Padre Stefano Igino Silvestrelli e la segnaletica dell’abito ecclesiastico
Padre Stefano Igino Silvestrelli nasce a Porcino (provincia di Verona), piccola frazione della parrocchia di Pazzon nel comune di Caprino Veronese il 1 gennaio 1921 dai genitori Luigi Silvestrelli e Regina Giacomazzi. Don Francesco Silvestrelli fratello del papà tiene con sé nella canonica di Gargagnano di cui è parroco il suo nipotino “Gino” (così verrà sempre chiamato Igino mentre Stefano sarà per i documenti).
All’età di 5 anni il piccolo si improvvisa un buon predicatore esibendosi con audacia dall’alto pulpito della chiesa parrocchiale. Lo zio lo manderà un quinta elementare dai salesiani di Trento nella loro scuola apostolica. Qui verrà educato allo spirito di don Bosco e ne rimarrà per sempre segnato acquisendo una fede ardente, una gioia contagiosa, un amore grande per la categoria adolescenti che caratterizzerà la sua vita sacerdotale.
Per ragioni di salute esce dai Salesiani dopo aver quasi concluso il noviziato. Dopo varie peripezie approda al Seminario di Verona e verrà ordinato sacerdote da mons. Girolamo cardinale il 7 luglio 1946. Viceparroco a Bosco Chiesanuova e poi a Bordolino, lascia una traccia indelebile della sua santità in queste parrocchie che poi l’aiuteranno nella Fondazione dell’Opera.
Il 28 gennaio 1956 Mons. Giovanni Urbani , Vescovo di Verona, darà inizio autorevolmente alla nuova congregazione dei Servi e delle Serve di Nazareth per la salvezza spirituale degli Adolescenti. Il 29 gennaio 1957 padre Igino farà benedire da parte di mons. Urbani una statua dell’angelo custode in bronzo posta a difesa sui tetti appena completati della casa della nuova casa Oasi Sacra Famiglia a Bosco. Negli anni seguenti Padre Igino svilupperà ulteriormente l’Opera aggiungendo i due rami degli Aggregati Sacerdoti e Sposi in cammino. Carico di meriti il fondatore si addormenta nel Signore attorniato dai suoi Figli e Figlie spirituali l8 febbraio 2012, nella Casa di Nazareth di Solane. L’11 febbraio, memoria della Madonna di Lourdes vengono celebrati dal vescovo Mons. Giuseppe Zenti solenni funerali nel duomo di Verona con 153 sacerdoti concelebranti e numerosi fedeli in gran parte giovani.
Riguardo all’abito ecclesiastico dei sacerdoti e dei religiosi in una delle sue meditazioni intitolata “ Non possiamo tacere” così scriverà: “ sta bene affrontare in questo contesto l’argomento dedicato e stimolante dell’abbigliamento ecclesiastico. Ci introduciamo con una domanda seria e impegnativa: predichiamo noi sacerdoti e religiosi, persone totalmente consacrate al regno di Dio, al vangelo, alla redenzione universale anche con l’abito, segno visibile della nostra appartenenza al Cristo? Se siamo costituiti per essere la rappresentazione e il prolungamento sacramentale di Gesù Cristo buon pastore, capo e sposo della chiesa, se siamo profeti che testimoniano come Gesù ha vissuto su questa terra, non possiamo misconoscere il dono di Dio, svilire la nostra vocazione-missione, nascondere la nostra identità e camuffarci come fedifraghi.
“ Non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa la luce a tutti quelli che sono nella casa” ( Mt 5,14-15).
Se la nostra testimonianza si rivela ogni giorno più necessaria, non sarà altrettanto importante e urgente che la nostra persona parli, significhi e illumini anche con la foggia del vestire? Noi siamo noi, per così dire, ufficialmente abilitati e autorevolmente inviati ad annunziare Cristo Gesù? Che cosa potremo offrire alla Chiesa in sostituzione dell’evangelizzazione che va compiuta “ factis et verbis”? Non sempre avremo modo di parlare, ma sempre abbiamo la possibilità di esibire una buona segnaletica di Cristo nello stesso nostro vestito. Accogliamo l’invito materno della Chiesa come risulta dal Codice di diritto Canonico e riluce nel Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri:
“ I chierici portino un abito ecclesiastico decoroso secondo le norme emanate dalla Conferenza Episcopale e secondo le legittime consuetudini locali” ( Codice di diritto canonico, can. 284)”.
“ In una società secolarizzata e tendenzialmente materialista, dove anche i segni esterni delle realtà sacre e soprannaturali tendono a scomparire, è particolarmente sentita la necessità che il presbitero uomo di Dio, dispensatore dei suoi misteri sia riconoscibile agli occhi della comunità, anche per l’abito che porta come segno inequivocabile della sua dedizione e della sua identità di detentore di un ministero pubblico.
Il presbitero, ma anche per il suo vestire in modo da rendere immediatamente percepibile ad ogni fedele, anzi ad ogni uomo, la sua identità e la sua appartenenza a Dio e alla Chiesa. L’abito ecclesiastico è il segno esteriore di una realtà interiore: “ infatti, il sacerdote non appartiene più a se stesso, ma, per il sigillo sacramentale ricevuto ( cf. catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1563, 15829), è proprietà di Dio. Questo suo essere di un altro deve diventare riconoscibile da tutti, attraverso una limpida testimonianza. Nel modo di pensare, di parlare, di guidare i fatti del mondo, di servire ed amare, di relazionarsi con le persone, anche nell’abito, il sacerdote deve trarre forza profetica dalla sua appartenenza sacramentale”.
Indossare l’abito clericale funge inoltre da salvaguardia della povertà e della castità” (CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, 11.II.2013, n. 61). Anche il vestito può richiamare l’attenzione a realtà trascendenti, come una fredda segnaletica può salvare da incidenti mortali.
AMDG et DVM
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