesi di Torino, nel giorno
decimo nono di gennaio, dai primi vespri fino al tramontare del sole di questo
giorno in ogni anno, ed ivi pregheranno per la concordia dei Principi Cristiani,
per l'estirpazione delle eresie e per l'esaltazione di s. Madre Chiesa, noi
concediamo in nome di Dio misericordioso una indulgenza plenaria e remissione di
tutti i loro peccati, {86 [142]} da applicarsi anche a quelle anime dei fedeli
che in grazia di Dio hanno già fatto passaggio da questa all'altra
vita.
E ciò
non ostante qualunque disposizione contraria alle presenti che devono aver forza
in perpetuo nei tempi futuri.
Dato in
Roma presso s. Pietro sotto l'anello pescatorio il giorno 20 dicembre 1859, del
nostro pontificato decimo quarto.
Per
S. E.
Il
Cardinale MACCHI,
G. B.
BRANCALEONI CASTELLANI
Titolo VI. Esercizio di divozione per la novena e festa di S. Abaco e de' suoi compagni siccome si celebra ogni anno con rito solenne il 19 gennaio nel Santuario presso Caselette.
Se il
tempo lo permette si può leggere ogni giorno un capo di questo libretto nel modo
seguente: giorno 1o capo 1° pag. 3. Giorno 2° capo 2° pag. 6 e se ne
leggerà un capo in ciascun giorno della novena. Il capo 10 servirà di lettura
pel giorno della festa. {87 [143]}
Ogni giorno dopo la
lettura si dirà la seguente coroncina spirituale.
Deus, in adiutorium meum intende.
Domine, ad adiuvandum me festina. Gloria
Patri etc. Sicut erat etc.
1° O
gloriosi martiri di Gesù Cristo, e specialmente voi, o s. Abaco, che dai più
teneri anni consacraste tutto il cuor vostro al Signore; deh! accogliete le
nostre suppliche ed otteneteci da Dio la grazia di poter consacrare i nostri
cuori al divm servizio, e passare almeno il rimanente di nostra vita
nell'osservanza della santa legge del Signore.
Pater, Ave, Gloria etc.
2°
Gloriosi martiri di Gesù Cristo, voi che rinunziaste agli onori, ai piaceri,
alle vanità del mondo per guadagnarvi un premio eterno; deh! vi preghiamo,
esaudite le umili nostre suppliche ed impetrateci da Dio fortezza e coraggio
affinchè noi pure possiamo tenere a vile ogni terrena vanità, e siamo pronti a
dare ogni bene del mondo piuttostochè fare o dire alcuna cosa contraria
all'amore che dobbiamo al nostro salvatore Gesù Cristo.
Pater, Ave, Gloria etc.
3°
Gloriosi nostri protettori che guidati dallo spirito di religione affrontaste i
pericoli {88 [144]} d'un lungo e faticoso viaggio per visitare la tomba e le
reliquie dei santi Apostoli; otteneteci la grazia di poter anche noi fedelmente
venire ai vostri piedi per implorare il vostro celeste patrocinio; seguire i
vostri esempi colla fuga del peccato e colla pratica della virtù.
Pater, Ave, Gloria etc.
4°
Gloriosi modelli di santità, voi che oltre di visitare gli infermi ed i
carcerati impiegaste le vostre sostanze nel soccorrere i bisognosi, i sostenere
quelli che pativano per la fede; Deh! otteneteci i lumi necessari per fare buon
uso di quelle sostanze che Dio ci ha date, cosicchè possiamo impiegare ogni
nostra sostanza, tutte le nostre forze nel soccorrere i poverelli e sostenere
coloro che nel sacro ministero lavorano per condurre anime al
Cielo.
Pater, Ave, Gloria etc.
5°
Gloriosi santi martiri, che in mezzo a spietati tormenti non mai cessaste di
confessare la santa fede di Gesù Cristo, deh! ascoltate le nostre preghiere, ed
otteneteci la grazia di essere pur noi costanti nella pratica di nostra santa
Religione Cattolica fino alla morte.
Pater, Ave, Gloria etc. {89 [145]}
6o Gloriosi confessori della fede, che nella speranza dei beni
celesti patiste prolungati tormenti, sanguinose flagellazioni ed orrida
carrtificina, deh! vi preghiamo, aiutateci dal cielo affinchè noi pure possiamo
tollerare con rassegnazione la perdita di ogni bene temporale e qualunque
tribolazione che a Dio piaccia mandarci nel corso di nostra vita
mortale.
Pater, Ave, Gloria etc.
7o O fedeli e forti confessori della fede, che, terminando la vita
fra i tormenti e cantando inni di gioia, volaste gloriosi a godere la
incomprensibile felicità del cielo; deh! umilmente vi preghiamo ad ottenerci il
Divino aiuto affinchè noi pure possiamo superare i.pericoli della presente vita
e infine spirare l'anima nostra pronunciando i dolci nomi di Gesù, di Giuseppe e
di Maria.
Pater, Ave, Gloria etc.
8o O gloriosi e fortunati abitatori del cielo, voi che colla santità
della vita, coi patimenti sofferti vi siete guadagnato una felicità che godete
da molti secoli e godrete in eterno; deh! aiutateci, affinchè vi possiamo
imitare nelle vostre virtù per essere poi un giorno partecipi della medesima
vostra gloria in Paradiso.
Pater, Ave, Gloria etc. {90 [146]}
9o Gloriosi santi martiri che foste dal Signore a noi dati per
protettori nei bisogni spirituali e temporali; deh! otteneteci da Dio la grazia
di poter corrispondere ai benefizii ricevuti, e così mediante il vostro potente
patrocinio possiamo in avvenire tener una vita di buon Cristiano, fere una santa
morte e giungere un giorno all'immensa felicità del cielo per ringraziarvi dei
benefizii che ci avete fatti e nel tempo stesso benedire e lodare Iddio con voi
in eterno.
Pater, Ave, Gloria etc.
INNO.
Sanctorum meritis inclyta
gaudia
Pangamus, socii, gestaque
fortia:
Gliscens fert animus promere
cantibus
Victorum genus optimum.
Hi sunt, quos fatue mundus
abhorruit;
Hunc fructu vacuum, floribus
aridum
Contempsere tui nominis
asseclae,
Iesu Rax bone
coelitum. {91 [147]}
Hi pro te furias,
atque minas truces
Calcarunt hominum, saevaque
verbera;
His cessit lacerans fortiter
ungula,
Nec carpsit penetralia.
Caeduntur gladiis more
bidentium:
Non murmur resonat,
non quaerimonia:
Sed corde
impavido mens bene conscia
Conservat
patientiam.
Quae vox, quae
poterit lingua retexere
Quae tu
Martyribus munera praeparas?
Rubri nam fluido
sanguine fulgidis
Cingunt tempora
laureis.
Te, summa o Deitas
unaque, poscimus,
Ut culpas
abigas, noxia subtrahas,
Des pacem
famulis, ut tibi gloriam
Annorum in
seriem canant.
Amen.
Orate pro nobis, beati martyres
Christi.
Ut digni efficiamur
promissionibus Christi.
OREMUS
Exaudi, Domine, populum tuum cum Sanctorum tuorum
patrocinio supplicantem: ut et temporalis vitae nos tribuas pace gaudere, et
aeterna reperire subsidium. Per Dominum. {92
[148]}
Versione
INNO.
Dei Santi ai meriti
solenni onori
Rendiamo unanimi e
al forte oprar;
Con lieti cantici
quei Vincitori
Il cor tripudia di
celebrar.
L'empio abborrivali
quai stolti un giorno:
Essi sprezzaronlo
per Te, Signor;
Qual mondo sterile
e disadorno
Di frutti ingenui,
di eletti fior.
Per Te le furie
degli empi e l'ire
Calcaro intrepidi
con franco piè,
Nè d'unghie ferree
l'aspro martire
Gli Spirti indomiti
piegar potè.
Mentre si scannano
quai pecorelle,
Non s'ode un
gemito, non un sospir;
Con cuore impavido
quell'alme belle
Sfidan l'orribile
lungo soffrir.
Qual premio ai
Martiri sia in Ciel serbato,
Gran Dio, degli
uomini chi dir saprà?
Ecco al purpureo
stuolo beato
Un serto fulgido
già in fronte sta.
Te, somma Triade,
preghiam ferventi
Deh! tu purifica la
mente e il cuor;
E in tutti i sscoli
de' dì vegnenti
Gloria a te
cantisi, o gran Signor. {93 [149]}
Indice
Capo I Fonti da cui
ricavansi le memorie riguardanti a questi santi
|
Pag
3
|
Capo II Genitori
de' Ss Audi face ed Abaco - Educazione data alla loro figliuolanza - Loro venuta
a Roma
|
6
|
Capo III Mario
colla sua famiglia va a venerare i corpi dei santi, soccorre i prigionieri,
seppellisce i corpi de' martiri
|
9
|
Capo IV Mario colla
sua famiglia dà sepoltura a s Cirino, indi è accolto in un'adunanza di Cristiani
|
12
|
Capo V S Valentino
confessa la fede di G Cristo e dà la vista ad una fanciulla cieca
|
15
|
Capo VI
Conversione, martirio di san Asterio e della sua famiglia
|
21
|
Capo VII Martirio
di s Valentino Mario colla sua famiglia davanti all'Imperatore
|
26 {94
[150]}
|
Capo VIII Mario,
Marta, Audiface ed Abaco disprezzano le minacce e le promesse di Musciano,
perciò sono battuti con verghe e posti sopra l'eculeo
|
Pag
30
|
Capo IX Mario,
Marta, Audiface ed Abaco sottoposti al fuoco, agli uncini, sono loro troncate le
mani Parole di s Marta e di s Abaco
|
34
|
Capo X Mario,
Marta, Audiface ed Abaco condotti per Roma incatenati; in fine sono tutti
coronati del martirio
|
37
|
Capo XI Trasporto
delle reliquie dei Ss martiri Mario, Marta, Audiface ed Abaco in varie chiese di
Roma
|
41
|
Capo XII Trasporto
delle reliquie dei medesimi santi in altri paesi
|
45
|
Capo XIII Trasporto
delle loro reliquie in Germania insieme con quelle di s Marcellino e Pietro
martiri
|
48
|
Capo XIV Miracoloso
riconoscimento delle reliquie dei santi Mario, Marta, Audiface ed Abaco
|
53
|
Appendice sul
Santuario dedicato a s Abaco presso Caselette {95 [151]}
|
|
Titolo I Origine di
questo Santuario
|
Pag
58
|
Titolo II Stato
della Cappella di s Abaco sul monte di Caselette in varie epoche
|
63
|
Titolo III Visita
delle regine Maria Teresa e Maria Adelaide di Savoia alla cappella di s Abaco -
Stabilimento della Via Crucis
|
67
|
Titolo IV
Continuazione dei lavori ed ampliazione
|
72
|
Titolo V Grazie
speciali ottenute ad intercessione di s Abaco dai divoti che gli si
raccomandarono Breve di S S Pio IX
|
76
|
Traduzione del
Breve
|
86
|
Titolo VI Esercizio
di divozione per la novena e festa di s Abaco e de' suoi compagni, siccome si
celebra ogni anno con rito solenne il 19 gennaio nel Santuario presso Caselette
|
87
|
Con approvazione
della Revisione ecclesiastica {96 [152]} {97 [153]} {98 [154]}
|
[1]Ecco l'iscrizione: - In nomine Domini. Anno domini MCCXXVIII,
Pontifìcatus domini Gregorii Papae, indictione V, Mense Januario, die XVIII,
inventa sunt corpora Beatorum martyrum Marii et Martbae -
[2]Eginardo nato di famiglia franca nelle Provincie di Starkerborgo nel
Granducato di Assia, ebbe per maestro Alcuino, da cui ricevette lezioni e
scienza. Assai stimato da Carlo Magno divennegli segretario, ed aveva la
sopraintendenza delle case e dei palazzi imperiali. Alla morte di Carlo Magno,
Ludovico il pio l'ebbe pure in grande onore e stima. Aveagli affidata
l'educazione del suo figlio Lotario, sel tenne in conto d'amico e confidente, e
fattolo suo consigliere, lo volle sempre ai fianchi, quando discutevansi
nell'assemblea gl'interessi dello Stato. Eginardo avea sposato Emma parente
dell'Imperatore (alcuni la vogliono figlia di Carlo Magno) la quale viveva
ancora nell'anno 815, e si ha un diploma di Ludovico, con cui concede ad
Eginardo, ed a sua moglie Emma la terra di Michlinstadt, luogo solitario nella
selva di Ottenwald, tra il fiume Necker ed il Meno; e le due terre di Mulinheim
superiore ed inferiore, situate entrambe sul fiume Meno. Poco dopo Emma morì, ed
Eginardo vestito l'abito di S Benedetto tutto si occupò del servizio di Dio, ed
a propagare la venerazione dei Santi, sebbene l'Imperatore l'abbia sempre voluto
a parte del suo consiglio.
[3]Ciascuna delle 15 cappellette porta il nome de l'oblatore che la fece
costrurre. La l.a al cominciare della salita, dedicata alla SS. Vergine della
Consolata, è del conte Cays, insigne benefattore del Santuario e caldo promotore
di ogni opera di pubblica beneficenza. La 2.a in cui principia la Via
crucis, e ne rappresenta la prima stazione, è della contessa Gabriella
Ferrere, e cavaliere Policarpo Piossasco. La 3.a è di Ignazio Bertolotto del
luogo di Caselette. La 4.a è del teologo Matteo Tivano Prevosto, e fratelli
teologo Domenico, e sacerdote Michele Tivano. La 5.a del capo mastro del
villaggio, Sanguinetti Felice. La 6.a di 4 oblatori, Garrone di Pianezza,
Pacchiodo, Ronco, e Vittone. La 7.a della associazione degli uomini di
Caselette. La 8.a del cavaliere Bergalli Lorenzo e cavaliere Benfà Carlo. La 9.a
della associazione delle donne di Caselette. La 10.a del conte Carlo Cays. La
11.a del conte Luigi Cays suo figlio. La 12.a del conte Eugenio Ponziglione. La
l3.a delle loro Altezze i Reali Principi di Savoia. La 14.a di S. M. la Regina
Maria Teresa. La 15.a della contessa Adelaide Provana del
Sabbione.
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